lunedì 24 giugno 2013

Che gatti, il mio libro!


Alla gatta grigia piace farsi fare le coccole, soprattutto in una giornata come quella di oggi, piovosa e indolente. Ho scelto lo scatto recentissimo (cercavo di bere il caffè con lei addosso) per avvisare il mio piccolo pubblico che Che gatti è diventato un libro vero, disponibile per la vendita.
Trovate tutte le informazioni che lo riguardano su Youtube e su Minime Storie.
Per il resto (commenti, considerazioni e ORDINI!!!), sapete dove trovarmi...
Essendo un'autoproduzione, infatti, le copie vanno richieste all'autrice o nelle librerie in cui andrò a portarlo... a breve!
Grazie del sostegno, in qualunque forma verrà espresso.
W i mici. Sperando che non mi denuncino per violazione della privacy!
:-)

martedì 18 giugno 2013

Portugal di Cyril Pedrosa e il mio nome, sempre quello, dovunque vada

Portugal, Cyril Pedrosa, dettaglio della copertina

Ho preso Portugal di Cyril Pedrosa (classe 1972) con l'ultima quota del mio premio in libri. Pubblicato in italiano da Bao, una casa editrice di Milano che ha scelto come logo, com'era prevedibile, un cagnolino, di quelli con il muso schiacciato e le orecchie tonde, è l'opera più importante scritta finora da questo disegnatore franco-portoghese, che ha saccheggiato (da quel che ho capito) dalla storia vera della sua famiglia.
Il protagonista, ovviamente, ha un altro nome, ma è piuttosto probabile che le idiosincrasie che l'autore gli ha attribuito siano identiche alle sue.
Pedrosa era, come il suo Simon Mucha(t), la consonante finale aggiunta dai francesi dopo l'emigrazione dei suoi nonni nella terra dello champagne, in crisi creativa e personale.
Per ritrovare l'una e l'altra, decide di compiere un viaggio nei luoghi d'infanzia di suo padre e prima ancora di suo nonno, di cui a un certo punto si erano perse le tracce.
Il risultato è una storia fortemente malinconica e poetica. A tratti, certo, si sorride, soprattutto quando il giovane alter ero dell'illustratore partecipa al matrimonio della cugina, ritrovandosi non si sa come nella vecchia auto della zia, ex figlia dei fiori, e con suo padre e il fratello di lui, questi ultimi sempre disponibili a stuzzicarsi vicendevolmente come da ragazzi. C'è anche un piccolo dramma, che si risolve, per il momento, senza grosse conseguenze, ma tutto su Simon sembra effettivamente scorrere, come il fiume il cui odore non aveva mai imparato a conoscere, a differenza di suo padre e dei suoi zii. In quello stesso fiume il protagonista finisce per immergersi, in una sorta di ritorno al ventre materno graficamente rappresentato da vignette bianco-celesti sul suo corpo nudo, che sembra liquefarsi al contatto con l'acqua.
Bellissimo è il finale, che naturalmente non posso trascrivere, per non rovinare la sorpresa a chi volesse leggere questo librone assai poco maneggevole, ma di spessore autentico.
Mi limito a commentarlo con un rimando alla mia storia personale. Come i Pedrosa-Mucha(t), nonno e nipote, mi sento spesso una senza patria, ma d'ora in avanti terrò a mente la frase che chiudeva l'ultima cartolina che il primo mandò un giorno al fratello rimasto in Portogallo. Non ho con me il libro, quindi chiedo venia per l'eventuale imprecisione nella citazione. La cartolina si concludeva più o meno così: "Dovunque io vada, sono Abel Mucha e basta".
Ecco. Dovunque io vada, dovunque mi trovi, sono quello che sono, con tutto il mio passato e il mio presente. E forse anche un pezzetto di futuro.
Il mio passato è fatto di personaggi che probabilmente Pedrosa sarebbe in grado di disegnare. Se li avessi conosciuti io, invece, probabilmente li avrei fotografati. Adesso posso solo descriverli a parole.
C'era una volta Gerardo Cacchione, un tizio dal cervello bacato, che girava per Chieti, quando mia madre era bambina, con un bisunto pastrano militare, di quelli che tenevano caldi anche i pastori, come ho scoperto la scorsa primavera, sentendo i racconti di due coetanei dei miei dall'infanzia sicuramente più dura. Perché mai era famoso? Perché gli piacevano le femmine. Come lo dimostrava? Facendo risalire le sue manacce luride sotto le loro gonne su su fino al fondoschiena. Le mutande, ai tempi, erano una rarità. Chissà quante botte avrà preso da mariti e fratelli.
Chiuppappà, invece, era innocuo, ma si arrabbiava da matti quando lo chiamavano così. Anche perché lui era tanto servizievole e non trovava giusto che lo si prendesse in giro con quello stupido nomignolo. Era lui ad andare a ritirare la spesa al mercato, sempre a lui chiedevano anche altre piccole commissioni in cambio di pochi spiccioli. Ma Chiuppappà no, se glielo dicevano, diventava rosso di rabbia, anche se cercava di trattenersi, fino a esplodere, come l'Etna.
Ad Atessa, invece, il paese in cui ho passato i miei primi sei anni di vita, prima che mio padre fosse trasferito a Chieti, circolava una certa Elena la 'ndò ndò, le trecce e un cervello da bambina, che non le avevano impedito di trovare marito e fare pure figli. Tutta agghindata come una pupetta, non sembrava avesse ambasce di sorta. Chissà se è stata sempre felice.
Anche se non li ho conosciuti di persona, come Mucha(t) con il nonno Abel, insomma, fanno parte di me e mi rappresentano. E continueranno a farlo, dovunque vada la mia vita.
Bravo Pedrosa; e grazie per avermi restituito il mio nome.

