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martedì 2 novembre 2021

Omaggio a Vienna e alle vittime di Schwedenplatz, un anno dopo

 


Non vorrei si pensasse che di Vienna ho solo brutti ricordi.
Ho vissuto momenti non facili, direi proprio difficili, però, a modo mio, ho imparato ad apprezzare questa città a me così poco affine.

Ho molto rispetto per il culto dei defunti

Come quasi tutte le persone di origini meridionali, almeno di una certa età - delle nuove generazioni so pochissimo - ho sentito spesso raccontare dai miei genitori e dai miei nonni le storie dei nostri parenti nati e vissuti a cavallo tra Otto e Novecento. 
Di un prozio so, per esempio, che si sono perse le tracce nella campagna di Russia. Proprio qui dietro di me c'è il baule della nonna materna, ricoperto con un telo che pare sia arrivato dal Nord Africa: a portarlo in Italia fino alla cittadina di provincia piazzata su uno sconosciuto colle a pochi chilometri dalla costa adriatica, un parente non meglio identificato, forse sempre in tempi di guerra.

Torniamo però al presente, al passato recente, almeno. 
Dicevo di Vienna e dei defunti. Oggi anche lì si dedica un pensiero ai cari che non ci sono più, quindi anche alle quattro persone (due donne e due uomini) che hanno perso la vita nell'attentato che ha colpito la mite capitale dell'Austria nella sera del 2 novembre di un anno fa

Tutti i giornali austriaci, naturalmente, hanno ricordato i fatti di quella folle sera. C'è chi, come il quotidiano Der Standard, cita per l'anniversario un sondaggio secondo il quale un terzo degli austriaci (per la precisione, in Austria e credo anche in Germania, si scrivono sempre entrambi i generi femminile e maschile, quindi in questo caso "per le austriache e gli austriaci") teme un nuovo attentato.

Un terzo di non so quale campione, lo so, di per sé non vuol dire nulla. E d'altra parte, non ho alcuna intenzione di addentrarmi in un'analisi sulle paure percepite e reali dell'essere umano davanti all'universo delle possibili disgrazie cui siamo esposti giornalmente.

Di certo un fatto di quella tragica portata ha lasciato qualche strascico nell'immagine rasserenante che restituisce ai turisti il centro città, quest'anno di nuovo acceso dai mercatini natalizi dopo un lungo, estenuante, periodo di buio (mi piacerebbe vederli, non ve lo nascondo, soprattutto vorrei teletrasportarmi in quello davanti a Schönbrunn a bere uno zuccheratissimo Glühwein in mezzo a gente ogni età e angolo del pianeta).

Credo però che una quota significativa dei viennesi (delle viennesi e dei viennesi) purosangue abbia tuttora fiducia negli anticorpi prodotti in grande quantità dalle istituzioni democratiche di questo piccolo fazzoletto d'Europa. Un tempo in fondo non così lontano, del resto, Vienna, e di conseguenza anche le province della montagna più impervia vicine ai confini italiani, era la capitale dell'ultimo impero d'Occidente. 

Per brevi momenti, a mio avviso, proprio l'attentato aveva risvegliato in alcune cittadine e cittadine dalle radici ben piantate lungo il Danubio una nostalgia per quei quei tempi andati, che mai più ritorneranno, certo, ma che hanno contribuito a mantenere per secoli Vienna al centro della storia del mondo.

Le cose cambiano, lo dico spesso in questi ultimi mesi, e aggiungo anche, di solito, meno male.

Vienna non è più da un pezzo la capitale di un impero, ma non sembra essere un teatro d'azione particolarmente ambito dagli esaltati con barbe e non, muniti di cinture esplosive e kalashnikov (almeno, me lo auguro proprio con tutto il cuore: prima della tragedia dell'anno scorso l'ultimo attentato risaliva a quarant'anni prima).

Non ho idea di come vivano questa triste ricorrenza i parenti delle quattro vittime di Schwedenplatz (e dintorni), né quanti lumini e luci siano arrivati a sostituire quelli che avevo fotografato l'anno scorso, pochi giorni dopo i fatti. 

