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venerdì 13 giugno 2014

Il passato in fumo, come le nuvole


Mi percorrono sentimenti contrastanti, per cui, a chi mi ha chiesto "come va?", non so davvero che cosa rispondere. Mi sembra solo incredibile che non sia passata neanche una settimana dal momento in cui, mia sorella ed io, abbiamo visto la trasformazione di nostra madre in qualcosa che non so definire.
E' come se fossero trascorsi secoli e, da un altro lato, è come se quel commiato non fosse mai avvenuto.

Stamattina con nostro padre è andato mio cognato (il tedesco-abruzzese, gentile d'animo e preciso, sulle cose tecniche, per lo meno). Un pochino me ne sento sollevata, perché, obiettivamente, la ditta di pompe funebri vicino a Iurino (per quelli che sono di Chieti, per gli altri sto parlando dello stradone anonimo e trafficato che porta verso Francavilla, il paese di mare noto pure all'estero come esempio di cattiva, anzi pessima, urbanizzazione) non è proprio un bel posto.

E d'altronde la morte produce pure incombenze di questo genere. A tratti, mentre eravamo all'obitorio, mi veniva persino da sorridere osservando gli orrendi paramenti sacri dietro la bara di mia madre e ascoltando il racconto raccolto da mia sorella dalla viva voce del cassamortaro anziano circa le nuove mode per le casse, oggi sempre più chiare e con rivestimenti pendant, niente più legno scuro per la bara né cremisi  per le fodere interne, oggi ritenuti troppo troppo funerei, insomma.

Pensavo anche a tutte le volte che abbiamo visto, anche con mia madre, i molti film di Totò in cui la morte viene spesso evocata in tono scherzoso. In particolare, mi veniva in mente la scena del film di Monicelli e Steno nella quale lo sfollato Antonio incontra l'ex custode del cimitero nell'abitazione che lui si è procurato di frodo. Il principe De Curtis aveva una grande paura della nostra ahimè comune fine ed è effettivamente vero che anche nei suoi film più riusciti c'è sempre una vena di malinconia che a tratti, a mio personale giudizio, può dare persino angoscia.

Da ragazzina mi capitava ogni tanto di provare degli strani pugni allo stomaco. Devo averne già parlato un po' di post fa, dicendo di averli risentiti.
In questi giorni così difficili, invece, quella morsa non c'è ed è un altro evidente segno di cambiamento, non so quanto definitivo.

Ho acquisito, almeno per il momento, una certa lucidità di pensiero.
Non voglio troppe rotture di balle, in termini più terra terra.
Ho ricevuto alcune mail molto belle e ne sono rimasta contenta. Un amico caro che ha subìto un forte stop, per fortuna in superamento, mi ha fatto leggere delle righe bellissime del filosofo Emanuele Severino.
Qualcuno, invece, non è stato capace neanche di dirmi un generico "mi dispiace".
Un paio di persone care non sono venute al funerale, ferendomi un bel po'.

So che non è facile confrontarsi con la morte, di sicuro anch'io, fino a qualche tempo fa, non avrei saputo come comportarmi. Penso tuttavia che basterebbe essere se stessi, anche riconoscendo la propria difficoltà in modo aperto.

Non sono nessuno per giudicare: anzi, i giudicanti in genere mi stanno pesantemente sulle scatole.
Al contempo, però, non sono dotata di spirito cristiano e il perdono a priori non riesco proprio a darlo.
La mia cara amica di liceo Valentina mi ha detto "non ti arrabbiare" e io le ho risposto, quasi con disperazione, "non sono arrabbiata, solo dispiaciuta".

Troppi dispiaceri insieme fanno male, per cui preferisco tacere avvolgendomi in questo silenzio così peculiare, senza tuffi allo stomaco e lacrime che vengono solo a tratti.
Sta tuonando, la mia pelle è bollente per via del sole che ho preso in acqua ieri, giocando con i miei nipoti. Ogni tanto anche loro vengono percorsi dalla malinconia, oggi, mi è parso, più dei giorni scorsi.

Sono proprio loro quelli da proteggere, di certo non io che mi avvio alla piena maturità della vita. Nè i miei amici troppe volte assenti durante questi due lunghi anni di malattia, vissuti, per fortuna, nella vicinanza della nostra bella e affettuosa famiglia allargata.
Non sono affatto contenta che ci abbiano visto discutere, noi adulti (io e mio padre ieri sera per la melanzana alla parmigiana che secondo me era andata a male, figuriamoci un po') né di non riuscire a essere la zia giocherellona che hanno conosciuto. So che capiscono, ma restano pur sempre bambini.

