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giovedì 24 aprile 2014

Yasmina Reza e Andrea Bajani, due autori da leggere. E rileggere

Lo scrittore Andrea Bajani (e la sottoscritta) alla Biblioteca Romolo Spezioli di Fermo,
foto di Ennio Brilli


Comincio questo post con una domanda autoreferenziale: chissà chi mi mette subito il secondo + su quasi tutti i post, con l'eccezione dello scorso (oggettivamente molto tetro) e di pochi altri. Vedremo che cosa succederà stavolta che ho invece intenzione di parlare degli ultimi due libri che ho letto.

Mi riferisco, in rigoroso ordine cronologico, a Felici i felici, di Yasmina Reza, e a La vita non è in ordine alfabetico, di Andrea Bajani.
Sono molto diversi, non c'è dubbio, ma accomunati, almeno a mio avviso, da un elemento: parlano entrambi di privato, volendo anche di intimità, e di disvelamenti.

Nel caso della scrittrice francese, si tratta, in molti casi di veri e propri smascheramenti: chi ha visto il film ispirato a Il dio del massacro, quello con le due fenomenali Jodie Foster e Kate Winslet che a un certo punto si tirano quasi i capelli, sa che le storie della Reza girano più o meno tutte intorno alle ipocrisie dei comportamenti umani, raccontate però con una feroce ironia e una classe che solo talenti straordinari come lei riescono a esibire con tanta nonchalance.

Nel caso di Andrea Bajani, o per lo meno del libro che ho appena finito, invece, il disvelamento entra puntualmente nei brevissimi racconti che si aprono ciascuno con una lettera dell'alfabeto, in quasi tutti i capitoli ripetuta una seconda volta.
Si tratta, cioè, di un artificio stilistico molto raffinato, che però, sarò sincera, non mi convince sempre.

In alcuni racconti, voglio dire, il punto di svolta nella storia risulta davvero sorprendente e certe volte anche commovente. In altri, invece, l'ho trovato un po' forzato.
Anche nel libro della Reza, però, ho avvertito qualcosa di analogo in alcuni passaggi.
E' come se il desiderio, legittimo e condivisibile, di colpire a tutti i costi l'immaginario del lettore abbia preso un po' la mano a entrambi.

Se non mi fossero piaciuti, in ogni caso, non starei qui a parlarne: non sono obbligata a recensire proprio nulla, perciò, quando lo faccio, parlo in prevalenza di quel che mi piace.
E' solo che, forse, avrei voluto immedesimarmi di più e invece non ci sono riuscita, con tutti e due i libri, se non a tratti.

Mi ha per esempio incantato il punto in cui Bajani descrive la pallina espulsa dalla macchinetta con la chiave che si gira solo dopo che ci metti la monetina, la stessa anche oggi dai tempi della mia infanzia (e della sua: ha quattro anni meno di me, ricorderà anche lui le sedie impagliate con i fili di plastica colorata).

Mi è molto piaciuta la descrizione della lite coniugale della Reza che culmina con lei che si attacca alla schiena di lui come tutte le notti e la facilità con cui la scrittrice riesce a calarsi nei panni dei suoi singoli personaggi, maschi o femmine che siano.

Ho apprezzato molto la lingua di Bajani e la scelta della seconda persona singolare più tipica della poesia, come il medesimo ha spiegato nell'incontro che ha organizzato la biblioteca Romolo Spezioli di Fermo.
Concordo con lui anche sulla differenza tra i libri che si leggono tutti di un fiato, e poi si buttano nel cestino o si stipano in fondo alla libreria perché hanno esaurito la loro funzione riempi-vuoto del momento, e quelli che ti viene voglia di riaprire, accorgendoti che hanno ancora molto da dirti.

E infatti il suo l'ho letto e riletto, in certi punti, ma, lo ammetto, perché in qualche caso non capivo dove volesse andare a parare. Sarò tonta io, d'accordo, però un conto è la bellezza e la complessità della scrittura da leggere e rileggere, un altro è la sensazione dell'oscurità che non di rado mi davano i testi scolastici.

