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domenica 20 ottobre 2019

Tutti a casa, la perfezione formato canzone


Faccio molta fatica a scrivere, ormai. Tanto più adesso, con la Bice che ha poggiato il muso sul mio avambraccio destro, ostacolandomi nei movimenti.
Fuori è più grigio di lei, nella più classica delle domeniche viennesi di quasi tutto l'anno. Non è il freddo ad impensierirmi, non più di tanto, almeno, ma proprio questa uniforme mancanza di colore.
E dire che ci sono parchi e spazi verdi in buona parte della città. Basta avere la voglia di uscire e raggiungerli. 
Oggi proprio non mi va.

Mi sento molto in sintonia con la canzone del mio amato avvocato, che vi linko sopra. Vedo la stanza illuminata e quest'uomo non più giovane che pensa alla donna che si scalda le gambe davanti al falò.
Non ho mai avuto un caminetto, ma, ascoltandola, mi pare di averlo fatto pure io, molte volte, di scaldarmi le gambe davanti al legno che scoppietta.

Vedo il giallo della luce artificiale, di una tonalità antica, come quella della cucina di una nonna. Vedo una donna con le calze di nylon e la gonna, davanti al camino, lo scialle sulle spalle. E' ancora giovane, non arriva ai quarant'anni, è in carne quanto basta, come usava fino a qualche tempo fa.
L'uomo che si scalda dentro, al pensiero di lei, potrebbe essere un po' più vecchio, l'ha corteggiata a lungo tempo prima, ma lei non ha ceduto. O forse sì, ma solo per poco.
Poi è arrivato l'autunno, e poi l'inverno e poi di nuovo ancora altre stagioni, fino al presente raccontato nella canzone, in cui l'uomo la ricorda, guardando dalla finestra la vita nelle strade.

Davvero difficile digitare con la gatta sul braccio, perdonatemi la scusa patetica.

Nella canzone c'è una perfezione difficile da descrivere. Ha un incipit, uno sviluppo e una fine inframmezzati dal ritornello e il suo canticchiare muto. Mi commuove e insieme conforta. 

E dire che mi è venuta in mente, in questi giorni, per il titolo, mossa com'ero dal desiderio di battere in ritirata a guardare il mondo dalla finestra immaginando e rievocando quello che c'è stato e non c'è stato, come l'uomo che pensa alla donna con le calze di nylon e la gonna.

La bellezza, al contrario, spinge all'azione.
Nonostante l'inverno che c'è, nelle strade c'è vita. 
Soltanto dopo averle attraversate, si torna tutti a casa, ci si prepara un piatto caldo, un bicchiere di vino, qualche castagna, arrendendosi, pacificati, alla notte sempre più lunga.

In attesa che torni la luce, che è lì, pronta a riportarci tutto il fuoco che ci vuole. Quello di un amore vero, magari, dal quale tornare per chiudere fuori il mondo freddo, come in un'altra famosissima canzone del mio avvocato.

Sì, la sa proprio lunga il Maestro: mai trovato nessun altro capace di giocare con la malinconia come lui con questa meravigliosa leggerezza.

It's wonderful, really wonderful, oh sì.
Good luck, my baby.
A tutti noi. 

sabato 8 luglio 2017

Voglio di più, stop agli anni amari



Sto per scrivere parole di lagna e di dolore, ma ne ho bisogno, quindi passate oltre, se vi annoio.
Ho scoperto Chantal Kreviazuk grazie a mio marito, molto attento alla musica, tanto più se declinata al femminile.

Lei è un'artista canadese a tutto tondo: oltre a cantare magnificamente, scrive musica e parole, recita ed è pure madre, mi pare di tre figli. In più, è bella e di classe, insomma: una strafiga, almeno per i miei parametri.
La canzone "Into me" che linko sopra fa parte dell'ultimo album intitolato "Hard sail", dedicato al suo matrimonio (in estrema sintesi): il marito di Chantal, manco a dirlo, è un musicista come lei, è belloccio e ora che ci penso sto per avere un attacco di bile.

Scherzo: mai stata un tipo invidioso, io. 
Il che porta al risvolto patetico della faccenda.
Non conoscevo il testo di "Into me" fino a pochissimo tempo fa, quando me lo sono scaricato.

Parla dell'inizio di una storia d'amore e dell'incredulità che prova lei, che al risveglio accanto a lui, si sente invadere dalla gioia quando realizza che lui, sì, proprio lui, non sta andando da nessuna parte.

Non capendone le parole (Chantal gorgheggia "you're not, you're not"), mi ero fissata sulla strofa in cui dice "I want more, I want more", seguito davari "more" in crescendo. 

Correndo con la sua musica nelle orecchie, li ho gridati un sacco di volte, come un inno di guerra (non senza prima essermi guardata intorno: folle sì, ma in solitaria).

"Voglio di più, di quello che credi", diceva Pino Daniele in tutt'altra canzone, parlando, in questo caso, di "anni amari".

Ne ho vissuti parecchi, di anni amari. Ora basta.
Curiosamente, mi sono ricordata di un monologo che in tempi non sospetti mi avevano affidato nella compagnia amatoriale di Chieti Scalo che ho frequentato nel periodo di transizione tra l'università e la scuola di giornalismo, che fino a poco tempo fa ho creduto fosse il più buio della mia vita.

Non rammento più le parole precise, ma impersonavo una donna forse dell'età che ho adesso, che racconta i fatti suoi ad altra gente seduta come lei sulle panchine di un parco.

"Ho avuto anni buoni nella vita, diciamo pure cinque o sei", dicevo a un certo punto. Più avanti nominavo quel "tarlo" che all'improvviso ti entra nella testa levandoti la serenità.

Quel monologo mi ha portato una iella pazzesca o più semplicemente, devo rassegnarmi, io non sono predisposta al "successo".

Davvero non so spiegarmi altrimenti il perché di alcune scelte di vita, alcuni cambi di rotta e ora, a pochi giorni dal mio compleanno, perché mi ritrovi ancora a comportarmi come una vecchissima adolescente.

In verità adesso so che cosa mi farebbe stare meglio, ma purtroppo non posso ottenerlo perché non dipende solo dalla mia volontà.
La visione americana dell'esistenza rassicura e quando la vedi nei film ti pare di poterla inverare pure tu (mi riferisco a quelle atmosfere da "Fame" e ai sogni da afferrare al volo).

La realtà è diversa, anche se, come si vede nel romantico video di Chantal, può capitare di avere "anni buoni" nella vita, momenti di gioia pura che poi non dimenticherai più.

La felicità insomma esiste, ne sono certa, ma è fatta di tanti "hard sails", duri viaggi come dice la bella canadese, da affrontare, se possibile, in due o più (in un'intervista parla con grande ironia e franchezza delle madri che diventano "bestie" pur di proteggere i loro cuccioli).

Non tutti abbiamo, però, uguale forza e fortuna per affrontare al meglio il lato "hard" della faccenda.

Sono scappata troppe volte spaventata non so bene da cosa, dalla città in cui sono cresciuta, dai lavori più strutturati. Persino la facoltà universitaria che ho scelto è indice della mia grande irresolutezza.

Ormai è tardi, troppo tardi, per molte cose, ma per lo meno ho imparato a godermi il più possibile gli attimi di leggerezza ogni volta che si presentano.

