Visualizzazione post con etichetta fotografia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta fotografia. Mostra tutti i post

giovedì 22 febbraio 2018

Ho ancora bisogno di te


Dovrei alzarmi da questa sedia e andare a fare qualcosa di pratico, ma sono giorni e giorni che ho davanti questa fotografia, ri-fotografata l'ultima domenica dello scorso gennaio, al termine di un pranzo di famiglia che ho voluto strappare alla routine degli spostamenti da e verso Chieti in solitaria, quelli fatti, voglio dire, da mia sorella e da me per dare il giorno di riposo alla tizia che dorme da nostro padre.

Eravamo davanti al Campidoglio, in abiti eleganti come si conviene alla mamma e alla sorella della sposa. Ricordo molte cose di quella giornata e anche di quella seguente, compresi alcuni piccoli incidenti frutto dell'emozione collettiva (e del maltempo: quanta pioggia!).

La osservo spesso quando vado giù, come faccio, d'altra parte, anche con le altre fotografie appese alle pareti da lei, nostra, mia madre.

Le piaceva radunarle in piccoli collage corredati di didascalie scritte a penna che man mano vanno sbiadendosi. 
Negli anni era diventata più palesemente sentimentale, anche se manteneva comunque un certo contegno, tipico di chi non gradisce troppo le smancerie.

Eppure amava riceverne o almeno io ricordo diverse occasioni in cui si è mostrata offesa per la mancanza di tatto, vera o presunta, degli altri. 
Permalosa? Forse sì, lo era, ma vere ferite non credo ne abbia ricevute. 
Qualche delusione gliel'abbiamo data (io di sicuro), ma il legame tra noi non si è mai spezzato e credo l'abbia sentito (almeno lo spero) fino alla fine.

Comunque, tornando alla fotografia, mi piace molto l'espressione che abbiamo entrambe.
Il suo sorriso è aperto e accogliente (credo dipenda dall'autore dello scatto, mio marito, presumo, verso cui mia madre ha mostrato, diciamo quasi da subito, grande simpatia).
Io, invece, non mostro i denti, come faccio nelle foto non forzate.

Mi limito a sorridere, appoggiandomi leggermente a lei, la mia forza, il mio bastone. Anche in senso negativo.
Non c'è stata mai nessuna persona capace di farmi sentire piccola e insignificante più di mia madre.
Che, al contrario di quanto possiate pensare in questo momento, mi riempiva spesso di complimenti, soprattutto per il mio aspetto e per la mia natura "fragile e forte", come mi scrisse in una lettera.

In quel periodo litigavamo per le mie scelte professionali, ma lì, in quello scatto, mi accorgo che non ve ne fosse minima traccia. Il bene che ci volevamo andava oltre la ragione, i progetti e gli errori che pure sono seguiti.

In quella foto sono solo la figlia, la sua Sandrina così confusa e dolce, la sorellina orgogliosa che gioca a fare la donna, ma che in realtà ha ancora bisogno di affetto e di supporto.

Ne ho bisogno ancora oggi, ma quello sguardo lì non c'è più né potrà più esserci. 

Sono stata fortunata, però.
Non tutti sono amati dai genitori, dalle madri, poi.

Avrei voluto avere più tempo per farmi vedere come sono oggi, con le pezze al culo più del solito,  un po' smagrita, ma con la testa assai più sgombra dalle inutilità.

Chissà che faccia avremmo avuto se avessero potuto fotografarci insieme a una festa, o magari durante un viaggio, uno dei molti che lei avrebbe voluto fare e che molto vorrei fare anch'io prima che sia troppo tardi.

Eppure io sento che c'è e che mi segue. Ogni tanto mi viene a trovare in sogno e in genere è energica come lo è stata da viva. 

Che mi stia dicendo ancora di non mollare?
Ma io non mollo, cara mamma, stai tranquilla. Non è facile, no, anzi: è durissima, ma sento di essere a un passo dal decollo, e stavolta non è un'illusione delle mie, perché di illusioni non ne ho più.

Aiutami a restare concreta e insieme a non avere paura. 
Fammi sentire che posso ancora appoggiare la mia spalla alla tua e sorridere lievemente, come in quella foto.

E non andartene, non ancora, almeno.

