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venerdì 3 aprile 2020

Torneremo a correre. E sarà bellissimo



Ho ascoltato questa canzone forse quattro o cinque volte quasi un anno fa, intorno alle undici e quaranta o poco più. Come faccio a ricordarlo così precisamente (e pedantemente)? 
Impossibile dimenticarlo.
Era domenica 7 aprile, stavo per concludere la mia prima mezza maratona, qui a Vienna. Prima e unica, al momento, a dirla meglio.

Quel giorno felice oggi mi pare lontanissimo, eppure la consapevolezza di aver vissuto un'esperienza davvero esaltante mi accompagna ancora, nonostante tutto. 

Con me c'erano anche il Bipede e Michela, una mia amica di Fermo amante della corsa molto più di me. Nei giorni in cui è stata qui ha corso con lui almeno un paio di volte: con me, invece, solo una passeggiata alla vigilia della gara. Niente invidia da parte mia, giuro. Semmai molta contentezza per il sodalizio che si era creato tra loro, un po' come ci capitava da bambini quando ci si metteva a giocare con un amichetto nuovo. 

Mi faceva piacere che si fossero trovati così bene anche perché avevamo cominciato a sgambettare nello stesso periodo: giusto ieri ho rivisto una bella foto di gruppo, in cui c'eravamo noi tre con altri amici, al termine di una dieci chilometri di fine primavera, tra oleandri in fiore e profumo di mare.

Insomma, voglio ribadirlo: chi ama la corsa, ma direi lo sport in generale, lo sa. Tra chi pratica insieme un'attività fisica si crea una complicità inesprimibile a parole. Contano di più gli sguardi che ci si lancia mentre ci si sforza di dissimulare la fatica, le lingue di fuori quando si sta per cedere e i sorrisi, i larghi sorrisi, che affiorano sui volti una volta concluso l'allenamento.

Tutto questo succede, poi, anche se si corre da soli e ci si ritrova solo alla fine, a confrontare tempi e sensazioni.

Inutile nasconderselo: c'è anche un po' di competizione e si vorrebbe sempre strappare quel metro in più tra noi e chi ci precede.
Ma l'anno scorso, alla mia finora unica mezza maratona della vita, ho dovuto competere innanzitutto con me stessa e con la paura, eh sì, autentica paura, di non farcela.

Per vincerla, mi ero portata anche denaro, chiavi di casa e soprattutto un prezioso biglietto della metropolitana, nel caso malaugurato in cui non me la fossi proprio sentita di andare avanti.

Pochi metri dopo la partenza, tra l'altro, mi sono ritrovata da sola, senza il supporto del Bipede che ha preso la volata, saltando sull'altro lato della strada a quattro corsie facendomi ciao ciao con la mano.

Michela era più avanti, pensando che ci fosse una gabbia per quelli che facevano la competitiva. Invece no: c'era talmente tanta gente, che gli organizzatori hanno semplicemente fatto partire prima i maratoneti e poi noi, esercito di mezzi maratoneti di ogni età e taglia. Ricordo il freddo prima dello start, i balletti organizzati per farci scaldare, i look diversi, e i sorrisi, molti sorrisi.

Non so come ci sono riuscita, ma per un bel tratto ricordo di non aver voluto ascoltare la musica: desideravo concentrarmi sul mio respiro e volevo anche guardarmi intorno, cercando, forse, la solidarietà di qualche sconosciuto o sconosciuta.

Ho percorso lunghi tratti di città che non avevo mai visto, fino a ritrovarmi all'improvviso davanti al palazzo di Karlsplatz in cui c'è l'ambasciata indiana, dove ho passato svariati brandelli di pomeriggio a fare yoga con una donna, che è un'autentica bellezza, esteriore e interiore.
A lei avevo chiesto consigli su come prepararmi alla gara nelle settimane precedenti: sono sicura che mi abbia davvero aiutato, in molti modi. Solo tempo dopo ho scoperto che in quello stesso palazzo c'è la "Julius Meinl Bank", dedicata al piccolo folletto portafortuna che appare sulla facciata di un palazzo del Graben.