Vorrei solo scrollarmi di dosso del tutto questo senso di inadeguatezza alla vita che mi "pietrifica", come dice la Kreviazuk, parlando della paura che prova al pensiero che lui possa andarsene.

Al contempo, so che è giusto occuparsi del genitore in difficoltà, tirando fuori tutta la maturità di cui sono capace.

Si farà tutto quello che si deve, come sempre.
Spero solo di non arrivare alla fine della mia vita con quest'ombra di fallimento che mi porto addosso da troppo tempo. 

Voglio di più, voglio di più. 
Di più.

Un giorno imparerò a cantarlo per bene (la mia giovane insegnante di canto spero abbia abbastanza pazienza e pietà). E chissà se basterà questo per ottenerlo. 
Crediamoci.
Non ho altra scelta, d'altra parte.

venerdì 21 aprile 2017

La vita che ho deciso arriverà: grazie, Paola Turci


Ho fatto una full immersion nella musica di Paola Turci per motivi di lavoro.
Mi ricordavo perfettamente Bambini che, non so dirvi perché, ma mi ha sempre colpito.

Quasi quasi mi vergognavo ad ammettere che mi piacesse, per quella forma di snobismo di sapore universitario dalla quale faccio ancora fatica a liberarmi.

Ebbene: ora lo dico.
Paola Turci fa un ottimo pop, nutrito tra l'altro da una grande voce e una notevole professionalità.

Ce ne fossero di cantautrici così in questo Paese di dilettanti.
Non che abbia nulla in contrario sul legittimo desiderio di cimentarsi con le arti: l'importante è sapere che c'è una bella differenza tra chi conosce il mestiere grazie anche alla lunga gavetta che la medesima Turci dice di aver fatto, e chi ne fa il più appassionato degli hobby.

Ho scelto questa canzone dell'album uscito lo scorso 31 marzo intitolato Il secondo cuore perché ne cita le parole in un verso. Avrei voluto metterci direttamente l'omonima che ha scritto per lei Enzo Avitabile, ma non sono riuscita a trovarla. 

La Turci mi ha spiegato che cosa significhi per lei questa espressione (lo sta dicendo a tutti i media che la stanno intervistando in questo periodo, per la verità), ma io gliela rubo per i miei tristi scopi da blogger.

Non si rinasce, almeno, non si rinasce una volta sola, considera la cantautrice, ma tutto ciò che siamo è frutto di ciò che siamo stati, quindi di continue trasformazioni. O rinascite, se ci piace di più.
Cambiamo, rinasciamo continuamente, fino alla fine, insomma.

Bella scoperta dell'acqua calda. 
Può essere. Però è vero che ci sono alcuni momenti speciali in cui avvertiamo più profondamente il processo di cambiamento. O di liberazione da inutili fardelli

Sento molto questo genere di messaggio nell'album della Turci, indipendentemente dagli arrangiamenti che non sempre mi convincono, in qualche caso usati (a mio avviso) per strizzare l'occhio ai consumatori di radio commerciali.

Mi piace la sua energia, mi ci riconosco, o forse aspiro a qualcosa di simile pure per me.

Credo dipenda dalla sua maturità come donna, penso davvero che il suo "fatti bella per te" possa significare molto per chi sta facendo i conti con il tempo che passa.
Il messaggio sarà anche semplice, detto diversamente, ma funziona, proprio perché detto da questa professionista dello spettacolo. 

Vent'anni fa, esattamente in questo giorno, mi sono laureata.
Doveva essere una data felice, di quelle che ti proiettano nel futuro.

Ci ho messo almeno una decina d'anni per superare il grosso delle conseguenze della mia prima vera crisi di crescita.
I dieci successivi mi sono serviti per recuperare il sorriso, lo stesso, ebbene sì, che ho visto nelle interviste e nelle clip di questa signora della musica.

Non si guarisce mai del tutto, ma niente, davvero niente, resta com'era. Per fortuna.

E' proprio questo passaggio della canzone che le ha scritto Avitabile ad avermi colpito di più.
In questo, secondo me Turci & co ci hanno visto giusto.

Quando capisci che va bene così, in conclusione, ossia quando lasci cadere illusioni e falsi miti, è proprio allora che tiri fuori il meglio di te.

Certo: ci vogliono denari o altro genere di risposte concrete, ma mi sono convinta da sola, già da prima di incrociare Paola sulla mia strada, che predisporsi al cambiamento porta qualcosa.

Ti aspetto al varco, vita che ho deciso.

mercoledì 28 gennaio 2015

Andre Agassi, la palestra e il mio motto del 2015: prima senti, poi (forse) pensa


Abbiamo posato per questa fotografia giovedì dell'altra settimana.
Per chi non dovesse riconoscermi subito, dico solo che di sicuro non sono tra le ragazze (e l'unico uomo del gruppo, l'insegnante di yoga Raul) in piedi.

Due giorni prima ci avevano esortato a indossare la maglia nuova della società sportiva Fermo 85, di cui faccio parte ormai da quasi cinque anni. Non riesco ancora a credere che sia passato già così tanto tempo, anche perché i primi due anni (o giù di lì) non mi sarei mai immaginata quanto quelle ore che trascorro lì, mescolata a signore e ragazze delle età più disparate, sarebbero diventate per me boccate preziose di ossigeno.
Chi mi conosce lo sa, perché ne parlo spesso: sono grata alle istruttrici Tiziana Bastiani e Rita Sacripanti (e pure a Raul, di cui, ahimè, ignoro il cognome) per avermi spinta a prendermi di nuovo cura del mio corpo.

Ho sempre amato fare sport all'aperto: a tennis, purtroppo, sono riuscita a giocare solo poche volte dalla scorsa estate durante la quale mi ero ripromessa di ricominciare e tuttavia adesso so con certezza che, volendo, potrei farlo.
Adoro sentire i miei muscoli che lavorano, il cuore che accelera e il sudore che m'imperla la schiena. Mi piace constatare che riesco ancora a piegarmi piuttosto bene e che, tutto sommato, riesco a cavarmela pure con le coreografie di step e aerobica, verso le quali, da ragazza, provavo una certa ostilità.

Tutto è cominciato, del resto, quando ero molto piccola, forse verso i 7-8 anni: cicciottella com'ero, mia madre pensò che potesse farmi bene muovermi un po', così mi iscrisse a un corso di ginnastica ritmica. Ero veramente negata: ricordo ancora, a essere sincera, come si fa il passo composto, ma detestavo che mi si dicesse di muovermi a comando.
Eppure fisicamente ero assai sciolta. Lo giuro, non sto scherzando: riuscivo a scendere in spaccata facendo giusto un salto nell'aria. Sapevo portare su soprattutto la gamba sinistra come vedevo fare da Heather Parisi.
Bastava però che mi si dicesse di seguire dei passi pre-costituiti perché andassi in crisi trasformandomi in un legnaccio inamovibile.

Ero pure dotata di un discreto scatto, come ebbi modo di sperimentare sulla pista d'atletica dello stadio Angelini di Chieti Scalo qualche anno dopo il fallimento con la ginnastica ritmica. Vinsi una gara, anche, ma non c'era storia: gli altri bambini erano più piccoli, non potevo che essere la più forte.