Con la Reza, invece, mi è successo che a un certo punto non mi ricordavo più chi era parente di chi, perché all'apparenza sembravano tutte storie staccate e invece erano tutte, eccome, collegate. Se lasci che passino troppi giorni tra un capitolo e l'altro, insomma, c'è il più che concreto rischio che non saprai più orientarti nella storia.
Si tratta, in definitiva, del tipico libro da leggere "tutto d'un fiato", ma se lo fai, è certo che poi non ci tornerai più.

E invece io l'ho riaperto e ne sono stata contenta, perché così ho notato altri dettagli.
Lo stesso ho fatto con La vita non è in ordine alfabetico ed è per questo che ne sto parlando.
Vorrei leggere qualcos'altro di Andrea Bajani, che mi ha colpito per la sua vispa intelligenza. Al pubblico che lo ascoltava direi più che attentamente (secondo me molte signore se lo mangiavano proprio con gli occhi. E' un discreto figliolo, bisogna ammetterlo), lo scrittore che vorrebbe essere marchigiano (ma chissà se non lo dice di ogni regione in cui lo ospitano) ha svelato di vivere a Berlino.

Mentre mi firmava l'autografo (non lo faccio mai, ma stavolta ho ceduto al rito pop), gli ho chiesto come mai questa scelta. Mi ha risposto che volevano fare una prova, lui e la sua compagna con figlia credo adolescente, ma che non è per forza come sembra da qui: non tutto costa meno, non tutte le strade professionali sono aperte. Io non so se credergli, però l'ha detto con un tono molto simpatico, tipico di una persona positiva.

Mi piacciono le persone positive, anche quando mettono alla berlina i difetti nostri e altrui come la Reza (che però non so se lo sia anche lei).
Ringrazio perciò entrambi di essere idealmente entrati a far parte della mia vita.
E aspetto di leggervi ancora.

E voi?

sabato 29 marzo 2014

Grazie a tutti


Questa foto risale a circa un mesetto fa, qualche giorno prima dell'aggiustatina (di poco conto) alla mia non folta chioma (ma senza neanche un capello bianco, tiè).

Ho deciso di mostrarmi qui (con la nostra gatta Bice) e anche nell'immagine del mio profilo perché... "addè" (= ora in marchigiano) basta con i travestimenti e l'infanzia.

Sono stata una bambina molto felice e so che è una gran fortuna. Ma quella bambina non c'è più da un pezzo, se non nel mio io più profondo.

E poi la foto che vedete sopra è anche su Facebook, quindi perché nascondermi proprio sul mio spazio personale?

A parte la botta un po' patetica di narcisismo (a proposito di Narciso, giusto l'altro ieri, nella lezione d'inglese con un nuovo insegnante sudafricano, ho riletto il mito di quest'ultimo e di Eco, vanamente innamorata di lui), ho deciso di mostrarmi per uno scopo preciso.

Voglio dirvi grazie.
Mi rivolgo a voi, sparuti miei lettori, di cui ignoro (forse non in massima parte, visto che siete pochi) l'identità.
Non m'importa quanti siamo, davvero.
Importa che ci siete e che dedichiate un secondo, un minuto o più alle mie frasi, ai miei video e alle mie foto.

E' un onore essere letti ed è per questo che vi dico grazie.
Oltre che un onore, è anche un miracolo essere scelti: c'è talmente tanta roba in rete che io stessa, a volte, mi domando perché qualcuno dovrebbe passare anche di qua.

E invece succede ed è bello.
Chi mi conosce o ha imparato a farlo proprio quassù sa che non me la passo proprio benissimo, professionalmente parlando.
Però ho imparato, giorno dopo giorno, a darmi sempre un obiettivo nuovo, una frontiera, anche minima, da esplorare e quando ci riesco mi sento grande.

Perciò dico a chi fosse nelle pesti più o meno come me: c'è sempre qualcosa che non abbiamo ancora fatto, c'è sempre un dettaglio che non abbiamo notato anche nel paesaggio che vediamo tutti i giorni dalle finestre di casa nostra, c'è sempre una parola nuova da imparare.

In questo periodo, per esempio, sto leggendo un libro eccezionale: parlo di Felici i felici, di Yasmina Reza. E' talmente bello che sto andando pianissimo, per gustarne ogni singolo passaggio.

Ho anche scoperto le avventura della gattina Chi, un manga giapponese, veramente molto carino.
Gli alberi sono tutti fioriti e anche se gli anticorpi scricchiolano, sono viva.