La mia felicità ha raggiunto però il picco poco dopo, quando mi sono ritrovata davanti al palazzo della Secessione, meta dei nostri giri di allenamento delle settimane precedenti. 

Lì mi sono fermata a scattarmi una foto, convinta, anche di essere ormai a buon punto. Credo fosse il quindicesimo chilometro.
Appena ripartita ho capito che la musica mi sarebbe stata davvero indispensabile.

Fiato ne avevo ancora abbastanza, erano le gambe che cominciavano un po' a scricchiolare. In più dovevo fare pipì già da un pezzo, per cui, pur continuando ad andare, cercavo di adocchiare bagni a portata di percorso.

Eccone uno, mi dico. Mi fermo dietro a una donna, e insieme faccio stretching. Un minuto, due minuti: niente, non esce nessuno. Che faccio? Aspetto ancora, non aspetto?

L'istinto mi dice di andare. E così vado e vado, gli auricolari ben piantati nelle orecchie, con la musica di Frank Stallone (il fratello di Sylvester, ebbene sì) che va. Da un banco afferro una mezza banana, ma mi limito solo a succhiarla leggermente, temendo effetti nefasti per l'intestino nel caso avessi ceduto alla tentazione di mangiarla.  

Ormai siamo intorno al diciottesimo chilometro: dai, manca poco, mi dico. Ahiaia, il disco è finito. Se mi fermo per sceglierne un altro, non riparto. Armeggio con il tastino dell'auricolare e tac, riparte l'ultimo brano. Sì, proprio quello che potete ascoltare sopra.

Tonight, tonight, you feel so right, canticchio. Dirà così? E chi lo sa? Mentre si ripete, mi trovo in cima a una discesa, credo sia la Mariahilfer Strasse, ma sì, è lei. In fondo, che cosa c'è? Una enorme freccia luminosa che separa il percorso dei maratoneti da quelli a metà. Imbocco la strada giusta e procedo. 
Ormai è fatta, dai, quanto potrà mancare? E intanto Stallone va.

No! C'è una curva! Guarda là quanto manca ancora! Non ce la posso fare, non ce la posso fare. Sulla corsia alla mia destra vedo sfrecciare i maratoneti: sì, ho detto proprio sfrecciare. A grandi falcate, eccoli là, belli freschi a guadagnarsi un buon piazzamento.

No, no, non esiste. Cedo. Eh sì: mi fermo e cammino, tenendomi bene a destra per non bloccare gli altri. Con la banana in mano, cammino e scuoto la testa. Ma dentro di me scatta qualcosa, non so bene cosa.
Fatto sta che alzo lo sguardo e vedo che all'arrivo mancano davvero cinquecento metri. Mi rimetto a correre. La musica non serve più.
Alzo lo sguardo sull'orologio: segna qualcosa come le 11 e 39. DEVO riuscire ad arrivare entro i 40. DEVO riuscire a farlo. Vai, vai, vai... vai!

Ce l'ho fatta! 

Nei minuti successivi praticamente non riuscivo a muovermi, ma la banana me la sono magnata eccome. 
Chiamo il Bipede facendolo anche sentire in colpa per avermi abbandonata subito al mio destino, litighiamo un po' per questo, ma dopo, solo dopo, quando ho recuperato le forze e ci siamo ritrovati con Michela, beh.

La foto che riporto sotto dice tutto.



Dedico questo post a tutti noi, amici cari, perché possiamo presto tornare a solcare le strade, di corsa, a piedi, da soli, in compagnia, con la testa per aria, le mani in tasca, le cuffie in testa, fischiettando, sbadigliando, ridendo, ma pure smadonnando contro la macchina che ci rovescia addosso la pozzanghera.

Comunque liberi di muoverci, felici di andare da qualche parte, per ritrovarci e ricominciare daccapo. 
Una volta ancora. 

martedì 15 maggio 2018

Cani, gatti e piccioni: evviva la ginnastica (e l'amicizia)


L'altro ieri me lo sono chiesto più volte, invano: a quante edizioni della Camminata Donna Rosa - l'iniziativa a sostegno dell'Associazione Noi per l'Oncologia Fermana, che lavora a stretto contatto con il reparto di oncologia dell'ospedale di Fermo - ho partecipato? 

