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lunedì 8 gennaio 2018

Vitaliano Trevisan, il lavoro e il dolore che fa bene


Ero indecisa se scrivere qualche riga su Works, il libro di Vitaliano Trevisan che ho finito di leggere ieri mattina. Non vorrei che si confondesse la forte impressione che hanno prodotto su di me le oltre seicento pagine che lo scrittore vicentino ha dedicato ai suoi svariati e più lavori che l'hanno impegnato dai tempi della scuola al 2002 con il mio personale percorso professionale così disastrato.

Certo, se Trevisan mi ha colpito vuol dire che ha toccato qualche corda che mi riguarda molto direttamente, ma il rischio che corro, quando succede com'è effettivamente successo con lui, è di diventare barbosa oltre ogni misura.

Posso solo dirvi che consiglio la lettura di questo viaggio nella ricca provincia italiana del Nord Est, partito negli anni Settanta del secolo scorso e approdato nei primi due dell'attuale, a chi abbia voglia di immergersi in una scrittura cervellotica e sinuosa, ironica e amara. 

Ho letto qui e là paludatissime recensioni che ne coglierebbero citazioni più e meno esplicite da Thomas Bernhard, un autore a me del tutto sconosciuto. Niente di più facile, visto che Trevisan lo nomina nel libro a più riprese come uno dei suoi tre numi tutelari, letterariamente parlando, insieme con Samuel Beckett e Ludwig Wittgenstein. La mia crassa ignoranza mi ha preservato finora dalla lettura pure degli altri due, quindi figuriamoci se mi metto a negare l'esistenza di punti di contatto tra lui e loro.

Sia come sia, Trevisan mi ha fatto invece nascere proprio la curiosità di saperne di più, di Bernhard and co, e in generale ho apprezzato la generosità con la quale si è messo a nudo, o ha finto di farlo (restando però credibilissimo), probabilmente, più di quello che dichiari in corso d'opera.

Dev'essere, in ogni caso, un grande rompicoglioni proprio come si dipinge, dotato contemporaneamente di un istinto speculativo (alla Wittgenstein?) non comune.
Oggi dice di vivere in un paesino di collina lontano dal centro storico "che gli fa schifo" e di passare poche ore al giorno a scrivere, e il resto a camminare o a spaccare la legna.

A vederlo, non dà l'idea che voglia fare il guru e francamente spero di non sbagliarmi.

Mi toccherà a breve restituire al legittimo proprietario una delle migliori scoperte dell'anno passato: un sentito grazie va a lui, e in generale agli organizzatori del Premio Volponi per la letteratura e l'impegno di civile, tornato a Lu Portu dopo vari anni di migrazioni.

E' già la seconda volta che uno dei libri in concorso (anche l'altra volta non il primo classificato) mi dice talmente tanto da provare quasi dispiacere di averlo concluso. In quel caso si trattava di Sebastiano Nata e il suo "Il valore dei giorni": tutt'altra atmosfera e storia, ma, per me, uguale generosità letteraria.

Che altro posso aggiungere?

C'è troppa retorica sul lavoro come modo per "realizzare se stessi", come dice l'autore di Works. Bisognerebbe, se possibile, tentare di capire chi si è e ciò che si può fare con il solo fatto di essere in vita a prescindere dalle proprie ambizioni, chissà se morali o materiali.

L'inquietudine e più ancora la depressione e la voglia di mandare tutto a ramengo sono fedeli compagne di chi arranca giorno dopo giorno senza una meta precisa, ma io credo, in ogni caso, nell'istinto di sopravvivenza, lo stesso penso che faccia Trevisan e molti di noi.

Meno male, poi, che ogni tanto qualcuno fissa sulla carta qualcosa di fondamentale. Di doloroso, anche, ma di quel genere che di dolore che fa bene, perché ti spinge a non addormentarti, o a farlo nei tempi giusti.

