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lunedì 19 aprile 2021

Le rose di Vienna e il Venerdì Santo a Chieti: eterni come i nostri ricordi

 

Fino a pochi anni fa non avrei mai creduto possibile saltare un Venerdì Santo a Chieti. Ho ancora ben impresso nella memoria quell'anno in cui ho scattato le foto alla Processione, su incoraggiamento del Fotoclub, dove stavo frequentando un corso.


Era il mio ultimo anno di Liceo ed io andavo orgogliosissima della mia prima reflex, una Pentax che ho ancora oggi. 
Con uno scatto (anzi: due sovrapposti, una tecnica che mi avevano insegnato durante le indimenticabili lezioni) vinsi un premio.
Da allora la passione per la fotografia non mi è mai passata, anche se non ho mai pensato seriamente di poterla trasformare in qualcos'altro.

Perché questo momento di Amarcord?
Per due motivi.
Ho ripensato alla Processione del Venerdì Santo di Chieti rivedendo le foto (come quella che riporto sopra) che avevo scattato l'anno scorso alle rose del Parco di Schönbrunnprotette da sacchi di tela per difenderle dal lungo inverno. 

La prima volta che le ho notate stavo sicuramente correndo. Le foto non riescono del tutto a dare l'idea dell'effetto che mi hanno fatto in quel momento. 
Sono sicura di essermi fermata, di sicuro ho scattato qualcosa anche con il cellulare, ma poi devo essermi ripromessa di tornarci di nuovo con la mia oramai altrettanto vecchia Nikon.

Salto a quest'anno. 
Da pochi mesi ho creato il blog in tedesco, come forse qualcuno di voi già sa, e ho deciso di raccontare che cosa sono i "giardini del ricordo" di Vienna, come quello dentro il parco di Schönbrunn.

Se non avessi visto le rose così conciate, intendo chiuse ermeticamente in quei sacchi chiari, condannate all'oscurità come anime del Purgatorio, voglio dire, forse non avrei mai saputo che cos'era quell'angolo del parco.

Da poco i sacchi sono spariti e il roseto sembra, paradossalmente, molto più spoglio: 



Il senso di desolazione è acuito dall'assenza di colori di questa primavera che proprio non vuole esplodere (almeno qui a Vienna: in Italia, secondo me, dipende). Solo i cartellini bianchi appesi su ogni arbusto emanano un po' di luce.

Correndo, mi sono fermata a leggerne qualcuno:


Avevo già notato qualcosa del genere al Volksgarten, in centro, dove le piante di rose sono in proporzione molte di più. Quel che non sapevo è che dietro ciascuna di loro c'è un giardiniere provetto, che ha il compito di curarla, e un committente che gliel'ha affidata per omaggiare un parente o un amore scomparso o per celebrare una romantica ricorrenza.

Trovo l'idea bellissima e ho scoperto che le "adozioni" di questo genere riguardano non solo le rose, ma anche gli alberi e le panchine.

In definitiva, ho pensato, i colori mancano, è vero, ma se ci soffermiamo a guardare le cose più da vicino, ci accorgiamo che sono sempre lì, solo in altre forme.

Lo stesso succede con le persone che non ci sono più. Non le possiamo vedere, è vero, ma persino il suono della loro voce può, da un momento all'altro, risuonare nelle nostre orecchie.

Per questo, forse, amo il rito del Venerdì Santo nella mia città natale. Per questo mi hanno colpito, credo, le rose incappucciate.

Da piccolissima, in verità, quegli uomini con le tuniche a punta che sfilavano lenti sorreggendo grosse candele, mi facevano piangere. Molti anni dopo ho visto le stesse lacrime disperate negli occhi di mio nipote piccolo.

Morire, la consapevolezza della nostra e altrui mortalità, meglio ancora, è uno schifo. Inutile nasconderselo. 

Poi però un suono, una folata di vento inaspettata, un profumo, o un'etichetta bianca su una rosa addormentata, ci raccontano una storia. Ci riportano alla vita e al ciclo delle stagioni, eterno come i nostri ricordi e le tracce che in qualche forma un giorno lasceremo anche noi.

Dedico questo post alla mia mamma, nata il 4 aprile, e anche a zia Zita, nata il giorno prima di lei. 