A contare le magliette che ho nei cassetti della roba sportiva, dovrebbero essere quattro.
Il che significa che la prima volta è stata nel 2014, probabilmente ad aprile, meno di due mesi prima che mia madre se ne andasse.

Sì, deve essere così, ma d'altra parte ho rimosso quasi tutto quello che è successo prima degli ultimi quaranta giorni della sua vita. 

Diversamente, credo che non avrei voluto più prendervi parte.

E invece, eccomi lì nella foto che vedete sopra, a farmi fintamente portare in trionfo da alcune delle mie amiche di palestra.

Mentre correvo mi ha affiancato un'auto: "Signora, mi scusi, potrebbe rallentare, altrimenti non riusciamo a riprenderla con le altre?", mi sono sentita dire da una giovane armata di videocamera appollaiata nell'abitacolo assieme ad altri ragazzi.

Ridicola soprattutto io, che ho pure risposto di no perché stavo cercando di "fare il tempo".

Ancora più scema mi sono sentita quando, dopo un po' che ero arrivata, lo speaker mi ha detto di avermi riconosciuta. L'anno scorso avevo biascicato qualcosa sulla colazione sbagliata che mi aveva impedito di arrivare tra le prime tre.
Quest'anno, per lo meno, ho rimediato, ringraziando pubblicamente l'Asd Fermo 85 di cui faccio parte credo a questo punto da una decina d'anni, o poco meno.

Ed è stato così molto simpatico che alcune delle mie compagne di ginnastica del lunedì, martedì e giovedì pomeriggio mi abbiano voluto festeggiare in quella maniera.

L'ho scritto più volte e lo confermo: mi hanno davvero aiutato a vivere con più leggerezza tutti questi anni non proprio facili.

Arrivati a metà maggio, ormai, manca davvero poco alla fine delle lezioni, che torneranno a settembre, in concomitanza con la riapertura delle scuole.

Deve mancarmi molto il clima sereno dei miei anni di liceo, evidentemente.
Una mia cugina acquisita dice spesso che vorrebbe avere i problemi di quel periodo (lei parla più spesso dell'università, però) e la testa di adesso.

Mi sto convincendo che abbia ragione lei, anche se ci ho messo un bel po' a capirlo, forse perché, inspiegabilmente, non di rado mi sento ancora come se davvero avessi quegli anni lì.

Quando mi succede in palestra, o mentre corro, tutto sommato mi piace (mi piaccio) perché mi libero, almeno per qualche tempo, di tutti i pessimi pensieri di fallimento.

In questo momento, ce li ho di nuovo molto forti, quindi mi conviene farla breve e arrivare al punto.

Frequentando la Fermo 85, ho scoperto che la ginnastica ha molto a che fare con... galline, gatti, cani e altri animali.

Pensate: tra gli esercizi di stretching che facciamo alla fine dell'ora, c'è persino un piccione, inteso come tale quel movimento che ci propone più spesso Rita Sacripanti, la super Rita, di quanto non faccia Tiziana Bastiani, la finta dolce, ossia le due istruttrici che mi hanno rimesso in sesto e sentimento ritardando (almeno un pochino...) il crollo inevitabile.

Come si esegue? Facile a farsi più che a dirsi.
Ci si mette nella posizione di plank, si piega una gamba e la si schiaccia a terra di taglio, dopodiché si scende un pochino con il corpo senza sedersi del tutto. Ed eccolo là, piccione fatto.

Gli animali più famosi, però, restano i gatti e cani, entrambi mutuati dallo yoga e in quanto tali utilizzati sempre nella fase finale, di stiratura.