Al liceo, infatti, quando mi spedirono a gareggiare, fallii miseramente: persi l'equilibrio direttamente sui blocchi di partenza e uscii subito dalla corsia. Ho sempre detestato i rumori forti: il bang della pistola, probabilmente, doveva avermi messo paura prima ancora di essere esploso. Ma non cerchiamo scuse patetiche, soprattutto a distanza di ben trent'anni.

Poi c'è stato il tennis, di cui ho già parlato in un post.
Qui dico solo che ho appena finito Open in inglese, l'autobiografia di Andre Agassi, aggiungendo che avrei dovuto leggerlo anni fa per fare pace con la mia ansia da prestazione. Anche perché, a differenza del grandissimo campione di Vegas, come lui chiama la sua città natale (anche se il padre è di origini iraniane), a me nessuno ha mai chiesto di tirar fuori un talento che non ho mai sicuramente mai posseduto, a differenza sua e della grandissima (e strafichissima) moglie Steffi Graf.

E tuttavia consiglio Open a tutti quelli che amano lo sport e le sfide in generale: per affrontarle, dice in soldoni Andre e il suo ghost writer (che il campione ringrazia pubblicamente nella post-fazione, il che me lo ha reso decisamente più simpatico di come lo percepivo inizialmente quando, snobisticamente, dicevo di NON volerlo leggere), bisogna smettere di pensare e imparare, invece, a sentire.

Se pensi di vincere, non vinci; se senti che qualcosa può accadere, accadrà, se non proprio quella, magari un'altra, persino più importante.

Per lui, nella versione romanzata del suo passato di campione riluttante, smettere di giocare ha coinciso con una vera e propria rinascita. L'Agassi di oggi, un anno e poco più di me, è un uomo completo, e lo si vede anche nelle interviste. Per quanto siano costruite (gli americani sono dei maestri nelle fiction: pure la più scalcinata è più credibile di una qualsiasi soap nostrana), basta guardare Andre negli occhi per capire che, diamine, è uno felice ed è talmente felice che non si vergogna di farcelo vedere. Beato lui. E beata Stefanie (come preferisce farsi chiamare la sua bionda consorte) e i loro bambini.

Come tutti gli esseri umani, avranno (e provocheranno) di certo scazzi, dolori, frustrazioni, meschinità, etc etc, ma guardandoli insieme nell'intervista alla BBC che linko sotto, ho avvertito la stessa naturale energia vitale che percepisco ogni volta che vado in palestra, nella "mia" modesta palestra di provincia, tra signorine e signore di cui ignoro quasi tutto, ma con cui divido i miei sorrisi e la mia fatica ogni qual volta ci si chiede di affrontare un esercizio più complicato.

Quando sono lì dentro, mi sento forte come una campionessa, felice come una bambina e libera come una donna.

Approfitto perciò della foto di gruppo, dolcemente mossa, per l'ennesimo grazie alla vita.
Il presente è nebuloso (fuori fa un freddo cane), ma gli stati di grazia non hanno niente a che fare con i nostri pensieri e i nostri giudizi, spesso emessi a prescindere, con quella tipica presunzione di noi esseri umani.

Sentire è molto più potente. Eccome se lo è. Ogni tanto va fissato sulla carta, giusto per non scordarselo.
Non vedo l'ora che sia domani, ore 19.15.



martedì 22 aprile 2014

I riti della Pasqua e la morsa allo stomaco che ritorna

Monti Sibillini, Pasqua 2013
Quest'anno, per la prima volta nella mia vita, non ho assistito alla Processione del Venerdì Santo di Chieti.
L'ho scritto l'altro giorno su Facebook. E invece mi sono appena accorta che non era vero. L'ho saltata anche lo scorso, dal momento che ero a Castelluccio di Norcia, in un'atmosfera degna della Passione di Cristo quasi quanto quella che alligna sulle vie centrali della mia città natale, durante il paio d'ore riservato alla teoria di uomini incappucciati e di simboli del Calvario di Gesù, culminanti nel Miserere di Saverio Selecchy, una musica che dà i brividi.

Personalmente sono giunta a una conclusione che sarà probabilmente considerata eretica tra i miei amici cattolici: i riti della Pasqua mi trasmettono un indicibile senso di morte. E una cupezza livorosa che mi morde lo stomaco.
So bene che dopo (dopo quando?) c'è la Resurrezione, che simboleggia il trionfo della vita (eterna) sulla mortalità dell'uomo. Ma, sinceramente, ciò non mi consola. Affatto.

Non posso negare che il suono dei violini, delle viole e dei flauti che ti sfilano davanti mentre tu sei lì sul marciapiede a congelarti e a orecchiare, non volendo, le ciarle spesso insignificanti degli altri astanti ti strappa al presente, spingendoti ad ascoltare quelle gravi voci maschili che cantano in latino (una lingua, manco a dirlo, morta pure quella). E che, in quel momento, la morsa allo stomaco sparisce e che, tutto sommato, senti che hai fatto bene a tornarci un'altra volta.

L'armonia con la folla adorante dura però solo pochi minuti, perché dopo ti senti ancora più triste. Solitario. E finalissimo.
Accidenti che fregatura la vita, pensi anche.
Perché tutta questa sofferenza, consideri ancora.
Non parlatemi di croce e di riscatto dai mali che ci hanno angustiato più o meno tutti dopo la fine dei nostri giorni, né tantomeno della fine dei tempi, un concetto che mi ha sempre dato un'angoscia immensa.
Da bambina, anzi, ricordo che una sera non riuscivo ad addormentarmi per aver all'improvviso preso coscienza dell'esistenza del nulla.

Se finisce la terra e l'universo, mi domandavo, che cosa resta?
Forse la prima morsa allo stomaco che ho risentito distintamente nelle "vacanze" appena passate l'ho provata proprio quella sera.
Non mi dà nessuna gioia narcisistica, ve l'assicuro, essere così disincantata, quanto a visione della vita e della morte.
A volte penso che quelle donnette che l'altra sera, alla Messa di Pasqua, invocavano Cristo con foga, le eredi di quelle che udivo sgraziatamente cantare quando ero piccola (o le stesse, oggi vecchie davvero, all'epoca vecchie per nascita), abbiano ragione.

Loro un significato alla vita l'hanno trovato.
Loro sono quasi quasi contente di soffrire, perché così si sentono più vicine all'Altissimo.
Io non potrò mai essere così, ne ho la certezza.

Sto anzi meditando da qualche tempo sulla necessità di firmare il testamento biologico.
Intanto lo scrivo qua, a futura memoria: se mi rincoglionisco o divento incapace di intendere e di volere in qualche altra forma che adesso non saprei dire, voglio che mi si dia pace. Va bene anche una martellata, l'importante è che nessuno sia costretto a occuparsi di me, un sacco vuoto ancora pulsante solo di grane per gli altri.

Sono allegra, eh?
Mi dispiace, ma stavolta gira così.
Sono convinta che ci siano molte ragioni per vivere e per vivere bene, comunque al meglio delle nostre possibilità, ma proprio per questo motivo non accetto una religione che mi dica che il senso del nostro passaggio (passaggio, appunto) sulla terra sia comprensibile solo dopo che non ci saremo più o proprio in ragione delle croci che dobbiamo portare nel tempo che ci è dato in sorte.

