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martedì 26 gennaio 2016

Adottare un quattrozampe? Una scelta "pesante"...


Deve essere un po' come succede con i figli. Voi madri e padri, semmai, smentitemi, ma se lo fate, per piacere, siate sinceri come sto per esserlo io.
A volte gli amici a quattrozampe sono pesanti. Lo diceva spesso pure la mia, di madre, riferendosi alle buonanime di Sancio e Stino (detto Fausto), che le stavano sempre addosso.

Bice la grigia (immortalatami in grembo giusto stamattina) è capace di andare avanti minuti, buoni quarti d'ora, a tallonarti miagolando, con modulazioni dell'ugola da cantante lirica, finché non ti siedi da qualche parte e non le permetti di impastare (fare la pasta, fare ron ron, o come dite voi in altre parti d'Italia).

Certe volte, obiettivamente, mi verrebbe da sbalanzarla da un'altra parte (mi viene il dubbio che il verbo della prima coniugazione in -are da me succitato non esista nella lingua di Dante. Pazienza. Tanto si capisce. Credo).
Ma poi, come (immagino) facciano anche le brave mammine con i loro adoratissimi pargoli, mi piego e lascio che mi martirizzi. Perché certe volte mi fa pure male con quelle unghiette fini fini ma affilatissime. La pretesa, infatti, non si esaurisce con l'innalzamento delle temperature, ma se hai una maglietta fina, la zampetta unghiata trapassa, eccome se lo fa.

Detesto essere considerata una gattara. Non lo sono affatto. Almeno, non nel senso classico del termine.
Per un breve periodo, quando abitavo in cima al colle del Girfalco, ho rischiato di diventarlo: ne vedevo così tanti, in massima parte neri, sulle scale dell'hotel anni Cinquanta tuttora in disuso, da non riuscire a ignorarne il destino. Certe sere, quando tornavo dalla palestra in auto, mi venivano incontro in diversi, quasi tutti ancora cuccioli, sperando che lanciassi loro qualche croccantino.

Ho cominciato a evitarli dopo che ho dovuto (meglio: voluto) raccattare il corpo senza vita di un povero gatto sbilenco, al quale mi ero un pochino affezionata. Dopo quella volta, no, no, no, non vi guardo: un'altra fregatura no.

Ho anche tentato, ve l'assicuro, di dissuadere mio marito dall'adottare i nostri due attuali coinquilini, ma lui, niente, si era fissato e quindi ok al ritorno dei gatti nella mia quotidianità.

Siamo partiti malissimo. Il povero Chet-Ciccio ha fatto la fine che sapete (se non la sapete, di certo non ve la somministro). Non contenti, abbiamo perseverato e zac, gabbati doppiamente dalla teppaglia minuscola che ci costringe a queste sedute di human-therapy (a suo assoluto vantaggio, per intendersi) e da Nino, il gatto tonto dalla pelliccia obiettivamente eccezionale (crociato come un antico combattente in Terra Santa), che, peraltro, mi ignora quasi totalmente.

Ogni tanto (ogni tanto?) quest'ultimo vomita: giusto oggi appena dopo pranzo, nella fase più delicata della digestione (di noi umani: stavamo per prendere l'orzocaffè), tiè, sul copridivano. E dire che l'abbiamo portato dalle veterinarie, abbiamo cominciato a comprare croccantini di classe A++, ma niente, soprattutto il maschio, con una certa frequenza, sente l'impellente bisogno di sporcare qualche copertura anti-felino. Spero, con tutto il cuore, che non lo faccia mai nel letto, altrimenti è la volta buona che lo libero sulla spiaggia.

Oh, raga, sto esagerando: mi ci vedete voi ad abbandonare un animale? Suvvia. Voi genitori siate onesti e ammettetelo: una bella colonia rieducativa per i vostri innocui piccini non l'avete mai sognata?

Il problema, però, resta.
Certe volte ho come l'impressione che noi umani abbiamo bisogno di legacci per sentire di avere un ruolo. Peggio: per dimostrare a noi stessi che per qualcuno siamo importanti.
Poi, però, che cosa accade? Che importanti lo diventiamo davvero e allora sta' cosa del dominatore e del dominato, da porno soft per le moderne casalinghe (oh, tra parentesi, non sapevo neanche che ieri mandassero il film delle sfumature di grigio, di cui a giorni esce un'altrettanto orribile parodia), ci sta un tantino scomoda.