Poco prima di lasciare l'Austria per sempre, sono tornata nella piazzetta che vedete sopra e l'ho trovata desolatamente vuota, a parte la lapide grigia voluta dalle autorità. Ho conservato per un po' la foto nel telefono, ma poi l'ho cestinata: mi metteva troppa malinconia. Mi pareva il segno chiaro tracciato dalla città: vogliamo andare a capo, basta con il cordoglio, basta lacrime.

Ecco: se c'è un tratto caratteriale che attribuisco alla città che non mi manca è questa specie di freddo distacco dagli orrori del mondo. 
Di sicuro non vale per tutte le austriache e gli austriaci, ovvio, però l'altra faccia di quel senso generale di condivisione dei principi del vivere civile che molto apprezzo e per cui provo a tratti anche un po' di invidia, è il formalismo, è la burocrazia gelida, è l'ottusità secondo me un po' codarda di chi non accetta l'esistenza stessa degli imprevisti. 

Credo sia per questo che, alla fine, pur essendo rimasta molto affascinata dalla durezza algida di Vienna, dai suoi cieli senza luce, il suo vento teso, alla fine non sono riuscita ad innamorarmene.

Non so come sia Parigi davvero (tolti i lustrini della Ville Lumière, voglio dire) né ho intenzione di ripetere (almeno non al momento!) l'esperienza di migrante internazionale, ma, basandomi su quello che ho visto con i miei occhi, su quello che ho letto in solitudine e su quello che ho ascoltato con le mie orecchie, a proposito dei fatti di Vienna, ho trovato che parta da un piano totalmente differente il racconto che lo scrittore Emmanuel Carrère sta dedicando alla tragedia del Bataclan, seguendone il processo appena partito. 
Ho letto la prima puntata del suo resoconto su Robinson, l'inserto culturale della Repubblica, e ne sono rimasta fortemente impressionata. 

Le proporzioni dei due attentati, certo, sono molto diverse (a Parigi sono morte 130 persone, tra cui l'italiana Valeria Solesin, e 400 persone sono rimaste ferite: molte di loro ancora oggi portano visibili i segni della strage come stimmate sui loro corpi). 

Il vuoto lasciato da chi non c'è più, tuttavia, resta identico, che si tratti di una persona sola o di cento. 

Spero, in definitiva, che ci siano stati oggi momenti di autentico cordoglio nella mia ex bellissima e austera città, e che si sia magari anche riso facendo riaffiorare qualche momento gioioso vissuto insieme con le quattro persone volate altrove. 

A chi c'era oggi alla commemorazione, a chi ha ricordato a modo suo anche rimanendosene a casa, a chi si è concesso addirittura un pianto vicino o lontano che fosse, e infine a Vienna tutta, quella bella e quella brutta, il mio abbraccio più sentito

domenica 15 novembre 2015

Dedicato a Parigi e alla civiltà



Ci risiamo: bastardi terroristi uccidono nel cuore dell'Europa e sui social si scatenano dibbbbattiti sul fatto che siano o meno da condannare tutti i musulmani del mondo e se quella in corso è una guerra di civiltà.
Sulla seconda parte, lo dico apertamente, io la penso così: quella che si combatte - una guerra, senza se e senza ma - ha a che fare con la cultura e la convivenza democratica e civile tra gli umani, ma la religione, almeno per me, è un elemento di sfondo.

Aggiungo, a scanso di equivoci, che io non sono credente e che ogni volta che vedo il pur degno papa Francesco nei tiggì, penso che sarebbe l'ora di finirla con il confessionalismo da bar che ormai ha catturato tutti i media. Se proprio mi dovete fare vedere l'Angelus, allora informatemi pure su che cosa hanno predicato il Rabbino, l'Imam e il Dalai Lama. O anche no: lasciate che le prediche vengano ai fedeli nelle rispettive chiese.
Detto ciò, veniamo a Parigi e alla bandiera tricolore bianca, blu e rossa che pure io ho scelto, temporaneamente, di piazzare sulla foto del mio profilo.

Qualche mio contatto la pensa diversamente e sostiene che allora dovremmo mettere la bandiera di Beirut (Libano), ma, a questo punto chioso io, pure curda e pure armena, tanto per citare alcune delle tanti stragi passate e presenti che la storia ci dispensa copiosamente.

