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martedì 13 dicembre 2011

Tutta colpa di un cavo

Mi piace lo stile di Yasmina Reza: ho trovato molto interessante il suo punto di vista sui rapporti umani, scoprendola al cinema con "Carnage". Così ho deciso di andarla a vedere anche in teatro, con ART, la piéce che l'ha resa famosa, nella versione italiana allestita da Giampiero Solari e l'interpretazione di Gigio Alberti, Alessio Boni e Alessandro Haber.
Tralasciando l'eccessiva milanesità del Gigio, lo spettacolo regge e, a tratti, strappa anche qualche risata. Soprattutto, è possibile ritrovarvi le tematiche care a quest'affascinante signora francese, che riesce, con sottile godimento, a smascherare le finzioni cui ci costringe la buona educazione.
Eppure, come si potrebbe agire diversamente? Dirsi tutto è necessario? Ho l'impressione che la Reza la veda come me, e cioè: no che non lo è. Il problema è che, in certe situazioni, magari quando siamo sotto stress (il che capita spesso, almeno a chi ha ritmi intensi di vita o non è capace di gestire le pressioni della quotidianità), non ce la facciamo a mantenerci ragionevoli e amabili. E sbottiamo.
Nei miei due giorni a Roma, ad esempio, ho assistito a una piccola tragicommedia familiare scoppiata per via di un cavo del computer diventato introvabile. Non scendo nei dettagli, ma nell'assistervi, mi sono sentita come davanti a uno specchio.
Ieri sera, ancora distrutta dal mio breve ritorno nella mia terra natale, mi sono impermalosita non poco nel vedermi rifiutare i biscotti dei miei nipoti. Possibile che sia così difficile venirsi davvero incontro? E soprattutto: possibile che basta una chiusura stupida come questa o una banale distrazione per farci saltare i nervi? Da dove arriva il nostro bisogno di litigare? E, dall'altro lato, come facciamo a controllarlo nella maggior parte delle occasioni?
I saggi direbbero che, mantendendosi aperti all'altro, dovremmo imparare l'arte dell'ascolto. So di avere questa dote, ma, evidentemente, non basta. Certe volte non si ha voglia di ascoltare proprio nessuno. E si urla e ci si accapiglia, come l'altra sera sul palcoscenico e come (in parte) nella cucina di quella casa da me molto amata.
Ieri sera, però, non ho litigato, ma mi sono limitata ad andarmene a letto tutta seccata.
Però mi è rimasta una tristezza addosso che non mi piace e un desiderio di sbattere le porte come facevo da ragazzina quando qualcuno di famiglia osava contraddirmi.
Me la farò passare, sono una donna piena di buon senso. Da bambina dicevano che ero giudiziosa, ma l'ho già scritto su Splinder e non mi va di ripetermi.
Di certo conviene farsi una ragione anche del sentimento di estraneità che continuano a ingenerarmi i luoghi in cui via via ho vissuto (e vivo) subito dopo aver rivisto quelli in cui sono cresciuta. Mio nipote maggiore pare che abbia esclamato, rivedendo casa sua, dopo le vacanze dai nonni: "Che bella che è questa casa, mamma!".
Ecco, a me succede ancora qualcosa di simile, almeno nei primi momenti. Ricordo i pianti in cui scoppiavo quando ritornavo a Pisa, con la valigia ancora carica dei cibi materni, del maglione o delle calze nuove.
Poi mi riabituavo e mi riabituo. Anzi, come ho scritto di recente, almeno in questa casa ci sono molti oggetti provenienti proprio da lì.
Però ci si sente molto soli. E la consapevolezza che sia il destino comune a tutti gli esseri umani non mi consola.
Finito di scrivere, mi alzerò, metterò in ordine la stanza, forse uscirò. E pian piano anestetizzerò la malinconia.
Va sempre così. Anche le ferite più profonde si rimarginano. Basta solo darsi tempo. E non intercettare, nell'attesa, nessuno capace di farcele sanguinare ancora.