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lunedì 30 novembre 2015

Nuova vita, nuovo lavoro: give me a chance, please



Se non fosse venuta mia cugina, dubito che sarei riuscita a tornare in quel posto con la leggerezza che, tutto sommato, ho provato.
Cioè, intendiamoci: sono piombata in una delle stanze che ben conoscevo un tempo con un fortissimo scetticismo, alimentato, peraltro, anche da quel che ho sentito lì dentro.
Mi pare di capire, detto in soldoni, che la politica europea e italiana delle quote accettabili sul suolo patrio di migranti non funzioni proprio benissimo e anche se comprendo con tutta l'umanità di cui sono capace che quelli che ci lavorano a stretto contatto abbiano l'urgenza di far sapere quanto male stiano le cose, dubito assai che qualcuno dei presenti all'incontro (me compresa, ovvio) potrebbe fare qualcosa per "squarciare il velo dell'indifferenza", usando una delle noiosissime frasi fatte, circolanti in ambienti sociable.

Insomma: come ho già scritto un po' di tempo fa, non credo (non più, comunque) nel giornalismo sociale. Mi spiego meglio: credo che il giornalismo, se fatto bene, abbia una natura sociale, socializzante e solidale di per sé, senza bisogno di ulteriori aggettivi.
Come farlo bene? Lo dico apertamente: dietro sonante denaro. Per scrivere pezzi seri, fare reportage dal basso o dall'alto, come volete voi, bisogna avere (ma guarda un po') compensi adeguati ed editori veri. Diversamente, si scriveranno, filmeranno, condivideranno chiacchiere o punti di vista limitati al mondo al quale si appartiene e dal quale non si ha il coraggio (comprensibile, abbiamo tutti famiglia) di uscire.
Ma andiamo avanti.

Per fortuna, qualche perla rara si trova pure in mezzo alla monnezza.
Alcuni incontri e alcune informazioni raccolte resteranno nella mia memoria e anche il fatto di aver usato l'auto, di essermi vestita e armata di una corazza immaginaria contro uno dei vari mondi che mi ha rifiutato (o che io non ho accettato), male non mi ha fatto.

Ammetto, comunque, che essere stata platealmente ignorata da gente che ho conosciuto e rivisto negli anni e da uno che appena un mese e mezzo fa mi diceva di seguire con attenzione il mio avvicinamento alla Rai, mi ha lasciato lì per lì esterrefatta. Sono tuttavia ben fiera di non aver ceduto nemmeno per un secondo alla tentazione mortificante di ri-presentarmi.
E, tutto sommato, quel che ho sentito dalla voce e il bel viso di Stefano Dionisi, mentre parlava del suo libro La barca dei folli , sulla malattia mentale mi è stato utile.

L'attore lascia trasparire la sua fragilità: sinceramente non mi è sembrata costruita. Temo tuttavia che il circo delle presentazioni che si scatena quasi in automatico per i vip dell'editoria potrebbe danneggiarne l'autenticità. E trasformarlo in una macchietta.
In bocca al lupo di cuore: il dolore va rispettato. Sempre.

Avrei voluto scrivere anche cose più crudeli e sarcastiche, ma preferisco andare oltre.
Sto cercando di cambiare lavoro, come qualcuno sa già e come vado ripetendo quasi per convincermene del tutto. Specifico meglio (è una nota che sto aggiungendo solo ora): cambiare lavoro significa per me trovarne uno che niente abbia a che fare con il giornalismo (così il mio amico di liceo, che non aveva capito, e come dargli torto, le mie parole, è più contento).

Una cosa del genere mi è successa molti anni fa, quando ho deciso di andare via da Milano. Anche in quel caso, prima l'ho deciso e poi ho cominciato a dirlo, con una certa ingenuità, nei corridoi del giornale che molto generosamente mi aveva elargito un contratto serio (il solo della mia vita, in pratica), scavandomi da sola la fossa.
In questo caso è diverso, perché sono davvero finita giù in fondo a un burrone ed è come se stessi gridando, da molti metri sotto terra, "ehilà, sono quaggiù, mi sentite?".
Quindi, non ho, in fondo, molto altro da perdere.

Semmai, ho da guadagnare. Una nuova vita.
Blogger sfigata (e culturista) chiama Terra. Please, give me a chance.
Sinceramente, me la merito.