Perciò concludo il post e volto pagina. 
Fino al prossimo risveglio.

martedì 3 settembre 2013

Sebastiano Nata e il valore dei giorni, secondo me

Porto San Giorgio, vita (dura) da spiaggia

Ho cominciato Il valore dei giorni di Sebastiano Nata con un pizzico di scetticismo. Trovavo la sua prosa eccessivamente piana e mi pareva di scorgervi gli stessi difetti che imputavano alla mia al liceo, quando mi si valutava regolarmente con un sette/sette più e il commento aggiuntivo del tipo "il tema è scorrevole e conciso, la traccia ben seguita" e quasi nulla più.
La scuola ti condiziona tantissimo, anche nell'idea che hai di te stesso, come persona.
E' effettivamente vero che scrivo a mitraglia e che, in genere, faccio poche modifiche alla prima versione. Non so se lo stesso sia capitato allo scrittore romano di origine marchigiana che alla fine mi ha completamente conquistato proprio per via delle sue parole così all'apparenza facili e insieme molto dettagliate.
Nata racconta di due fratelli, dando voce a quello più giovane, Marco Leoni, manager in una grossa multinazionale della finanza. Domenico è il più vecchio, una vita fuori dagli schemi, fuggito via dalla grande città per tornare nella sua piccola città natale, sull'Adriatico: Porto San Giorgio.
Ha avuto una moglie e un figlio, purtroppo tragicamente  scomparso, e l'esperienza l'ha segnato per sempre. Faccio un altro mini passo indietro.
Ammetto di aver comprato questo libro proprio perché era ambientato nello stesso luogo in cui sono venuta a vivere, anch'io, in un certo senso, per fuggire dalla grande città.
Era stato presentato in occasione del premio letterario Paolo Volponi che si tiene tutti gli anni a metà autunno a Porto Sant'Elpidio (e prima proprio a Porto San Giorgio). Il libro di Nata era nella triade dei finalisti dell'edizione del 2010. Non ha vinto e io, che amo i perdenti (il che dice molto sul mio modo di stare al mondo), l'ho comprato.
Non ho idea se Il valore dei giorni abbia comunque avuto altri riconoscimenti, in ogni caso, ve l'assicuro, è un grandissimo libro.
Parla di lavoro, di aridità, di famiglia, di mare e soprattutto di vita e morte.
Descrive con dovizia di particolari la sala di attesa del palazzo del capo di Marco, ristrutturata sapientemente da un architetto di chiara fama, come si dice, e a me è sembrato di essere lì con lui, a macerarmi d'ansia per quel che il freddo francese gli avrebbe detto di lì a poco, addentando i suoi sandwich, un pranzo veloce come si confà agli uomini (e ahimè alle donne) che hanno troppo poco tempo per concedersi un pasto come si deve.
Mi ha poi portato in mare con lui e Domenico, sulla loro barchetta a vela, tra le onde di quel mare che osservo spesso anche dalla collina su cui abito. Sentivo le conchiglie che gli si conficcavano tra i piedi nella lunga passeggiata mattutina sulla battigia, la testa vuota, la bocca amara per le troppe sigarette fumate.
Non voglio dire molto della trama, perché, alla fine, non è così importante. Quel che conta è il modo in cui si dipana e quel senso di fatica e di (probabile, ma non sicura) rinascita che lascia intuire verso la fine.
E' in ogni caso proprio il finale che me l'ha fatto amare in maniera definitiva. Non so se avrei pensato lo stesso qualche anno fa, quando bisognava fingere di farsi attrarre da storie tristi, intellettualeggianti alla The dreamers (ma c'è di molto peggio), il film di Bernardo Bertolucci che ho visto giusto due sere fa su Iris. Sarà un segno dell'età (mi sa proprio di sì), ma sto cominciando a capire che cosa desidero quando apro un libro, guardo un film, vado a una mostra: voglio sognare. Che cosa? Un'altra possibilità, un percorso differente, voglio emozionarmi, magari anche piangere, ma sentirmi viva, sentirmi in qualche misura migliore. Vivere una catarsi, insomma.
Saranno i tempi bui, sarà l'incertezza (a tratti davvero angosciante) su come me la caverò, come ce la caveremo, in ogni caso non ho bisogno di alimentare il mal di vivere, la nausea sartriana, facendomi martirizzare da quegli autori che pensano di avere la verità in tasca (di recente mia sorella mi ha parlato di Melancholia di Lars Von Trier: non oso pensare a quale effetto farebbe su di me).
Perciò grazie a Sebastiano Nata e al suo ritratto asciutto ma romantico della vita e di quel che conta davvero. Per me, di sicuro.