So anche (non mi fregate, amici preti) che anche per i credenti ci sono molte cose belle: la nascita di un figlio, l'amore per i propri genitori, per dire due valori che naturalmente condivido.
E' solo che non riesco ad arrendermi ai colpi della vita, pensando che, tanto, un domani saremo tutti polvere.

E poi lo ammetto: io alla gerarchia ecclesiastica non do molto credito, perché a mio avviso, salvo pochissime eccezioni, la spiritualità è una dote personale che o c'è o non c'è. Continuo, in poche parole, a vedere ancora troppi Don Abbondio e pochi Fra Cristoforo, intorno a me. Senza contare, tra l'altro, che non capisco perché i ministri di Dio debbano essere, per l'appunto, solo ministri e non anche ministre.

E tuttavia il mio scetticismo verso i culti è democratico: non mi convincono molto neanche le altre religioni. Quasi quasi, anzi, capisco di più quelli che temono l'ira della natura e delle tempeste che può scatenare.

Per poterne disquisire con fondamento, però, dovrei studiarle, cosa che avrei fatto volentieri anche a scuola, se non fosse che il nostro prof di religione ci parlava di dove aveva comprato l'auto nuova.

Con il passare degli anni ho finito per considerare la questione "che ci facciamo su questa terra" un po' sullo sfondo, com'è, tutto sommato, logico che accada a una persona che sta crescendo.
Adesso che mi sto approssimando alla mezza età, invece, ho ripreso a interrogarmi, con un'acredine tutta nuova, sul nonsenso che ci pervade, ma non so ancora dove mi porterà questo percorso. Sempre ammesso che si tratti di un percorso e non di un girare a vuoto.

So che la fede smuove altre corde (le donnette che cantavano sgraziatamente di cui sopra, intendo), ma io, per potermi emozionare davvero, devo anche capire. O lasciare spazio al mio io più profondo, che se ne sta lì, sepolto sotto un fitto cespuglio spinoso, troppo spesso indisponibile ad ascoltare persino la mia voce disperata.

Appoggiata alla parete della brutta chiesa della mia infanzia, mi sono messa a piangere (poche lacrime che ho tentato il più possibile di nascondere), ma non per la commozione.
Ero sfinita dalla lotta che sto conducendo su troppi livelli. La crepa emotiva deve essere stata stimolata anche dall'accento spagnolo del giovane missionario e da quel messaggio con il quale ha chiuso la funzione sulla morte che vince la vita, che, non avendomi affatto persuaso, mi ha dato la botta finale.

Amico missionario, per me non è così.
La morte è morte e basta. E' assenza definitiva. E' buio.
E tu che sei tanto più giovane di me non dovresti consigliare di pensare al martirio dei santi quando una donna, credente, spaventata, ti confessa la sua fragilità.
A lei (e a me non ne parliamo) del martirio dei santi non può fregare di meno, in quel momento.
Ma tu fai il tuo mestiere, in fondo, ed è più facile essere empatici dal pulpito che non a tu per tu.

Però la faccia contrita della vicina che mi ha consigliato di non farmi vedere piangente (come se non lo sapessi da sola) e quella rassegnazione floscia al dolore no, quella proprio non posso digerirla.

Come concludere questo delirio?
Nei giorni passati avevo avuto l'istinto di entrare in qualche chiesa per tentare di fare (provarci, almeno) silenzio e mettermi in ascolto di quest'io inselvatichito.

Credo che passeranno molti giorni prima di riprovarci ancora.
Non me ne vogliano gli amici credenti.
L'ho detto: tolte le donnette che a forza di scriverlo mi stanno (quasi) diventando simpatiche, chi ha fede in qualcosa è più sereno.
Tenetevi strette le vostre fedi più profonde, quindi. Che si chiamino Dio, Allah, Budda, Manitù.

Il resto, in qualche maniera, si scriverà.

sabato 29 marzo 2014

Grazie a tutti


Questa foto risale a circa un mesetto fa, qualche giorno prima dell'aggiustatina (di poco conto) alla mia non folta chioma (ma senza neanche un capello bianco, tiè).

Ho deciso di mostrarmi qui (con la nostra gatta Bice) e anche nell'immagine del mio profilo perché... "addè" (= ora in marchigiano) basta con i travestimenti e l'infanzia.

Sono stata una bambina molto felice e so che è una gran fortuna. Ma quella bambina non c'è più da un pezzo, se non nel mio io più profondo.

E poi la foto che vedete sopra è anche su Facebook, quindi perché nascondermi proprio sul mio spazio personale?

A parte la botta un po' patetica di narcisismo (a proposito di Narciso, giusto l'altro ieri, nella lezione d'inglese con un nuovo insegnante sudafricano, ho riletto il mito di quest'ultimo e di Eco, vanamente innamorata di lui), ho deciso di mostrarmi per uno scopo preciso.

Voglio dirvi grazie.
Mi rivolgo a voi, sparuti miei lettori, di cui ignoro (forse non in massima parte, visto che siete pochi) l'identità.
Non m'importa quanti siamo, davvero.
Importa che ci siete e che dedichiate un secondo, un minuto o più alle mie frasi, ai miei video e alle mie foto.

E' un onore essere letti ed è per questo che vi dico grazie.
Oltre che un onore, è anche un miracolo essere scelti: c'è talmente tanta roba in rete che io stessa, a volte, mi domando perché qualcuno dovrebbe passare anche di qua.

E invece succede ed è bello.
Chi mi conosce o ha imparato a farlo proprio quassù sa che non me la passo proprio benissimo, professionalmente parlando.
Però ho imparato, giorno dopo giorno, a darmi sempre un obiettivo nuovo, una frontiera, anche minima, da esplorare e quando ci riesco mi sento grande.

Perciò dico a chi fosse nelle pesti più o meno come me: c'è sempre qualcosa che non abbiamo ancora fatto, c'è sempre un dettaglio che non abbiamo notato anche nel paesaggio che vediamo tutti i giorni dalle finestre di casa nostra, c'è sempre una parola nuova da imparare.

In questo periodo, per esempio, sto leggendo un libro eccezionale: parlo di Felici i felici, di Yasmina Reza. E' talmente bello che sto andando pianissimo, per gustarne ogni singolo passaggio.

Ho anche scoperto le avventura della gattina Chi, un manga giapponese, veramente molto carino.
Gli alberi sono tutti fioriti e anche se gli anticorpi scricchiolano, sono viva.

Siamo vivi.
Anche voi che mi leggete lo siete ed è sorprendente.