Allo stato attuale, Bice e Nino non potrebbero mai cavarsela all'aperto, ne sono più che certa. Per loro sarebbe come passare dal Grand Hotel alla Siria.
D'altronde, quale umano vorrebbe essere nella seconda, ora come ora?
Ed è ben per questa ragione, umanitaria più che umana, in sostanza, che quei due mi tollerano ancora come loro compagna di casa.

E dire che li accarezzo spesso, che parlo loro con le vocine sceme come si fa con i poppanti, ma niente: se potessero, mi ci manderebbero eccome sotto una tenda militare.

Tanto, hanno Paolo, il loro Vate, il loro nume tutelare. Quello che la mattina, il 99% delle volte, si alza elargendo loro l'attesa porzioncina di sfilaccetti senza salsa (l'unica edibile per i signori), quello che, pur detestandoli a tratti molto più di me, si scervella con estenuanti ricerche su internet da cellulare, per cercare altri alimenti anti-vomito. Quello che dispensa loro bacini facendo intenerire persino un cuore di pietra come me.

Sarà per questo che gli inquilini baffuti non mi considerano molto? Eppure, vorrei dire loro, pure io vi svuoto la lettiera (almeno rimuovo i solidi quando devo buttare la spazzatura), anche io ho voluto il grattatoio a torre per la signorina grigia, pure io, spesso, vi cambio la ciotola d'acqua... insomma esisto!

Niente. Per Bice, al limite, posso andare ancora bene come stuoino scaldasonno; Nino, ogni tanto, mi concede di grattargli la pancia appesa. Ma niente più.

Mi fanno compagnia? Il livello del mio stress sarebbe molto maggiore se non ci fossero?
Non saprei. Certo, le ultime analisi erano particolarmente buone, ma temo che dipenda più dal fatto che non ho niente da fare. Esattamente come loro, con l'importante differenza, manco a dirlo, a loro assoluto vantaggio, che quei due là non hanno (ma proprio per niente) ansie da prestazione e possono (ooooh) dormire buona parte della giornata, senza ricevere i fastidiosissimi messaggini di Infojobs che ti rammentano la triste y sfigata realtà.

Insomma, è bello avere animali? No: la domanda è mal posta.
Arrivo alla risposta girandoci intorno. Così.

E' come stare costantemente dentro a una puntata di Superquark e rendersi conto di che merdine siamo noi a due zampe. Davvero. I gatti scelgono chi amare senza inutili sensi di colpa: Nino mi tollera, tutto sommato, ma non mi pare afflitto dal fatto (oggettivo, ve l'assicuro) di non provare nulla di più.
Bice mi dà più valore (sarà che vede che sono poco più grande di lei e che ogni tanto, per blandirla vergognosamente, le allungo anche qualche pezzettino dei miei pasti, decisamente più interessanti di qualsiasi croccantino extralusso), ma non si pente neanche per un istante quando salta giù dal mio grembo senza neanche dirmi "grazie per il tuo tempo".

Diciamo, in definitiva, che convivere con gli animali è istruttivo.

E che quando non li vedo per un po' di giorni, ne sento la mancanza.

Incatenata a vita. Capito?

Quindi, voi che non ancora li avete, pensateci bene.

venerdì 13 giugno 2014

Il passato in fumo, come le nuvole


Mi percorrono sentimenti contrastanti, per cui, a chi mi ha chiesto "come va?", non so davvero che cosa rispondere. Mi sembra solo incredibile che non sia passata neanche una settimana dal momento in cui, mia sorella ed io, abbiamo visto la trasformazione di nostra madre in qualcosa che non so definire.
E' come se fossero trascorsi secoli e, da un altro lato, è come se quel commiato non fosse mai avvenuto.

Stamattina con nostro padre è andato mio cognato (il tedesco-abruzzese, gentile d'animo e preciso, sulle cose tecniche, per lo meno). Un pochino me ne sento sollevata, perché, obiettivamente, la ditta di pompe funebri vicino a Iurino (per quelli che sono di Chieti, per gli altri sto parlando dello stradone anonimo e trafficato che porta verso Francavilla, il paese di mare noto pure all'estero come esempio di cattiva, anzi pessima, urbanizzazione) non è proprio un bel posto.