Non sarà facile neanche tornarmene a casa mia, che casa mia non è, ma è abitata dal mio uomo e i nostri mici adorati. Quei due, così asociali, non hanno conosciuto mia mamma, mentre lei ha spesso contribuito al loro sostentamento. Per analogia con i nipoti, sono pur sempre gatti, bisogna viziarli e coccolarli sperando che ci ricambino in qualche modo.

Il mio passato è, in definitiva, sfumato, come quelle nuvole sfilacciate che ho fotografato ieri mattina, uscendo dalla banca di mio padre. Un posto che da bambina e da ragazza frequentavo moltissimo. Che strano tornarci dopo così tanto tempo.

Non voglio dire che se ne sia andato via, solo che è nebuloso, lontano e vicino come quel cielo dal quale, forse, mia mamma ci sta osservando tutti.
Starai ridendo?
Lo spero, con tutto il cuore.

domenica 2 settembre 2012

Il fumetto dell'anno scorso e il senso severiniano della vita


Napoleone, Storia di Allegra

L'estate sta finendo e il mio povero computer sembra essersi avviato anch'esso sul viale del tramonto. Del resto, ha svolto il suo compito più che degnamente, considerata la mole di ciarpame vario con cui l'ho sovraccaricato.
E comunque, come stavo dicendo, tutto passa (provengo dalla scuola di Lapalisse), persino le serie a fumetti. E' successo per esempio a Napoleone Di Carlo, bizzarro portiere italiano di un hotel ginevrino (in un'altra vita faceva il poliziotto), amico di strani esserini fantasy visibili solo a chi, come lui, non ha tutte le rotelle a posto. Nella storia contenente le vignette sopra riportate, il protagonista del seriale chiuso dalla Bonelli una decina d'anni fa circa, condivide la sua capacità di andare oltre la realtà visibile a noi comuni mortali con un'adolescente rimasta orfana troppo presto. Perché ho deciso di scannerizzare (male) la pagina del fumetto, sottoponendo il mio povero strumento di simil-lavoro a ulteriore sforzo? Per due ragioni. Una piccola e l'altra grande.
Ho comprato il fumetto l'estate scorsa nel banco del mercatino di Fermo del giovedì che ne aveva a pacchi: quest'anno, invece, lo "svizzero" ha lasciato il posto ad altri seriali, compresi i simpatici Niko e Chico, in voga nei primi anni Settanta, che tanto mi hanno deliziato nelle serate più calde di questa lunga e crudelmente bella stagione.
Si trattava, in sostanza, di un avanzo che ho aspettato pazientemente di leggere nello stesso periodo dell'anno, sottoponendomi a una specie di inconscio (e segretamente infantile) rito di passaggio. E d'altra parte, con tutti i libri che non ho ancora letto, potevo ben dimenticarmi di Napoleone per aprirlo al momento giusto, ossia sdraiata sulla spiaggia, con il sole quasi allo zenit.
La verità sapete qual è? Dovevo leggerlo quest'anno. E qui passo alla seconda ragione che mi spinge a parlarne in questo spazio. In sogno Allegra, la protagonista del numero, ritrova la nonna, l'unica parente che le era rimasta fino a poco tempo prima. E' proprio lei a spingerla ad andare avanti, parlandole della vita e della morte in una maniera che mi ha fatto pensare al filosofo Emanuele Severino, di cui, pur sapendo pochissimo, ho cominciato ad apprezzare il valore grazie alle continue sollecitazioni del mio caro amico Paolo Ferrario.
Anche quando tutto sembra finire, in realtà non finisce davvero. Preferisco però trascrivere le parole della nonna di Allegra, a beneficio dei molti che non riusciranno a leggere direttamente dalla mia pessima scannerizzazione: "La vita si alterna alla morte e scorre in un tempo senza fine... è un trucco che le serve per giocare con le forme e costruire emozioni, desideri, sogni, rinnovando le cose continuamente... e quando anche il dolore sembra insopportabile, quando si muore, e sembra che tutto finisca, niente finisce veramente...".
Sì. Dovevo leggere questo numero di Napoleone quest'anno: lo scorso ero troppo concentrata sugli imminenti 40 anni e sui tristi bilanci dei traguardi mai raggiunti. Anche adesso sono sempre convinta di aver perso un sacco di tempo e di non aver messo a frutto quasi nulla dei miei forse solo potenziali talenti, ma guardando ieri tutte quelle persone in alcuni casi molto più vecchie di me disposte a mettersi in gioco con i loro lavori fotografici, ho capito che sì, i riti di passaggio servono, ma proprio per aiutarci a non sentirci (almeno non troppo) prigionieri dei nostri limiti. Dei nostri corpi e dei nostri pensieri necessariamente limitati.
Per fortuna, il mondo è molto più grande di noi.