Ancora grazie, quindi, e ora fuori tutti: usciamo a respirare.

venerdì 15 febbraio 2013

Nikka Costa e il senso della vita



Di recente ho fatto una permanente leggera per contrastare l'effetto capello-spiaccicato che inevitabilmente si ripropone ogni volta che la poco folta chioma si allunga un po'.
Il risultato? Stamattina, guardandomi allo specchio, tolte - naturalmente - le rughe e l'abbigliamento da casalinga di Voghera (niente a che vedere con le desperate housewives Usa, tanto per capirci), sembravo Nikka Costa. E non la Nikka di oggi, classe 1972, bensì quella che ho conosciuto ai tempi del suo album con il papà Don Costa che, a pensarci oggi, deve essere stato un bel  mostro.
Ieri pomeriggio ho visto un pezzetto del concerto che la povera bambina di un tempo fece con il padre all'arena di Verona. Aveva lo sguardo terrorizzato, da bambolesca creatura costretta a un gioco troppo più grande di lei. Non so nulla di come Nikka sia cresciuta né se poi sia riuscita a cavarsela "on her own". Però lo sguardo triste che esibiva al programma di Carlo Conti, quello in cui ripescano i relitti del passato con una crudeltà e un cinismo per me insopportabile, non mi pareva finto.
Sia come sia, la sua (si fa per dire) sosia chietina è cresciuta anche (non solo, per fortuna) con le canzoni di Nikka. In particolare, ho cominciato ad apprezzarle particolarmente quando sono stata anche in grado di comprenderne i testi che, ovviamente, avevo già imparato a memoria anni prima. E sì, perché essendo una ultraquarantenne, basta farsi un po' di conti: ho cominciato a studiare Inglese in quarta ginnasio, quindi diversi anni dopo aver ascoltato per la prima volta l'LP di Nikka, di cui ricordavo alla perfezione tutte le foto e le espressioni del volto. A pensarci bene, oltre alle sue canzoni, sapevo perfettamente anche Eye of the tiger dei Survivor. E vabbè.
Veniamo al punto.
Da poco (come ho già scritto) ho ripreso a studiare Inglese con molto entusiasmo: giusto ieri, influenzata inconsciamente dal clima sanremese, mi sono messa a pensare alle canzoni che conosco a memoria per esercitarmi sulla pronuncia. Ed è così che mi si è riproposta la più famosa interpretazione di Nikka, cioè On my own. Il testo riflette tutta la retorica a stelle e strisce del sapersela cavare da soli, del self-made man (woman) e tutto il resto, però la musica stra-pop e la voce infantile della ex bambina americana mi danno ancora adesso i brividi. E mi fanno pensare che sì, l'unico modo per scuotersi da dolori e altre ambasce è uscire "da qui" e occuparsi di se stessi in piena autonomia.
Detto in altri termini, la canzone di Nikka ha influenzato la mia personalità molto più di quanto voglia riconoscere persino adesso che ne sto parlando.
C'è però un secondo brano che sento - ancora più fortemente - mio.
Si tratta di It's your dream, che avevo trascritto sul mio diario, azzardandone anche una traduzione personale.
Adesso non sto qui a riproporvela, ma voglio sottolinearne (forse per archiviarla per sempre nel mio cuore) la frase finale: "Cause you're never gonna pass this way again. No, you're never gonna pass this way again".
Non posso farci nulla: l'ho risentita e... indovinate un po'? Ho pianto. E certo. Come potevo esimermi?
A riascoltarla tutta, ne capisco oggi più che mai le ragioni.
Anche in questo caso, il testo incarna alla perfezione la retorica americana del farsi-tutti-da soli. Ma la canzone dice qualcosa in più, e cioè: se hai un sogno, cerca di realizzarlo. Non lasciare che le paure ti blocchino e anche se cadi rialzati e vai avanti. Perché se non lo fai adesso che ne hai l'occasione, non potrai farlo mai più. In breve, il buon vecchio adagio "ogni lasciata è persa", nato sul più dotto stra-citato, "carpe diem".
A quattordici-quindici anni la pensavo così, esattamente come oggi. Mi domando, certo, se l'essere già così tanto consapevole dell'esistenza dei fallimenti e della sofferenza non mi abbiano condizionato anche in negativo. Chissà che non abbia avuto troppa paura di riuscire in qualcosa al punto da non avvicinarmi mai troppo al "successo". Non so rispondere, perché forse una risposta univoca non c'è.
In ogni caso, nel complesso non mi dispiaccio (oh, Nikka Costa era una bambina molto carina....), ma mi stupisce sempre quando realizzo di non essere per nulla cambiata negli anni. Sto parlando del carattere, delle illusioni e dei sogni (per l'appunto), sempre quelli nonostante il tempo volato via davvero in un soffio.
La mia nonna materna me lo diceva spesso, guardando il paesaggio montano oltre le finestre della sua grande casa: "Dopo una certa età gli anni cominciano a scorrere più in fretta". Non riusciva a credere di aver superato i settant'anni (ai tempi dormivo spesso da lei, spedita da mia mamma che non voleva che restasse sola la notte). E, considerato il suo animo poetico e sognatore, oggi lo capisco più che mai.
Se ho scelto di presentarmi con la fotografia di me piccolina e se di recente ho ritirato fuori quel bellissimo primo piano di una me treenne al mare, è perché, evidentemente, anch'io non vivo molto nel presente. O forse no. Forse ho solo bisogno di fare il punto, di  ritrovarmi, di rivedermi per poter andare avanti lungo quella via che non potrò percorrere mai più una seconda volta.
Sì, penso sia questa la ragione del mio continuo, urgente, bisogno di amarcord.
In tutti i casi, dedico questa canzone a tutte le cercatrici di sogno, le Nikka Costa della mia generazione, sperando che ne abbiate realizzato almeno qualcuno. Buona vita a tutte.