Il gatto prevede di mettersi a quattro zampe e di inarcare la schiena, mentre si inspira (mi pare) e di rilasciarla mentre si espira. Ne esiste anche una versione più dinamica, detta da Rita del "gatto attivo", ma per come la vedo io, è una sorta di pleonasmo, visto che non esiste quadrupede più agitato del felino. Oltretutto, in questo momento, non mi ricordo come si fa. Stasera me lo faccio rispiegare.

Passiamo al cane, l'altro animale amatissimo pure dai politici. Bene, quando si arriva a questo punto ci si sta per rimettere in posizione verticale, ma prima bisogna distendere le gambe mantenendo le braccia tese con le mani a terra e simulare una specie di camminata. Dopodiché, sempre con la schiena all'ingiù, ci si abbraccia le ginocchia e, molto lentamente (tolta la nostra elastica Aurelia, una superdonna con sorriso da pubblicità) si ritorna su.

Lo zoo da palestra contempla però altre creature, dicevamo.
Ce n'è una che non rende giustizia alla grazia femminile, detta squat dell'orso. Sinceramente: mi sta sulle balle perché penso di farlo malissimo. In tutti i modi si tratta di passare dal plank allo squat tenendo le braccia tese con i palmi delle mani a terra. Nooo, brutta roba.

Pure la gallina, beh, non è proprio bellissima a vedersi, ma forse farebbe la felicità dell'universo maschile se si fermasse a guardare tutti questi lati B all'insù, mentre si eseguono i tricipiti detti, per l'appunto, a gallina.

Abbiamo anche un cavallo, che consiste nel mettersi a cavalcioni dello step e salire e scendere da un lato e l'altro ripassando sempre dal centro, un esercizio piuttosto frequente nelle fasi aerobiche dell'allenamento, che non mi fa impazzire da quando sono caduta come una pera cotta con il fondoschiena proprio sull'attrezzo. 

Fantastica, forse perché molto infantile, è invece per me la lepre, che prevede di saltare con entrambe le gambe da un lato all'altro della panca lunga, appoggiandosi sulle braccia e scorrendo in avanti. Mi pare di volare quando la faccio.

Quali altri animali mancano? Uh, dimenticavo il cobra, già, sempre nella fase di stretching, che si usa per stirare gli addominali, stando pancia a terra e sollevando la schiena con l'aiuto delle braccia piegate. Quando si arriva a stenderle, invece, dal cobra si passa alla Sfinge. 
C'è anche il ragno o posizione a quattro di bastone (dovrebbero essere la stessa cosa), ma benché sia sicura che manchi all'appello qualche altro volatile o quattrozampe, il concetto mi pare chiaro: o no? 

La ginnastica ti riporta sulla terra, sia perché materialmente sei spesso in posizione orizzontale, sia perché, man mano, finisci per sentirti davvero pure tu un po' un cavallo o un gattaccio (come la mia grigia).

E poi ti riporta a terra anche da un altro punto di vista, quello più importante: siamo carne, sangue, ossa, muscoli e respiro e quella roba che sta lassù, sopra il collo (a proposito: sono molti anche gli esercizi di stretching per quest'ultimo), è poca cosa rispetto al resto.

Per curarla (intendo la testa) è essenziale partire proprio dal basso. Dalla punta dei piedi, salendo su su, fino al cuoio capelluto.

Se poi condividi il tutto con un gruppo coeso scacciapensieri, a fine ora ti sentirai comunque meglio.

E aspetterai di ritrasformarti in qualunque di quegli animali.

Dolori, ansie e fallimenti resteranno sempre lì in agguato, ma tu nel frattempo avrai perfezionato il ruggito (esisterà anche il leone? Chissà) e niente, davvero niente, sarà più come prima. 

Grazie, amiche. 
E coraggio a tutte noi, sempre.

mercoledì 28 gennaio 2015

Andre Agassi, la palestra e il mio motto del 2015: prima senti, poi (forse) pensa


Abbiamo posato per questa fotografia giovedì dell'altra settimana.
Per chi non dovesse riconoscermi subito, dico solo che di sicuro non sono tra le ragazze (e l'unico uomo del gruppo, l'insegnante di yoga Raul) in piedi.