mercoledì 12 giugno 2013

Un'aliena a scuola di business... accidenti che esperienza!

Benché abiti a soli 40 chilometri di distanza, non conosco per niente Ancona. Non ho quasi mai bisogno di andarci e, se posso scegliere, vado a Pescara in treno, o al limite nei grossi centri, tutti raggiungibili con la ferrovia.
In famiglia c'è una sola auto, vecchia e ammaccata (da me). Da qualche anno ho cominciato a guidarla anch'io, ma da quando vivo nelle Marche, ossia dall'inizio del 2005, non è che mi sia mai servita granché. Eppure, in un paese come l'Italia, fatto in prevalenza di piccoli e piccolissimi comuni raggiungibili quasi tutti solo con il mezzo proprio, non avere la macchina significa condannarsi pressoché all'isolamento. Certo, oggi meno di un tempo, in cui si telelavora (o diciamolo) non si lavora affatto. Resta però comunque ancora vero che non si può dire di conoscere un posto se non lo si va a vedere con i propri occhi. Non si può dire di incidere più di tanto in una realtà, in un contesto sociale, se ogni tanto non ci si guarda in faccia.
Tutta questa premessa mi serve per commentare in qualche maniera l'esperienza vissuta negli scorsi due giorni alla Camera di commercio di Ancona, raggiunta, all'andata il primo giorno, in treno + autobus urbano, in auto il secondo giorno grazie all'incontro fortuito con un giovane uomo di Fermo che avevo conosciuto in tutt'altro contesto, ma in analoga intensa occasione formativa.
Che ci facevo lì, direte voi che sapete quanto sia a digiuno di marketing e business? Apposta per questi motivi, potrei rispondere a bruciapelo. In verità, non è andata proprio così. A spedirmi al corso sulla "Comunicazione a basso budget", titolo del workshop di due giorni condotto da Rita Bonucchi dell'omonima srl di Milano (benché, per mia fortuna, la signora in questione fosse una rotonda emiliana: non credo che sarei riuscita a sopportare parole come brand, cms, template, business plan, etc etc se fossero state pronunciate alla maniera anglo-lumbard), è stata la mia amica grafica Maria Loreta, che, molto opportunamente, ha pensato che potesse essermi utile. Direi meglio: esserci utile, visto che insieme abbiamo prodotto un libro che adesso andrà in qualche modo promosso e venduto.
Resta però sempre il fatto che ero quasi totalmente fuori contesto, ma andava benissimo così.
Ascoltare Rita Bonucchi per me è stato infatti  come farsi di una droga euforizzante, che però il giorno dopo ti lascia triturata e frullata (mashed, direbbe lei?) su un marciapiede di periferia.
Non solo non so niente di business plan e marketing, ma non so praticamente nulla del mondo delle imprese italiane, le molte, grandi e piccole, con cui questa piccola signora dagli occhi di pece ha lavorato negli ultimi (credo) venticinque anni. Delle due giornate di lezione con lei mi ha impressionato soprattutto quanto a fondo sia complesso il nostro Paese, provinciale e internazionale allo stesso tempo, pieno di talenti e di mediocri, di inventori e di sgobboni e poi di prodotti, tanti, tantissimi, che hanno permesso e permettono ancora (si spera a lungo), a generazioni di connazionali di sentirsi parte della vita attiva. Nonostante la crisi, nonostante la concorrenza schiacciante di nazioni più attrezzate della nostra, di economie più dinamiche, di orizzonti più aperti.
E adesso che me ne faccio di un corso così? Come posso applicarlo alla mia esperienza e alle mie esigenze del prossimo futuro? Partendo da quel che so già fare, direi. Ossia scrivere. Oltre a questo post, scrivere come vorrei lanciare il mio libro, a grandi linee, certo, ma con un po' di razionalità e di pragmatismo. Rita ci ha detto che la gente non compra prodotti e che il prodotto, in sé, non esiste. Credo che sia un principio base del marketing, ma a forza di sentirmi dire, dall'altra parte della barricata, quella dei giornalisti e/o scrittori, sempre più sballottata tra marosi titanicheggianti, che il giornale, il libro sono prodotti come il copri-water con le cerniere in plastica che ho comprato l'altro giorno per soddisfare il mio bisogno stralunato di bricolage (e per non rischiare di cadere a terra tutte le volte che ci sediamo sul trono malandato), ho smesso di ragionare come dovrebbe fare un qualsiasi accorto imprenditore, micro o gigante non importa, e cioè che prima del prodotto c'è l'idea, ossia c'è l'anima. Se manca quest'ultima, addio fatturato.
Perciò, d'accordo: sto ai margini, sono minima, la mia storia lo è altrettanto, ma è unica e voglio comunicarla perché sono convinta che possa interessare ad altri minimi come me, migliori di me.
Quindi, ok, mi butto. Ma non da una rupe.
Un atterraggio morbido è ancora possibile.
Oh yes!