domenica 3 febbraio 2013

Minime vittorie per grandi conquiste



Non gioco spesso a carte e mai alle lotterie: sarà per questo, probabilmente, che non vinco molto spesso.
Sia come sia, le volte in cui è successo che abbia vinto qualcosa mi sono rimaste tutte impresse nella memoria e ancora adesso, quando mi tornano in mente, mi regalano un sorriso lieve lieve.
Comincio dalla epocale partita a tennis, nel torneo detto "doppio giallo", in cui si giocava suddivisi in squadre da sette persone, ciascuna nel proprio livello. Il più scarso corrispondeva al numero 7. Com'è facilmente intuibile, io ero la settima della mia squadra. Quel giorno dovevo incontrare una donna di età per me assolutamente indefinita, anche se, a ripensarci adesso, doveva avere meno anni di quelli che ho attualmente. Io invece ero un'adolescente piazzatella ed emotiva (più o meno come ora, forse leggermente più pingue), incapace di aggressività soprattutto al di fuori della cerchia familiare. Essendo però una cancerina finita e sputata (anche se all'apparenza molto ben celata dietro l'ascendente Leone, che per fortuna sembrerebbe essermi capitato in sorte), non è mai il caso di stuzzicarmi troppo. Se pizzicata nell'orgoglio, infatti, divento parecchio (si fa per dire) pericolosa. La tipa, invece, continuava a irridermi a voce alta, lasciando intendere che con una come me avrebbe avuto vita facile. Tutti i torti, in effetti, non li aveva, visto che stavo perdendo come al solito l'ennesima sfida tipo 6-1, 6-1. La vittoria del terzo set, insomma, pareva scontata a lei e agli astanti.
E invece. Arrivammo a un quinto set serratissimo, vinto per un soffio dalla sottoscritta, grazie alla perdita di lucidità della mia avversaria, incredula troppo incredula che quel topastro bassetto gliela stesse mettendo in quel posto. Ricordo ancora la sua rabbia e la mia gioia trattenuta. Anche dopo la vittoria, infatti, mi guardai bene dal mostrarmi troppo felice, facendole magari le linguacce. Sapete che c'è? Gliele faccio adesso da questo blog, augurandomi naturalmente che abbia imparato a controllare meglio i nervi, l'unica vera arma segreta di questo gioco così bello e così faticoso. A mia volta, spero di essere diventata più capace di tenere il punto nelle situazioni, dosando aggressività e remissività nei tempi giusti. A dirla tutta, di recente ho avuto una ricaduta all'indietro, ma immagino che ogni tanto possa succedere.
Un po' di tempo dopo, invece, ebbi un colpo di fortuna vero e proprio, grazie al costume di carnevale prestatomi da mia sorella. In quegli anni, ci tenevamo parecchio a travestirci e spesso ci rivolgevamo alla sarta di famiglia per farci cucire vestiti ad hoc. Ho l'impressione di aver già raccontato questo aneddoto (sto diventando come Zio Paperone con il Klondike), quindi la faccio breve. Vinsi un premio per il costume più originale della festa di carnevale che si teneva al palazzetto dello sport di Chieti. Io non volevo neanche andarci, tanto che, per l'appunto, avevo rimediato con il costume da formica fatto in gommapiuma di mia sorella. Non dimenticherò mai quando ci chiamarono sul palco per darci i premi e le 100 mila lire (ebbene sì) spiaccicatemi sulle mani da uno degli organizzatori.
L'ultimo episodio è assai più recente e riassume, in un certo senso, entrambi gli aneddoti sopra narrati.
Martedì scorso in palestra sono stata lasciata sola nel circuito a più stazioni che ci sottopone tutte le settimane la nostra insegnante. Nessuna, voglio dire, ha voluto fare gruppo con me. Lì per lì mi sono sentita un po' persa e anche un pochino rattristata: io non avrei mai lasciato una mia compagna da sola se, formatisi i gruppi, mi fossi accorta di disparità del genere. Con umiltà, però, mi sono messa alla mia solitaria postazione a fare gli addominali. Il secondo esercizio richiedeva, invece, la posizione prona e l'uso di un pesetto per le braccia. E qui arriva il punto: Rita, l'insegnante, è venuta da me e, dopo avermi schiacciato la fronte sul tappetino e avermi rispiegato nuovamente come muovere le braccia tenendo ben stretti i glutei, se n'è uscita con un bel : "Bravissima!", che io ho metaforicamente rigirato alle mie compagne che invece dopo ho visto schiattare (ovviamente non tutte) sotto il "peso del peso". Mi avete lasciato sole? Beccatevi questa. Il resto della lezione è stata (quasi) tutta un trionfo atletico, comunque senza più astio né impermalosimenti.
Di vittorie minime di questo genere è fatta la vita. Almeno la mia.
Certo, non sempre si è disposti ad ammetterlo, ma diciamo che ci sto lavorando.
Non so perché, per esempio, ma mi sento spesso chiamata in causa dai giudizi trancianti di un giovane conoscente sul comportamento altrui: so che non si rivolge a me (anche perché, in effetti, come potrebbe? Fuori da Facebook ci siamo visti tipo tre volte), però mi fa venire una coda di paglia lunga così.
Qualche giorno fa, dicevo, ha scritto una cosa del tipo: "come si riconosce un rinunciatario? Dal fatto che dice di non aver nulla da dimostrare".
Accidenti. Mi ha dato da pensare. In generale, secondo me, dovremmo proprio uscire dalla logica del voler o non voler dimostrare qualcosa agli altri, però a noi stessi qualcosa la dobbiamo dimostrare. Eccome.
Soprattutto, poi, se si avverte un certo senso di fallimento vero o presunto, se si sa di aver buttato via tempo e chance, se la vita ci scorre troppo velocemente tra le mani.
Io voglio dimostrare di essere. Qualcuno e qualcosa. Certo che lo voglio.
In questo senso, il giovane conoscente ha ragione: abbiamo tutti qualcosa da dimostrare e da mostrare, non facciamo finta che non ci importi.
Allo stesso tempo, però, bisogna anche perdonarsi le proprie debolezze e saperle perdonare agli altri.
Forse quel tipo è troppo giovane e gli ci vorrà del tempo prima di capirlo. In ogni caso, io so che se non fossi stata in adolescenza un topastro tondetto e timido e una giovane donna emotiva, difficilmente mi sarei trasformata in un'adulta che riesco ancora a guardare negli occhi. E ad avere, in fondo, ancora fiducia nel mondo.
E pazienza se, cambiando di nuovo pelle, non avremo nessuno (o quasi) affianco.
Può essere davvero esaltante sentirsi i muscoli che pompano sangue e la testa che si fa più leggera.
Sì, l'autonomia è la conquista più grande.

venerdì 14 dicembre 2012

Mossi ma vivi


In questi giorni mi sento mossa come il bellissimo Nino nella foto qui sopra.
Al contempo, mi torna in mente la conversazione che ho avuto con la compagna di mio cugino Francesco un paio di settimane fa.
Se avessi la possibilità di dimostrarlo, in questo momento potrei svolgere anche il lavoro più gravoso, anche il più stressante. Certo, voi direte, non avendone uno concreto per le mani, è facile parlare così.
E però ve lo assicuro: di botto non ho più paura di nulla, se non degli stop imposti dal caso, che però niente hanno a che fare con quanto già di per sé noi umani (noi creature viventi in genere) potremmo realizzare con le nostre sole forze.
Sì, sono proprio come Nino, che salta, mangia, dorme e gioca per istinto, senza bisogno di farsi inutili domande.
La vita è breve. Ora lo so con più chiarezza di prima.
Mi secca molto essermi per certi versi ritirata dall'azione troppo presto, ma ormai è fatta. Recriminare non serve. Anzi, è proprio dannoso.
Non potendolo provare nel mio settore lavorativo, allora, non mi resta che darmi da fare in tutto il resto.
E lo farò. Seguendo il mio istinto e il mio cuore.
Non c'è altro che conta.

venerdì 9 novembre 2012

I giorni della chiarezza


Come cambia in fretta la vita. Aveva ragione mia nonna, quando parlava della strana velocità che prendono gli anni a partire da un certo momento. Eppure io mi sento più o meno identica a sempre, diciamo non troppo più matura della mia giovane compagna di palestra. Invece di certo lei mi darà la mia età, se non di più, chiedendosi anche come si faccia ad arrivare alla età adulta con quell’aria un po’ inconsapevole che metto su nelle chiacchiere tra un esercizio e l’altro.
Sia come sia, a un certo punto si è costretti – letteralmente – a svegliarsi e a guardarsi per bene.
Non mi va di essere annoverata come l’ennesima quarantenne ombelicale, perciò tralascio l’analisi impietosa che faccio quotidianamente su rughe e altre imperfezioni del mio corpo e punto dritta al problema vero.
Non sono felice. Qualcuno dirà: e chi lo è? Giusto: tutti accumuliamo frustrazioni e soprattutto chi ha il privilegio (e l’onere) di possedere un cervello, s’interrogherà sempre su ciò che non va, in noi e nella realtà che ci circonda.
Alcune frustrazioni, in effetti, sono indotte da un presente troppo opaco, a voler essere generosi.
Altre, invece, sono caratteriali.
Altre ancora, infine, scaturiscono dal caso, il destino, il fato, la sorte. Comunque vogliamo chiamare quel curioso concatenarsi di eventi che compone i nostri giorni.
Mi sto per l’appunto domandando se alcuni di questi ultimi accaduti di recente non fossero già scritti nel mio personale cammino. E se avessi potuto conoscerne il significato tentando di uscire da me stessa per guardarli dal di fuori?
Perché, ad esempio, ho letto giusto ad agosto un libro in cui si parlava di resilienza?
In ogni caso, adesso devo tirarla fuori con la grinta che qualcuno mi attribuisce.
Perché possa esercitarla pienamente, però, ho bisogno di avere intorno le persone giuste.
E ambienti favorevoli. Purtroppo su quest’ultimo fronte sono un po’ sprovvista, o forse lo sono pure sul primo, diciamo la verità.
Di chi la colpa? Chi può dirlo. Anche ammesso che ne abbia qualcuna anch’io (sono permalosa e ipersensibile), non posso recitare a vita.
Perciò stop alle ipocrisie.
D’ora in avanti sarò assolutamente me stessa. Tanto, la mia popolarità non è cresciuta di un’unghia in tutti questi anni di buonismo a buon mercato.
Potrò essere sgradevole, come so essere solo con chi mi conosce profondamente. Al contempo, so che lo sarò solo con chi mi ha ferito, mi ferisce con la sua indifferenza, noncuranza, e, a volte, proprio con la sua cattiveria.
D’altra parte, è difficile che la mia impetuosità non venga fuori, prima o poi.
Ho capito che è meglio mostrarla per tempo, perché potrebbe crescere in maniera disturbante, danneggiando innanzitutto me stessa e la mia vera – o presunta – capacità di resistere alla sofferenza.
Insomma: basta con l’autopunizione. Adesso è giunto il tempo della chiarezza.
Chi mi ama – lo so - mi seguirà.
Fanculo a tutti gli altri.