Siamo vivi.
Anche voi che mi leggete lo siete ed è sorprendente.

Ancora grazie, quindi, e ora fuori tutti: usciamo a respirare.

martedì 13 dicembre 2011

Tutta colpa di un cavo

Mi piace lo stile di Yasmina Reza: ho trovato molto interessante il suo punto di vista sui rapporti umani, scoprendola al cinema con "Carnage". Così ho deciso di andarla a vedere anche in teatro, con ART, la piéce che l'ha resa famosa, nella versione italiana allestita da Giampiero Solari e l'interpretazione di Gigio Alberti, Alessio Boni e Alessandro Haber.
Tralasciando l'eccessiva milanesità del Gigio, lo spettacolo regge e, a tratti, strappa anche qualche risata. Soprattutto, è possibile ritrovarvi le tematiche care a quest'affascinante signora francese, che riesce, con sottile godimento, a smascherare le finzioni cui ci costringe la buona educazione.
Eppure, come si potrebbe agire diversamente? Dirsi tutto è necessario? Ho l'impressione che la Reza la veda come me, e cioè: no che non lo è. Il problema è che, in certe situazioni, magari quando siamo sotto stress (il che capita spesso, almeno a chi ha ritmi intensi di vita o non è capace di gestire le pressioni della quotidianità), non ce la facciamo a mantenerci ragionevoli e amabili. E sbottiamo.
Nei miei due giorni a Roma, ad esempio, ho assistito a una piccola tragicommedia familiare scoppiata per via di un cavo del computer diventato introvabile. Non scendo nei dettagli, ma nell'assistervi, mi sono sentita come davanti a uno specchio.
Ieri sera, ancora distrutta dal mio breve ritorno nella mia terra natale, mi sono impermalosita non poco nel vedermi rifiutare i biscotti dei miei nipoti. Possibile che sia così difficile venirsi davvero incontro? E soprattutto: possibile che basta una chiusura stupida come questa o una banale distrazione per farci saltare i nervi? Da dove arriva il nostro bisogno di litigare? E, dall'altro lato, come facciamo a controllarlo nella maggior parte delle occasioni?
I saggi direbbero che, mantendendosi aperti all'altro, dovremmo imparare l'arte dell'ascolto. So di avere questa dote, ma, evidentemente, non basta. Certe volte non si ha voglia di ascoltare proprio nessuno. E si urla e ci si accapiglia, come l'altra sera sul palcoscenico e come (in parte) nella cucina di quella casa da me molto amata.
Ieri sera, però, non ho litigato, ma mi sono limitata ad andarmene a letto tutta seccata.
Però mi è rimasta una tristezza addosso che non mi piace e un desiderio di sbattere le porte come facevo da ragazzina quando qualcuno di famiglia osava contraddirmi.
Me la farò passare, sono una donna piena di buon senso. Da bambina dicevano che ero giudiziosa, ma l'ho già scritto su Splinder e non mi va di ripetermi.
Di certo conviene farsi una ragione anche del sentimento di estraneità che continuano a ingenerarmi i luoghi in cui via via ho vissuto (e vivo) subito dopo aver rivisto quelli in cui sono cresciuta. Mio nipote maggiore pare che abbia esclamato, rivedendo casa sua, dopo le vacanze dai nonni: "Che bella che è questa casa, mamma!".
Ecco, a me succede ancora qualcosa di simile, almeno nei primi momenti. Ricordo i pianti in cui scoppiavo quando ritornavo a Pisa, con la valigia ancora carica dei cibi materni, del maglione o delle calze nuove.
Poi mi riabituavo e mi riabituo. Anzi, come ho scritto di recente, almeno in questa casa ci sono molti oggetti provenienti proprio da lì.
Però ci si sente molto soli. E la consapevolezza che sia il destino comune a tutti gli esseri umani non mi consola.
Finito di scrivere, mi alzerò, metterò in ordine la stanza, forse uscirò. E pian piano anestetizzerò la malinconia.
Va sempre così. Anche le ferite più profonde si rimarginano. Basta solo darsi tempo. E non intercettare, nell'attesa, nessuno capace di farcele sanguinare ancora.