E d'altronde la morte produce pure incombenze di questo genere. A tratti, mentre eravamo all'obitorio, mi veniva persino da sorridere osservando gli orrendi paramenti sacri dietro la bara di mia madre e ascoltando il racconto raccolto da mia sorella dalla viva voce del cassamortaro anziano circa le nuove mode per le casse, oggi sempre più chiare e con rivestimenti pendant, niente più legno scuro per la bara né cremisi  per le fodere interne, oggi ritenuti troppo troppo funerei, insomma.

Pensavo anche a tutte le volte che abbiamo visto, anche con mia madre, i molti film di Totò in cui la morte viene spesso evocata in tono scherzoso. In particolare, mi veniva in mente la scena del film di Monicelli e Steno nella quale lo sfollato Antonio incontra l'ex custode del cimitero nell'abitazione che lui si è procurato di frodo. Il principe De Curtis aveva una grande paura della nostra ahimè comune fine ed è effettivamente vero che anche nei suoi film più riusciti c'è sempre una vena di malinconia che a tratti, a mio personale giudizio, può dare persino angoscia.

Da ragazzina mi capitava ogni tanto di provare degli strani pugni allo stomaco. Devo averne già parlato un po' di post fa, dicendo di averli risentiti.
In questi giorni così difficili, invece, quella morsa non c'è ed è un altro evidente segno di cambiamento, non so quanto definitivo.

Ho acquisito, almeno per il momento, una certa lucidità di pensiero.
Non voglio troppe rotture di balle, in termini più terra terra.
Ho ricevuto alcune mail molto belle e ne sono rimasta contenta. Un amico caro che ha subìto un forte stop, per fortuna in superamento, mi ha fatto leggere delle righe bellissime del filosofo Emanuele Severino.
Qualcuno, invece, non è stato capace neanche di dirmi un generico "mi dispiace".
Un paio di persone care non sono venute al funerale, ferendomi un bel po'.

So che non è facile confrontarsi con la morte, di sicuro anch'io, fino a qualche tempo fa, non avrei saputo come comportarmi. Penso tuttavia che basterebbe essere se stessi, anche riconoscendo la propria difficoltà in modo aperto.

Non sono nessuno per giudicare: anzi, i giudicanti in genere mi stanno pesantemente sulle scatole.
Al contempo, però, non sono dotata di spirito cristiano e il perdono a priori non riesco proprio a darlo.
La mia cara amica di liceo Valentina mi ha detto "non ti arrabbiare" e io le ho risposto, quasi con disperazione, "non sono arrabbiata, solo dispiaciuta".

Troppi dispiaceri insieme fanno male, per cui preferisco tacere avvolgendomi in questo silenzio così peculiare, senza tuffi allo stomaco e lacrime che vengono solo a tratti.
Sta tuonando, la mia pelle è bollente per via del sole che ho preso in acqua ieri, giocando con i miei nipoti. Ogni tanto anche loro vengono percorsi dalla malinconia, oggi, mi è parso, più dei giorni scorsi.

Sono proprio loro quelli da proteggere, di certo non io che mi avvio alla piena maturità della vita. Nè i miei amici troppe volte assenti durante questi due lunghi anni di malattia, vissuti, per fortuna, nella vicinanza della nostra bella e affettuosa famiglia allargata.
Non sono affatto contenta che ci abbiano visto discutere, noi adulti (io e mio padre ieri sera per la melanzana alla parmigiana che secondo me era andata a male, figuriamoci un po') né di non riuscire a essere la zia giocherellona che hanno conosciuto. So che capiscono, ma restano pur sempre bambini.

Non sarà facile neanche tornarmene a casa mia, che casa mia non è, ma è abitata dal mio uomo e i nostri mici adorati. Quei due, così asociali, non hanno conosciuto mia mamma, mentre lei ha spesso contribuito al loro sostentamento. Per analogia con i nipoti, sono pur sempre gatti, bisogna viziarli e coccolarli sperando che ci ricambino in qualche modo.

Il mio passato è, in definitiva, sfumato, come quelle nuvole sfilacciate che ho fotografato ieri mattina, uscendo dalla banca di mio padre. Un posto che da bambina e da ragazza frequentavo moltissimo. Che strano tornarci dopo così tanto tempo.

Non voglio dire che se ne sia andato via, solo che è nebuloso, lontano e vicino come quel cielo dal quale, forse, mia mamma ci sta osservando tutti.
Starai ridendo?
Lo spero, con tutto il cuore.