So benissimo che si tratta di emozioni del momento e che, ahimè, di tragedie di come quella di venerdì sera ce ne potrebbero essere ancora molte.
Però, amici, Parigi è Parigi e per la maggior parte dei cittadini europei sopra i quarant'anni almeno, ma pure di vari giovani italiani che a Parigi continuano ad andare a vivere, è un luogo unico, forse uno dei pochi nel mondo nel quale, forse con un po' di ingenuità provinciale, molti di noi pensano che ci siano ancora spiragli di crescita culturale e professionale.

Aggiungo un'altra nota, piuttosto triste.
La sera di venerdì, con mia sorella, dopo anni che non passavamo insieme un po' di tempo sole lei ed io (e nostro padre), avevamo appena finito di vedere Crozza. Dovete sapere che io fino allo scorso anno non mi ero mai filata "Nel paese delle meraviglie": da quando ho scoperto che piace ai miei nipoti, cuore di zia, ho cominciato a seguirlo. Lo aspetto, anzi, con piacere, sperando di alleggerirmi un po' l'animo (ma come mi sono ridotta).

Avevamo appena spento la tv, ma Linda (mia sorella) mi ha chiesto di riaccendere: "Dai, vediamo se c'è qualcos'altro". Crozza aveva invitato a guardare Mentana, quello vero, e, in effetti, Mentana era lì, abbastanza crozziano, ma, ahimè, con cose da comunicare nient'affatto divertenti.

Siamo rimaste attonite, letteralmente, davanti alle immagini dello stadio pieno di gente immobile. 
Da lì, almeno io, ho cominciato a compulsare freneticamente Twitter, mentre cambiavo canale alla ricerca anche di altre voci. Le prime cronache erano, ovviamente, imprecise e, direi, tutte molto caute e serie.

Perché, come ha scritto qualcuno dopo, stavolta siamo stati colpiti noi cittadini comuni.
Scusate se mi permetto di parlare di nuovo della mia povera vita: la tristezza personale è stata amplificata ancora di più dal fatto di non poter esserci anche io, in uno qualunque di quei tg o di qualche giornale, a seguire e a scrivere con gli altri. Perché l'unico contributo che può dare un giornalista, in momenti come questi, è lavorare a un prodotto collettivo che aiuti chi non fa questo di mestiere a capire che diavolo ci sta succedendo.

Perciò oggi scrivo giusto queste righe. Voglio darvi il mio modestissimo contributo da qui, da blogger quasi ex giornalista, che spera, ancora nella civiltà e nel bene pubblico.

La canzone che linko sopra era in una colonna sonora di Mark Knopfler: ho appena letto di che cosa parla il testo. Parla di ragazzi e ragazze alle soglie della maturità. L'ho scelta perché è affiorata spontaneamente alla mia memoria insieme con una delle sigle di Maigret (Le mal de Paris) interpretato da Gino Cervi, che immagino sarebbe stato assai affranto se fosse vissuto oggi.

La dedico alle vittime del Bataclan, in massima parte ragazze e ragazzi che volevano solo passare una serata insieme a sentire musica che io presumo orribile.
La dedico pure alle ragazze e ai ragazzi che scelgano, alla fine, di non farsi esplodere, pur sentendosi fragili e disperati.

La dedico, infine, alle vittime più adulte di ogni colore e ogni nazionalità, scusandomi se non metto le bandiere delle loro terre ogni volta che qualche bastardo (e purtroppo bastarda) tecnologizzato, ma per me con l'anello al naso, infila una cintura esplosiva o usa un kalashnikov ammazzandoci tutti ogni giorno di più.

Finisco con la cronaca da Parigi da Facebook di un mio conoscente, un fotografo di Fermo che si chiama Marco Illuminati, che sembra quasi che si sia sentito in colpa per essere riuscito a mettersi in salvo.
Non credo che il suo racconto abbia bisogno di ulteriori parole: giudicatelo voi che sapete tutto su islamici e non islamici. Però, per cortesia, non fatemelo sapere.