Due giorni prima ci avevano esortato a indossare la maglia nuova della società sportiva Fermo 85, di cui faccio parte ormai da quasi cinque anni. Non riesco ancora a credere che sia passato già così tanto tempo, anche perché i primi due anni (o giù di lì) non mi sarei mai immaginata quanto quelle ore che trascorro lì, mescolata a signore e ragazze delle età più disparate, sarebbero diventate per me boccate preziose di ossigeno.
Chi mi conosce lo sa, perché ne parlo spesso: sono grata alle istruttrici Tiziana Bastiani e Rita Sacripanti (e pure a Raul, di cui, ahimè, ignoro il cognome) per avermi spinta a prendermi di nuovo cura del mio corpo.

Ho sempre amato fare sport all'aperto: a tennis, purtroppo, sono riuscita a giocare solo poche volte dalla scorsa estate durante la quale mi ero ripromessa di ricominciare e tuttavia adesso so con certezza che, volendo, potrei farlo.
Adoro sentire i miei muscoli che lavorano, il cuore che accelera e il sudore che m'imperla la schiena. Mi piace constatare che riesco ancora a piegarmi piuttosto bene e che, tutto sommato, riesco a cavarmela pure con le coreografie di step e aerobica, verso le quali, da ragazza, provavo una certa ostilità.

Tutto è cominciato, del resto, quando ero molto piccola, forse verso i 7-8 anni: cicciottella com'ero, mia madre pensò che potesse farmi bene muovermi un po', così mi iscrisse a un corso di ginnastica ritmica. Ero veramente negata: ricordo ancora, a essere sincera, come si fa il passo composto, ma detestavo che mi si dicesse di muovermi a comando.
Eppure fisicamente ero assai sciolta. Lo giuro, non sto scherzando: riuscivo a scendere in spaccata facendo giusto un salto nell'aria. Sapevo portare su soprattutto la gamba sinistra come vedevo fare da Heather Parisi.
Bastava però che mi si dicesse di seguire dei passi pre-costituiti perché andassi in crisi trasformandomi in un legnaccio inamovibile.

Ero pure dotata di un discreto scatto, come ebbi modo di sperimentare sulla pista d'atletica dello stadio Angelini di Chieti Scalo qualche anno dopo il fallimento con la ginnastica ritmica. Vinsi una gara, anche, ma non c'era storia: gli altri bambini erano più piccoli, non potevo che essere la più forte.

Al liceo, infatti, quando mi spedirono a gareggiare, fallii miseramente: persi l'equilibrio direttamente sui blocchi di partenza e uscii subito dalla corsia. Ho sempre detestato i rumori forti: il bang della pistola, probabilmente, doveva avermi messo paura prima ancora di essere esploso. Ma non cerchiamo scuse patetiche, soprattutto a distanza di ben trent'anni.

Poi c'è stato il tennis, di cui ho già parlato in un post.
Qui dico solo che ho appena finito Open in inglese, l'autobiografia di Andre Agassi, aggiungendo che avrei dovuto leggerlo anni fa per fare pace con la mia ansia da prestazione. Anche perché, a differenza del grandissimo campione di Vegas, come lui chiama la sua città natale (anche se il padre è di origini iraniane), a me nessuno ha mai chiesto di tirar fuori un talento che non ho mai sicuramente mai posseduto, a differenza sua e della grandissima (e strafichissima) moglie Steffi Graf.

E tuttavia consiglio Open a tutti quelli che amano lo sport e le sfide in generale: per affrontarle, dice in soldoni Andre e il suo ghost writer (che il campione ringrazia pubblicamente nella post-fazione, il che me lo ha reso decisamente più simpatico di come lo percepivo inizialmente quando, snobisticamente, dicevo di NON volerlo leggere), bisogna smettere di pensare e imparare, invece, a sentire.

Se pensi di vincere, non vinci; se senti che qualcosa può accadere, accadrà, se non proprio quella, magari un'altra, persino più importante.