Aprile è un bel mese per venire al mondo e per sposarsi, come ha fatto sempre mia madre, 55 anni fa. 

Idealmente, una delle rose che fioriranno di qui a pochi giorni (lo spero proprio: basta con questo grigiore) appartengono a lei.

Presto scoprirò qual è quella che le assomiglia di più. Mi verrà incontro, anzi, senza nessuno sforzo. 

Come la vita. 

martedì 22 aprile 2014

I riti della Pasqua e la morsa allo stomaco che ritorna

Monti Sibillini, Pasqua 2013
Quest'anno, per la prima volta nella mia vita, non ho assistito alla Processione del Venerdì Santo di Chieti.
L'ho scritto l'altro giorno su Facebook. E invece mi sono appena accorta che non era vero. L'ho saltata anche lo scorso, dal momento che ero a Castelluccio di Norcia, in un'atmosfera degna della Passione di Cristo quasi quanto quella che alligna sulle vie centrali della mia città natale, durante il paio d'ore riservato alla teoria di uomini incappucciati e di simboli del Calvario di Gesù, culminanti nel Miserere di Saverio Selecchy, una musica che dà i brividi.

Personalmente sono giunta a una conclusione che sarà probabilmente considerata eretica tra i miei amici cattolici: i riti della Pasqua mi trasmettono un indicibile senso di morte. E una cupezza livorosa che mi morde lo stomaco.
So bene che dopo (dopo quando?) c'è la Resurrezione, che simboleggia il trionfo della vita (eterna) sulla mortalità dell'uomo. Ma, sinceramente, ciò non mi consola. Affatto.

Non posso negare che il suono dei violini, delle viole e dei flauti che ti sfilano davanti mentre tu sei lì sul marciapiede a congelarti e a orecchiare, non volendo, le ciarle spesso insignificanti degli altri astanti ti strappa al presente, spingendoti ad ascoltare quelle gravi voci maschili che cantano in latino (una lingua, manco a dirlo, morta pure quella). E che, in quel momento, la morsa allo stomaco sparisce e che, tutto sommato, senti che hai fatto bene a tornarci un'altra volta.

L'armonia con la folla adorante dura però solo pochi minuti, perché dopo ti senti ancora più triste. Solitario. E finalissimo.
Accidenti che fregatura la vita, pensi anche.
Perché tutta questa sofferenza, consideri ancora.
Non parlatemi di croce e di riscatto dai mali che ci hanno angustiato più o meno tutti dopo la fine dei nostri giorni, né tantomeno della fine dei tempi, un concetto che mi ha sempre dato un'angoscia immensa.
Da bambina, anzi, ricordo che una sera non riuscivo ad addormentarmi per aver all'improvviso preso coscienza dell'esistenza del nulla.

Se finisce la terra e l'universo, mi domandavo, che cosa resta?
Forse la prima morsa allo stomaco che ho risentito distintamente nelle "vacanze" appena passate l'ho provata proprio quella sera.
Non mi dà nessuna gioia narcisistica, ve l'assicuro, essere così disincantata, quanto a visione della vita e della morte.
A volte penso che quelle donnette che l'altra sera, alla Messa di Pasqua, invocavano Cristo con foga, le eredi di quelle che udivo sgraziatamente cantare quando ero piccola (o le stesse, oggi vecchie davvero, all'epoca vecchie per nascita), abbiano ragione.

Loro un significato alla vita l'hanno trovato.
Loro sono quasi quasi contente di soffrire, perché così si sentono più vicine all'Altissimo.
Io non potrò mai essere così, ne ho la certezza.

Sto anzi meditando da qualche tempo sulla necessità di firmare il testamento biologico.
Intanto lo scrivo qua, a futura memoria: se mi rincoglionisco o divento incapace di intendere e di volere in qualche altra forma che adesso non saprei dire, voglio che mi si dia pace. Va bene anche una martellata, l'importante è che nessuno sia costretto a occuparsi di me, un sacco vuoto ancora pulsante solo di grane per gli altri.