domenica 2 settembre 2012

Il fumetto dell'anno scorso e il senso severiniano della vita


Napoleone, Storia di Allegra

L'estate sta finendo e il mio povero computer sembra essersi avviato anch'esso sul viale del tramonto. Del resto, ha svolto il suo compito più che degnamente, considerata la mole di ciarpame vario con cui l'ho sovraccaricato.
E comunque, come stavo dicendo, tutto passa (provengo dalla scuola di Lapalisse), persino le serie a fumetti. E' successo per esempio a Napoleone Di Carlo, bizzarro portiere italiano di un hotel ginevrino (in un'altra vita faceva il poliziotto), amico di strani esserini fantasy visibili solo a chi, come lui, non ha tutte le rotelle a posto. Nella storia contenente le vignette sopra riportate, il protagonista del seriale chiuso dalla Bonelli una decina d'anni fa circa, condivide la sua capacità di andare oltre la realtà visibile a noi comuni mortali con un'adolescente rimasta orfana troppo presto. Perché ho deciso di scannerizzare (male) la pagina del fumetto, sottoponendo il mio povero strumento di simil-lavoro a ulteriore sforzo? Per due ragioni. Una piccola e l'altra grande.
Ho comprato il fumetto l'estate scorsa nel banco del mercatino di Fermo del giovedì che ne aveva a pacchi: quest'anno, invece, lo "svizzero" ha lasciato il posto ad altri seriali, compresi i simpatici Niko e Chico, in voga nei primi anni Settanta, che tanto mi hanno deliziato nelle serate più calde di questa lunga e crudelmente bella stagione.
Si trattava, in sostanza, di un avanzo che ho aspettato pazientemente di leggere nello stesso periodo dell'anno, sottoponendomi a una specie di inconscio (e segretamente infantile) rito di passaggio. E d'altra parte, con tutti i libri che non ho ancora letto, potevo ben dimenticarmi di Napoleone per aprirlo al momento giusto, ossia sdraiata sulla spiaggia, con il sole quasi allo zenit.
La verità sapete qual è? Dovevo leggerlo quest'anno. E qui passo alla seconda ragione che mi spinge a parlarne in questo spazio. In sogno Allegra, la protagonista del numero, ritrova la nonna, l'unica parente che le era rimasta fino a poco tempo prima. E' proprio lei a spingerla ad andare avanti, parlandole della vita e della morte in una maniera che mi ha fatto pensare al filosofo Emanuele Severino, di cui, pur sapendo pochissimo, ho cominciato ad apprezzare il valore grazie alle continue sollecitazioni del mio caro amico Paolo Ferrario.
Anche quando tutto sembra finire, in realtà non finisce davvero. Preferisco però trascrivere le parole della nonna di Allegra, a beneficio dei molti che non riusciranno a leggere direttamente dalla mia pessima scannerizzazione: "La vita si alterna alla morte e scorre in un tempo senza fine... è un trucco che le serve per giocare con le forme e costruire emozioni, desideri, sogni, rinnovando le cose continuamente... e quando anche il dolore sembra insopportabile, quando si muore, e sembra che tutto finisca, niente finisce veramente...".
Sì. Dovevo leggere questo numero di Napoleone quest'anno: lo scorso ero troppo concentrata sugli imminenti 40 anni e sui tristi bilanci dei traguardi mai raggiunti. Anche adesso sono sempre convinta di aver perso un sacco di tempo e di non aver messo a frutto quasi nulla dei miei forse solo potenziali talenti, ma guardando ieri tutte quelle persone in alcuni casi molto più vecchie di me disposte a mettersi in gioco con i loro lavori fotografici, ho capito che sì, i riti di passaggio servono, ma proprio per aiutarci a non sentirci (almeno non troppo) prigionieri dei nostri limiti. Dei nostri corpi e dei nostri pensieri necessariamente limitati.
Per fortuna, il mondo è molto più grande di noi.

giovedì 5 luglio 2012

Coltivare l'anima, tutta la vita


Dev'essere la canicola di questi giorni, fatto sta che sono solo le 22.30 ma a me sembrano le quattro del mattino. Oggi, nella piccola città in cui sono venuta a vivere ormai oltre sette anni fa, è ricominciato il mercatino del giovedì, pieno di cianfrusaglie, vestitini, orecchini (ci sono anche le due belle ragazze da cui prendo qualcosa ogni anno: fanno collane di stoffa e perline davvero molto graziose) e fumetti.
E io, naturalmente, ho già comprato. Parlo di un Dago vecchio con i disegni di Alberto Salinas, il primo (vero) disegnatore del giannizzero nero, del rinnegato veneziano con il corpo scultoreo segnato da ferite non solo fisiche. E pure una pizza fritta (rigorosamente salata) accompagnata da una birretta.
Però ero disorientata: quest'anno è letteralmente volato: come dicono quasi tutti gli adulti e immagino ancora di più gli anziani, dopo una certa età gli anni accelerano. Non so perché, parlando con Teresa e Piergiorgio, il secondo incontrato per caso (ma chissà), è venuto fuori l'argomento morte e il nonsenso sotteso, soprattutto per atei/agnostici come me (e forse anche loro).
Teresa ricordava la rabbia della sua adorata figlia Lisetta, oggi più che adulta, quando realizzò che sì, accidenti, un giorno sarebbe diventata polvere anche lei come tutti gli altri, come i morti ammazzati dalla daga di Cesare Renzi, condannato a non trovare pace per la strage dei suoi cari e costretto per via della stessa a errare ramingo per tutto il mondo, con un grumo nero al posto del cuore.
Sentendola raccontare l'aneddoto, mi è tornato in mente quando è successo a me di prendere consapevolezza del nostro destino inevitabile, una sera tardi, guardando la tv. Atterrita, sono corsa da mia madre e ne ho cercato l'abbraccio con occhi persi: "Dobbiamo morire", le dissi. Non credo che potrò mai dimenticare la serietà della risposta, priva di retorica e di facile rassicurazione. Da quel momento in poi, credo, è finita definitivamente la mia fanciullezza.
Poi, certo, si ritorna a vivere giorno dopo giorno, dimenticandosi dell'orologio (pure di quello biologico nel mio caso), però da allora mi è rimasto da sempre un fondo di malinconia misto a irrequietezza per il non compiuto, il non risolto, il non pieno nelle mie giornate. Ed è anche un po' per questo che detesto perdere tempo. Ogni minuto, ogni incontro, ogni esperienza significativi vanno presi al volo. E non per un superomistico bisogno di superare se stessi, bensì per il motivo contrario: un giorno non potremo più farlo e allora a cosa è servito rinunciarvi in partenza?
Molte volte mi sono rimproverata di aver avuto paura della vita, del successo, della carriera. In parte lo credo tuttora, ma non m'importa più. Almeno, non quanto m'interessa essere in grado di riconoscermi nello specchio, nonostante il tempo e i segni che vanno sedimentandosi sul mio corpo.
Quel che conta di più, però, è la mia anima e la mia volontà di lasciarla libera di esprimersi. E mi conforta assai constatare che quasi allo scadere del quarantesimo, tolto il sonno che mi sta vincendo, mi sento addosso un'energia mai provata prima. Più matura, forse, più consapevole, meglio, comunque con un qualcosa che mai avrei immaginato in quei caldissimi giorni di inizio luglio di un anno fa, quando mi aggiravo con la Nikon sulle spiagge facendo finta di essere una reporter.
Ma ora è il caso di farla finita qui: prima di passare al delirio pre fase rem (?).
Buonanotte.

