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martedì 18 giugno 2013

Portugal di Cyril Pedrosa e il mio nome, sempre quello, dovunque vada

Portugal, Cyril Pedrosa, dettaglio della copertina

Ho preso Portugal di Cyril Pedrosa (classe 1972) con l'ultima quota del mio premio in libri. Pubblicato in italiano da Bao, una casa editrice di Milano che ha scelto come logo, com'era prevedibile, un cagnolino, di quelli con il muso schiacciato e le orecchie tonde, è l'opera più importante scritta finora da questo disegnatore franco-portoghese, che ha saccheggiato (da quel che ho capito) dalla storia vera della sua famiglia.
Il protagonista, ovviamente, ha un altro nome, ma è piuttosto probabile che le idiosincrasie che l'autore gli ha attribuito siano identiche alle sue.
Pedrosa era, come il suo Simon Mucha(t), la consonante finale aggiunta dai francesi dopo l'emigrazione dei suoi nonni nella terra dello champagne, in crisi creativa e personale.
Per ritrovare l'una e l'altra, decide di compiere un viaggio nei luoghi d'infanzia di suo padre e prima ancora di suo nonno, di cui a un certo punto si erano perse le tracce.
Il risultato è una storia fortemente malinconica e poetica. A tratti, certo, si sorride, soprattutto quando il giovane alter ero dell'illustratore partecipa al matrimonio della cugina, ritrovandosi non si sa come nella vecchia auto della zia, ex figlia dei fiori, e con suo padre e il fratello di lui, questi ultimi sempre disponibili a stuzzicarsi vicendevolmente come da ragazzi. C'è anche un piccolo dramma, che si risolve, per il momento, senza grosse conseguenze, ma tutto su Simon sembra effettivamente scorrere, come il fiume il cui odore non aveva mai imparato a conoscere, a differenza di suo padre e dei suoi zii. In quello stesso fiume il protagonista finisce per immergersi, in una sorta di ritorno al ventre materno graficamente rappresentato da vignette bianco-celesti sul suo corpo nudo, che sembra liquefarsi al contatto con l'acqua.
Bellissimo è il finale, che naturalmente non posso trascrivere, per non rovinare la sorpresa a chi volesse leggere questo librone assai poco maneggevole, ma di spessore autentico.
Mi limito a commentarlo con un rimando alla mia storia personale. Come i Pedrosa-Mucha(t), nonno e nipote, mi sento spesso una senza patria, ma d'ora in avanti terrò a mente la frase che chiudeva l'ultima cartolina che il primo mandò un giorno al fratello rimasto in Portogallo. Non ho con me il libro, quindi chiedo venia per l'eventuale imprecisione nella citazione. La cartolina si concludeva più o meno così: "Dovunque io vada, sono Abel Mucha e basta".
Ecco. Dovunque io vada, dovunque mi trovi, sono quello che sono, con tutto il mio passato e il mio presente. E forse anche un pezzetto di futuro.
Il mio passato è fatto di personaggi che probabilmente Pedrosa sarebbe in grado di disegnare. Se li avessi conosciuti io, invece, probabilmente li avrei fotografati. Adesso posso solo descriverli a parole.
C'era una volta Gerardo Cacchione, un tizio dal cervello bacato, che girava per Chieti, quando mia madre era bambina, con un bisunto pastrano militare, di quelli che tenevano caldi anche i pastori, come ho scoperto la scorsa primavera, sentendo i racconti di due coetanei dei miei dall'infanzia sicuramente più dura. Perché mai era famoso? Perché gli piacevano le femmine. Come lo dimostrava? Facendo risalire le sue manacce luride sotto le loro gonne su su fino al fondoschiena. Le mutande, ai tempi, erano una rarità. Chissà quante botte avrà preso da mariti e fratelli.
Chiuppappà, invece, era innocuo, ma si arrabbiava da matti quando lo chiamavano così. Anche perché lui era tanto servizievole e non trovava giusto che lo si prendesse in giro con quello stupido nomignolo. Era lui ad andare a ritirare la spesa al mercato, sempre a lui chiedevano anche altre piccole commissioni in cambio di pochi spiccioli. Ma Chiuppappà no, se glielo dicevano, diventava rosso di rabbia, anche se cercava di trattenersi, fino a esplodere, come l'Etna.
Ad Atessa, invece, il paese in cui ho passato i miei primi sei anni di vita, prima che mio padre fosse trasferito a Chieti, circolava una certa Elena la 'ndò ndò, le trecce e un cervello da bambina, che non le avevano impedito di trovare marito e fare pure figli. Tutta agghindata come una pupetta, non sembrava avesse ambasce di sorta. Chissà se è stata sempre felice.
Anche se non li ho conosciuti di persona, come Mucha(t) con il nonno Abel, insomma, fanno parte di me e mi rappresentano. E continueranno a farlo, dovunque vada la mia vita.
Bravo Pedrosa; e grazie per avermi restituito il mio nome.