Sono allegra, eh?
Mi dispiace, ma stavolta gira così.
Sono convinta che ci siano molte ragioni per vivere e per vivere bene, comunque al meglio delle nostre possibilità, ma proprio per questo motivo non accetto una religione che mi dica che il senso del nostro passaggio (passaggio, appunto) sulla terra sia comprensibile solo dopo che non ci saremo più o proprio in ragione delle croci che dobbiamo portare nel tempo che ci è dato in sorte.

So anche (non mi fregate, amici preti) che anche per i credenti ci sono molte cose belle: la nascita di un figlio, l'amore per i propri genitori, per dire due valori che naturalmente condivido.
E' solo che non riesco ad arrendermi ai colpi della vita, pensando che, tanto, un domani saremo tutti polvere.

E poi lo ammetto: io alla gerarchia ecclesiastica non do molto credito, perché a mio avviso, salvo pochissime eccezioni, la spiritualità è una dote personale che o c'è o non c'è. Continuo, in poche parole, a vedere ancora troppi Don Abbondio e pochi Fra Cristoforo, intorno a me. Senza contare, tra l'altro, che non capisco perché i ministri di Dio debbano essere, per l'appunto, solo ministri e non anche ministre.

E tuttavia il mio scetticismo verso i culti è democratico: non mi convincono molto neanche le altre religioni. Quasi quasi, anzi, capisco di più quelli che temono l'ira della natura e delle tempeste che può scatenare.

Per poterne disquisire con fondamento, però, dovrei studiarle, cosa che avrei fatto volentieri anche a scuola, se non fosse che il nostro prof di religione ci parlava di dove aveva comprato l'auto nuova.

Con il passare degli anni ho finito per considerare la questione "che ci facciamo su questa terra" un po' sullo sfondo, com'è, tutto sommato, logico che accada a una persona che sta crescendo.
Adesso che mi sto approssimando alla mezza età, invece, ho ripreso a interrogarmi, con un'acredine tutta nuova, sul nonsenso che ci pervade, ma non so ancora dove mi porterà questo percorso. Sempre ammesso che si tratti di un percorso e non di un girare a vuoto.

So che la fede smuove altre corde (le donnette che cantavano sgraziatamente di cui sopra, intendo), ma io, per potermi emozionare davvero, devo anche capire. O lasciare spazio al mio io più profondo, che se ne sta lì, sepolto sotto un fitto cespuglio spinoso, troppo spesso indisponibile ad ascoltare persino la mia voce disperata.

Appoggiata alla parete della brutta chiesa della mia infanzia, mi sono messa a piangere (poche lacrime che ho tentato il più possibile di nascondere), ma non per la commozione.
Ero sfinita dalla lotta che sto conducendo su troppi livelli. La crepa emotiva deve essere stata stimolata anche dall'accento spagnolo del giovane missionario e da quel messaggio con il quale ha chiuso la funzione sulla morte che vince la vita, che, non avendomi affatto persuaso, mi ha dato la botta finale.

Amico missionario, per me non è così.
La morte è morte e basta. E' assenza definitiva. E' buio.
E tu che sei tanto più giovane di me non dovresti consigliare di pensare al martirio dei santi quando una donna, credente, spaventata, ti confessa la sua fragilità.
A lei (e a me non ne parliamo) del martirio dei santi non può fregare di meno, in quel momento.
Ma tu fai il tuo mestiere, in fondo, ed è più facile essere empatici dal pulpito che non a tu per tu.

Però la faccia contrita della vicina che mi ha consigliato di non farmi vedere piangente (come se non lo sapessi da sola) e quella rassegnazione floscia al dolore no, quella proprio non posso digerirla.

Come concludere questo delirio?
Nei giorni passati avevo avuto l'istinto di entrare in qualche chiesa per tentare di fare (provarci, almeno) silenzio e mettermi in ascolto di quest'io inselvatichito.

Credo che passeranno molti giorni prima di riprovarci ancora.
Non me ne vogliano gli amici credenti.
L'ho detto: tolte le donnette che a forza di scriverlo mi stanno (quasi) diventando simpatiche, chi ha fede in qualcosa è più sereno.
Tenetevi strette le vostre fedi più profonde, quindi. Che si chiamino Dio, Allah, Budda, Manitù.

Il resto, in qualche maniera, si scriverà.