venerdì 17 febbraio 2012

Un po' di retorica, che diamine


Ormai è ufficiale: mi sto rincoglionendo.
La prova provata è la foto in alto. Nuria Gonzalez recita la parte di Clara nel mio telefilm preferito. Nella puntata di ieri, la professoressa prima di inglese e ora di storia (historia, prego) nonché ex preside, ha compiuto 45 anni e ha preso una decisione importantissima: vuole diventare madre. Delle sue intenzioni parla con Olimpia, professoressa d'inglese nonché ex preside anche lei, nei bagni dei prof.
Quest'ultima si dice felicissima della decisione della collega, la quale però ha un piccolo problema: è single e madre affidataria di Ruth, un'adolescente con già superati problemi di bulimia. Come si risolve la faccenda?
Le strade possibili sono due: adottare un neonato o ricorrere all'inseminazione artificiale.
Ebbene, la prima strada non è praticabile: nell'episodio di oggi Clara è risultata essere troppo vecchia per il dipartimento dei servizi sociali cui ha inoltrato la domanda. Con l'età che ha potrebbe aspirare a un bambino di almeno cinque anni. Ma Clara, che non ha voluto figli quand'era più giovane (o giovane e basta? vabbè, tralasciamo), vorrebbe godersi tutte le fasi della maternità, comprese pappe e pannolini. Tristemente, comunica la notizia a Ruth: quest'ultima, abbracciandola, le prospetta la seconda opzione. O meglio, ho intuito io che andranno a parare da quelle parti dal fatto che nel frattempo Gorka, l'ex fidanzato di Ruth, un piccoletto veramente bastardo, ma solo in apparenza (ha appena messo incinta Paula, la compagna bassetta con cui ha fatto malauguratamente sesso senza protezione, ma è pronto a diventare padre visto che lei non vuole abortire), e Fer, omosessuale dichiarato, vogliono guadagnarsi un po' di soldi donando lo sperma alla banca del seme. 
Sicuramente Clara farà un tentativo con il liquido di Gorka. Sono pronta a scommetterci su.
Comunque vada a finire (prima ho visto su You Tube la scena finale della serie, in cui la Gonzalez ha una pettinatura veramente orrida, mentre Blanca, la prof di lettere, da bionda si è fatta rossa e ha chiaramente scelto Berto, il barista della scuola con precedenti penali, al posto di Martin, l'attuale preside dello Zurbaran), continuo davvero a sorprendermi di quanti temi ci abbiano infilato dentro. Trovo veramente divertente e appassionante come riescano a trattare argomenti scomodi con così tanta naturalezza. La vita è varia e a tinte forti, anche nei momenti più cupi e difficili.
Anche in Spagna c'è la crisi economica e presumo che pure i giovanissimi attori del telefilm oggi saranno alle prese con la disoccupazione, visto che il serial è finito. Certo, peggio staranno tutti gli altri, quelli non famosi e magari più bravi di loro, però, davvero, quel telefilm aiuta a sorridere e a guardare avanti anche un'anzianotta come me.
E se anche non dovessi, come ho già scritto, mai avere figli, mi piace pensare che tutto sia ancora possibile, in ogni campo della mia vita.
Oggi ho finalmente spedito il mio piccolo lavoro di foto-racconto: sarà anche per questo che mi sento così commossa e incline alla retorica da fiction? Può essere, però, per una volta, voglio concedermelo.
C'è sempre tempo per ritornare seri. Basta aprire un giornale per perdere il sorriso.
Com'è provinciale un paese che discute delle mutande di Belen.

lunedì 19 dicembre 2011

Che musica, la vita

Che musica, la vita. Accidenti, com'è facile cambiare umore quando si è coinvolti in esperienze intense, collettive e condivise.
Negli ultimi anni non mi era più successo. Associo queste giornate ai miei ultimi dell'anno ad Assisi, alla Cittadella, giorni indelebili per la formazione del mio carattere da adulta.
Conosco i miei (molti) limiti, ma ho qualche certezza in più sulle mie qualità e sui miei bisogni. Senza l'incontro con gli altri non so stare. Perciò ho sofferto così tanto nei miei anni solitari e casalinghi.
Il caso mi ha fatto incontrare un persona di molti anni più di me che con me ha in comune la stessa necessità di stare con gli altri a fare qualcosa che possa, eventualmente, arricchire (moralmente) tutti.
Sono davvero fortunata. Ne sono più che certa: comunque vada a finire, non dimenticherò mai questi giorni.
Oggi pomeriggio sono a casa, ma sto soffrendo di non essere lì.
Al contempo, sganciandomi, so di aver fatto la scelta giusta. Chissà come se la sta cavando la simpatica signora cui ho dovuto spiegare come si accendevano luci e proiettore.
E dire che l'avevo appreso giusto qualche ora prima di lei. Mentre eravamo sedute al pc, ho incrociato lo sguardo del mio "benefattore" che mi ha strizzato l'occhio in segno di approvazione.
Ci siamo conquistati a vicenda ed è ancora più straordinario, per me, sapere che è nato tutto così, per caso.
Ma esisterà il caso? Comincio a pensare che siamo davvero destinati a qualcosa e che conviene farsene una ragione. Perché, tanto, prima o poi, il destino ci raggiunge.
Non so ancora come farò a trasformare tutta questa energia vitale in reddito, ma mi sembra davvero un dono miracoloso sentirmi di nuovo in piedi e pronta a lottare. Spero solo di riuscire a coinvolgere anche l'uomo che mi vive accanto. "Intanto" (dico questa parola non a caso) sono partita io. Vedremo come fare in seguito.
Passo e chiudo dalla torre ormai non più tale. Per sempre non più tale.