domenica 9 giugno 2013

Etta James, una vita con l'amore dentro



Post volante prima di tornare dalla regina Vicky (è già tardi, poverina).
Ho scoperto Etta James: mi fa venire le lacrime senza un perché.
E del resto, era proprio lei a dirlo: le mie canzoni fanno piangere anche me, anche se se non ce ne sarebbe motivo.
Di ragioni per tirare fuori tutta l'anima direttamente dalla sua ugola, in verità, la piccola-grande Etta ne aveva molte. Una madre bambina, drogata e scombinata, un'infanzia bruciata troppo presto e una maturità piena di alti e bassi.
Etta James è morta a 74 anni nel 2012 di leucemia. E io non ne sapevo nulla. Conoscevo, certo, una delle sue canzoni più famose, finita in uno spot tv. Ma non avevo idea che dietro quella voce blu ci fosse una ragazzina di appena 22 anni. Ebbene sì: i suoi capolavori li ha registrati in un'età bellissima, sì, ma molto pericolosa. Quando il successo arriva troppo presto, infatti, è più facile che poi il resto della vita trascorra nel rimpianto di ciò che c'è già stato. Ma in fondo non so niente di lei e chissà che non fosse comunque stata contenta così. Almeno, si sarà detto, la mia vita ha avuto un senso e continua (ve l'assicuro) ad averlo anche per chi non mi ha mai sentita cantare dal vivo.
Io, per esempio, come l'ho conosciuta? Ascoltando frammenti del suo album più famoso, "At last", sul cellulare. Uno dei veri prodigi degli smartphone è proprio quello di darti uno strumento in più di conoscenza. Basta mettersi a cercare e qualcosa prima o poi salta fuori.
Da ieri ho il cd (anzi, doppio cd più varie bonus track), ossia sono tornata all'antico, grazie a Paolo che ha pensato bene di regalarmelo per il nostro anniversario (della festa, non del matrimonio! Perché noi teniamo quasi più alla prima che al secondo, non so bene perché. Forse è una sorta di sindrome da sabato del villaggio pre-matrimoniale).
Ed eccovi qui il brano che ha dato il nome al titolo.
Piangete un po' con me e poi andate fuori a cercare l'amore. Se non l'avete già trovato. Se non vive già in voi, come dovrebbe, tutti i giorni della nostra vita.