Non riesco e non voglio uscire dal letto. Ci sono entrato alle 3h17, intero, cosciente, e scosso. Cerco di rompere questo surreale isolamento domestico nel quale siamo chiusi.
Stavo mangiando una pizza ad Acqua e Farina a pochi metri da La Belle Equipe. Eravamo dentro, ho sentito dei botti molto forti, tutti li hanno sentiti. Qualcuno si è affacciato, continuavano i botti. Vedevo qualcuno sulla strada, ci domandavamo se fossero petardi, tutti se lo domandavano. Tra la paura e lo stupore, nessuno osava fare altro che porsi delle domande. Dopo diverse raffiche e colpi singoli, un odore di polvere da sparo. Abbiamo pensato fosse la conferma che si trattasse di fuochi artificiali, non sapevo che le armi da fuoco potessero avere questo fortissimo odore. Poi di seguito, un auto nera si ferma di fronte alla brasserie colpita con le quattro frecce e riparte, gli asiatici dell’emporio di fronte capiscono per primi cosa è accaduto (forse la guerra l’hanno vista) e chiudono per primi la serranda, esco, mi avvicino, con la certezza crescente che non si trattava di una festa a sorpresa. Vedo altri ragazzi nascosti dietro una campana del vetro, due tornano, gridando « sono tutti morti ». Da questo momento, la vista si fa opaca. Mi ricordo solo dei dettagli, mi ricordo una sedia spaccata dai colpi, il legno era spaccato, non forato, credo le armi pesanti facciano questo. Poi il sangue, e poi la terrazza, a fianco del giapponese. La terrazza come un contenitore di corpi, ammucchiati, tra i tavoli e i vetri. La carne macellata era ancora fumante, c’era quel silenzio di morte che si immagina tra il trauma e la reazione, come quel tempo sospeso tra la caduta di un bambino e il suo pianto. Poi una ragazza con i pantaloni neri e la scarpa con il tacco, con la gamba forata sul tavolo, forse con qualcuno che la stringeva, comincia a gridare, e si rompe il silenzio, o forse comincio a sentire. Mi ricordo un uomo a petto nudo che urlava, mi ricordo un ragazzo che filmava e un altro che lo attaccava gridando. Mi ricordo un lavoratore del locale, forse un cuoco sulla porta, immobile, sotto shock. Mi ricordo un ragazzo con la testa sull’unico tavolo in piedi, con un occhio di fuori e lo spot luminoso ancora puntato sul tavolo come in un teatrino dell’orrido. Mi ricordo le luci spente, i vetri rotti, mucchi di ragazzi ben vestiti. Cercavo di ripetermi che erano persone vere. Poi improvvisamente non mi sono più sentito al sicuro, sono scappato, senza aiutare nessuno e senza pensare. Ho corso, sono rientrato all’ Acqua e Farina e ho avuto una fitta allo stomaco. Siamo scappati nella casa di un’amica, fino a quando non siamo riusciti a rientrare. 
A questo aggiungo solo poche considerazioni a caldo. La scena di quella carneficina era uguale a quella che ci capita spesso di vedere nei media quasi quotidianamente dopo un attentato: stessa architettura dei corpi, stesso odore, stesso ambiente di morte. Però questa volta sono vestiti come me. Questo cambia tutto. Il nostro immaginario non si riconosce in queste scene, e il décalage è forte. Non hanno tuniche, non hanno barbe, non gridano in arabo. Sono vestiti come te, hanno la tua età, ti somigliano. Era quello che volevano i terroristi, colpire l’intimità di ognuno, creare immedesimazione. 
Non ho aiutato nessuno, e mi domando perché. Come si fa ad aiutare un cumulo di persone? Puoi aiutarne uno, una persona ferita, mi è capitato più volte. Ma come si fa quando sono tanti? Non sapevo dove mettere le mani, e me ne sono andato, come quando spegni la televisione. 
Penso a chi vive quotidianamente questa situazione, penso alle innumerevoli persone che sono in Francia immigrate che hanno già vissuto queste situazioni. E penso a noi, figli della « belle époque » del « non ci riguarda » o ci riguarda ma in fondo…. 
Per la nostra generazione europea è la prima volta che la guerra entra nelle nostre case, nei nostri occhi, sulle nostre strade in maniera così eclatante e pesante. Non si tratta di una bomba, né della distruzione di un obiettivo sensibile. A fare questa strage sono ragazzi della tua età armati che si mettono di fronte a te per ucciderti, faccia a faccia a pochi metri, per ucciderti, per distruggere la tua illusione di benessere, per strapparti la convinzione che in fondo capita sempre ad altri. 
Lo straniamento è un processo di autodifesa, cerco di restare presente a me stesso.