Per lui, nella versione romanzata del suo passato di campione riluttante, smettere di giocare ha coinciso con una vera e propria rinascita. L'Agassi di oggi, un anno e poco più di me, è un uomo completo, e lo si vede anche nelle interviste. Per quanto siano costruite (gli americani sono dei maestri nelle fiction: pure la più scalcinata è più credibile di una qualsiasi soap nostrana), basta guardare Andre negli occhi per capire che, diamine, è uno felice ed è talmente felice che non si vergogna di farcelo vedere. Beato lui. E beata Stefanie (come preferisce farsi chiamare la sua bionda consorte) e i loro bambini.

Come tutti gli esseri umani, avranno (e provocheranno) di certo scazzi, dolori, frustrazioni, meschinità, etc etc, ma guardandoli insieme nell'intervista alla BBC che linko sotto, ho avvertito la stessa naturale energia vitale che percepisco ogni volta che vado in palestra, nella "mia" modesta palestra di provincia, tra signorine e signore di cui ignoro quasi tutto, ma con cui divido i miei sorrisi e la mia fatica ogni qual volta ci si chiede di affrontare un esercizio più complicato.

Quando sono lì dentro, mi sento forte come una campionessa, felice come una bambina e libera come una donna.

Approfitto perciò della foto di gruppo, dolcemente mossa, per l'ennesimo grazie alla vita.
Il presente è nebuloso (fuori fa un freddo cane), ma gli stati di grazia non hanno niente a che fare con i nostri pensieri e i nostri giudizi, spesso emessi a prescindere, con quella tipica presunzione di noi esseri umani.

Sentire è molto più potente. Eccome se lo è. Ogni tanto va fissato sulla carta, giusto per non scordarselo.
Non vedo l'ora che sia domani, ore 19.15.



venerdì 3 agosto 2012

Bizzarrie metropolitane in una calda mattina d'estate





Trenta secondi dopo, il tizio che fa le flessioni sul sagrato del duomo di Milano è sparito dietro l'angolo tutto saltellante. Pareva proprio che dicesse hop hop. Mi trovavo a passare da lì per caso, era il 27 giugno, circa le 13.30, e si schiattava di caldo.
Ho trovato talmente bizzarra la situazione che non ho resistito e ho scattato.
Mi resta un dubbio, atroce. E' amore per lo sport quel che appare o pura alienazione metropolitana? 
Chi può saperlo. 
Aggiungo che io, tutto sommato, sono una tipa abbastanza allenata, sia per conformazione naturale (e che ci si può fare se c'ho le gambe da Rumenigge? Mi è stato detto davvero un'estate di una vita fa da un ragazzotto toscano, probabilmente ubriaco, che me l'ha gridato dal buio di un lettino da spiaggia, mentre passavo in cerca non certo di lui. In vino veritas, epperò) sia perché mi piace tenermi in forma.
Però mai e poi mai mi metterei a fare ginnastica sotto un sole da infarto e meno che mai in un luogo non troppo dissimile da piazza San Marco a Venezia quanto ad affollamento.
Se non fosse corso via come un razzo, sarebbe stato da chiederglielo.
Perché? Perché lo fai? E' la tua pausa pranzo? E quando mangerai? E soprattutto che cosa? Una bella pizza farcita e spugnosa, pregna d'olio bisunto, oppure un'insalatona dalla dubbia provenienza in qualche mensa aziendale?
O magari sei uno degli atleti attualmente impegnati nelle Olimpiadi. Ecco, sarà così, ma siccome pratichi una disciplina minore, di quelle difficili da commentare per via della loro misteriosità, cerchi di attirare su di te gli sguardi dei passanti. A giudicare dalla pancia di quello più a sinistra tra i due che ti osservano, non credo che ti stiano prendendo sul serio. E non per invidia. Pur essendo, all'apparenza, di origine orientale, per me stanno commentando alla chietina maniera: "Cussù è nu pazz".
Chi può saperlo.
In ogni caso, il giorno dopo sono stata ben felice di riprendere la via per il centro-sud.
Per il mare. 
Almeno qui, se fai le flessioni sott'acqua, nessuno se ne accorge.