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mercoledì 10 febbraio 2016

Henry Miller e gli anti-eroi: un po' più di speranza no?



Oggi sono decisamente acciaccata, per cui potrei essere nello stato perfetto per lasciarmi andare al flusso sconnesso di parole che ho trovato in Tropico del cancro di Henry Miller.
Sto (ovviamente) facendo dell'ironia: resta però il fatto che nel complesso il libro scelto dal gruppo lettura della libreria Mingus de Lu Portu non mi abbia fatto impazzire.

Ci sono pagine, indubbiamente, interessanti, ma ho capito che a me l'eroe-antieroe maledetto, stringi stringi, mi sta sulle balle.
Vero che è stato scritto tra gli anni Venti e Trenta da un americano talentuoso nonché pieno di denaro (rispetto al grosso degli europei dei tempi, intendo) che poteva permettersi anche il lusso di vivere da pezzente. Vero anche che quegli anni sono assai diversi dai quasi Venti del XXI secolo, almeno in Occidente.

Resta però il fatto che io personalmente ho bisogno di storie con un principio, uno svolgimento e una fine, altrimenti m'annoio o mi arrabbio, il secondo stato d'animo migliore del primo sicuramente.

Del libro, mi piace molto l'ambientazione parigina: vi ho trovato delle analogie con Bel Ami, il bel romanzo di Guy De Maupassant citato - non a caso - dallo stesso Miller.
Non mi scandalizzano, non più di tanto almeno, le scene di sesso e la misoginia di fondo di tutti gli scoppiati amici del protagonista nonché di quest'ultimo. Non mi piacciono, d'altronde, neanche le figure femminili della storia, più o meno tutte prostitute vere o aspiranti tali.

C'è una solitudine assoluta e disperata in tutti i personaggi che lascia sgomenti.
Leggendolo, mi veniva da pensare: che diavolo ci fate tutti quanti a Parigi, in Europa, se poi dovete vivere così sballati? Non era meglio se ve ne stavate nelle tanto disprezzate campagne no limits della vostra patria lontana?

Davvero: che gusto c'è a rovinarsi se poi non si ha abbastanza talento e fortuna per sfondare nella letteratura, nell'arte in genere?

Da quel che ho capito, Miller è riuscito a cavarsela (cominciando anche a guadagnare bene) assai dopo essere ritornato in Usa e aver contratto diversi matrimoni più (presumo) una sfilza di malattie veneree che comunque non gli hanno impedito di campare fino a tarda età.
La consacrazione finale, tra l'altro, è arrivata nei mitici Sixties, quelli che hanno (per fortuna) modificato radicalmente i costumi dell'Occidente e che tuttavia hanno sdoganato gli scoppiati e gli sciroccati di ogni risma, che non sempre hanno fatto bene alle generazioni venute dopo.

In tutti i modi, non ho idea di come siano gli altri romanzi di Miller, per cui non posso giudicare. Ho però avuto la sensazione di leggere un Hemingway meno censurato e più decadente. Fiesta, ossia il romanzo del grande narratore americano che più si avvicina alla storia contenuta in Tropico del cancro, può indisporre quanto quello di Miller se lo si giudica circoscrivendo il campo di osservazione ai personaggi che vi sono tratteggiati.

Però quei tagli radicali alla prosa operati dall'autore del Vecchio e il Mare ne hanno reso la lingua più attraente, almeno per me che non amo le scritture troppo ridondanti.

Che altro dire? Se non ci fosse stato il gruppo lettura sangiorgese, dubito che sarei riuscita ad arrivare fino in fondo a Tropico del cancro, per cui va bene così.
E poi mi viene da fare anche un'altra considerazione: forse Miller voleva infondere il senso di disagio e disgusto che ho provato leggendone le descrizioni piene di puzzo e sporcizia esteriore e interiore.

Quindi chapeau allo scrittore che per campare ha fatto davvero il traduttore, il correttore di bozze e il giornalista.

Vorrei solo, infantilmente, un po' più di speranza. Peace and love, come nei già citati mitici Sixties (e Seventies), insomma, quelli che ho incarnato ieri (esponendomi al pubblico ludibrio, come vedete nella foto sopra) alla festa di carnevale del borgo marinaro.

Ma sono una donna, avrebbero detto lui e i suoi amici, che altro aspettarsi se non quella cosa lì.

Mi domando di quanto squallore, di quanta violenza e morte abbiamo ancora bisogno per deciderci a cambiare stile di vita.

La domanda è naturalmente retorica.

Al prossimo libro, amici.

lunedì 1 febbraio 2016

Aria nuova, aria diversa



Venerdì scorso ho ordinato il divano nuovo. Dovrebbe arrivare in cinquanta giorni e, devo dire, in tutta incoscienza, che non ne vedo l'ora.
La cosiddetta fase due della mia vita procede a una certa velocità.

Per la prima volta dopo anni ho smesso di "festeggiare" il mezzo compleanno (i primi sei mesi svoltati i quali piomberò dritta dritta nel 45esimo), perché ho fretta di compiere concreti passi in avanti. Prima che sia troppo tardi, probabilmente.

Sono terrorizzata (a tratti) dal timore che non riuscirò mai più a lavorare, ma al contempo so che agitarmi in questo mezzo bicchiere d'acqua non mi porterà da nessuna parte.

Così vado avanti con la sistemazione della casa, il primo posto (lo dico piano) dove, finalmente, mi sento davvero bene.

Pare che per noi cancerini (bleah) la casa sia importante: bella originalità.

In ogni caso, come immagino succeda a molti, mi piace provare questa sensazione.

Sto sognando spesso mia madre.
Non mi va di parlarne, non sono ancora pronta per scriverne nel modo giusto.

Faccio, in generale, sogni pazzeschi: sarà che sto leggendo Tropico del cancro di Henry Miller, una scrittura disordinata, a tratti fin troppo per i miei gusti autistici.

O sarà che non ci sto capendo granché, se non che voglio, fortissimamente voglio, aria nuova.

E l'avrò, ne sono convinta.
Ma sarà diversa, molto diversa, da quella che sognavo anni fa.

Lo intuisco dai sogni ricorrenti sul giornalismo e sui giornalisti (facce che non ho mai visto, chissà se esistono davvero) che si alternano a quelli con mia mamma mischiati a varie comparse reali (tipo la simpatica compagna di ginnastica che mi ha fatto i capelli l'ultima volta!) e irreali (i parrucchieri fermani, di cui uno handicappato e l'altro con la pipa...).

Staremo a vedere.

Voi pazientate con me.
Se vi fa, of course.