C'è molto bisogno di te, quaggiù.
Io, figlia a metà, ho ancora molto bisogno di te.


lunedì 30 marzo 2015

I sorrisi sghembi di chi brama la rinascita: buona Pasqua a tutti


Nella fotografia che vedete sopra non mi piaccio affatto. Ma il motivo per cui l'ho pubblicata non è affatto narcisistico. Almeno, non in modo conscio.
Più o meno nello stesso punto, la bellezza di boh... trentacinque anni fa, fummo fotografati la sottoscritta con questa faccia da patata e il resto della mia famiglia di origine.
Ne ho parlato diffusamente nel periodo natalizio. Qui vi basti giusto sapere che lo scatto di questa volta è di ieri mattina: il luogo è Verona.

Sono stata nella bella, a tratti respingente, città veneta il fine settimana appena passato.
Ho rivisto l'autore del commovente ritratto degli anni che furono e l'ho ricambiato con la stessa moneta, fotografando lui e la sua nuova famiglia esattamente nel medesimo punto in cui eravamo stati immortalati noi quattro. Loro, ovviamente, non potevo pubblicarli. Perciò eccovi la foto che mi ha fatto il Bipede, giusto una mezz'oretta prima di quella di cui vi ho appena parlato.

Sono stata felice di rivedere un luogo nel quale, in verità, ero tornata nove anni fa, in occasione dell'indimenticabile concerto di Mark Knopfler ed Emmylou Harris all'arena. Anche quella, tra l'altro, era stata occasione di incontri molteplici: mi avevano raggiunta le mie ex compagne di casa di Milano, una delle quali è originaria proprio della città di Romeo e Giulietta.

Stavolta, invece, oltre a Rosina, Pino, Tonino, Silvia, Sofia e Gabriele, ho rivisto anche i nostri carissimi amici valdostani Lalla e Maurizio, e approfondito appena un po' di più la conoscenza con i loro amici Antonella e Mirco. Questi ultimi verranno giù nelle Marche la prossima estate, per cui la gita in cima alla torre dei Lamberti (bellissima Verona dall'alto!), la passeggiata e la cena sono stati giusto un anticipo dei giorni marini che spero passeremo insieme.

Mi piace far incontrare gli amici, anche se so bene quanto sia rischioso o semplicemente complicato. Temo in particolare di aver messo in imbarazzo due di loro (non dico chi), ma spero che possano perdonarmi: ci tenevo proprio a rivederli, anche solo per pochi minuti.

Mia madre ne sarebbe stata contenta. Da lei ho ereditato la socialità e anche una certa confusionarietà ansiosa. Mio padre, al telefono, pareva a sua volta contento per me.
Devo avergli fatto venire in mente le nostre vacanze, "quando erano piccole le bambine e giovani noi", ha scritto mia mamma in un bigliettino che accompagnava il vhs ricavato dalle bobine della vecchia cinepresa Super 8, da mio padre ripescata in fondo a uno degli armadi che abbiamo svuotato.

Stanotte l'ho sognata: stava bene, forse non al massimo, forse più o meno come l'ho vista il penultimo Natale, quando il male pareva avesse allentato la stretta.
Non voleva, per l'appunto, farsi stringere dal mio abbraccio, come se temesse che il senso di benessere ritrovato potesse smarrirsi al contatto con me.
Indossava la sua vestaglia rosso scuro, quella che le abbiamo visto più spesso nell'ultimo, troppo rapido, periodo.

Il prossimo 4 aprile sarebbe stato il suo compleanno. Ricordo troppo bene quello dell'anno scorso, ma non sono ancora in grado di dire come mi comporterò questo sabato né a Pasqua.

Sono giorni pieni di presente: mi vergogno quasi di ammettere di aver passato momenti belli durante questo mese. Dopo tanta stasi, preceduta da troppo dolore e angoscia pura, non riesco ancora a credere di essere riuscita a provare un po' di leggerezza.

La protagonista di Bones (uno dei miei attuali miti televisivi) direbbe che è colpa dell'educazione cattolica ricevuta, ma al di là di questo, quando soffri per davvero, guardi tutto con occhi totalmente differenti.

Vorrei ridere di cuore, lo confesso. Vorrei saltare da una stanza all'altra come facevo un po' prima della foto veronese di cui vi parlavo prima. Ogni tanto, certo, mi succede eccome di zampettare come la gatta Bice. La mia tendenza all'ironia (al sarcasmo, anzi) non mi abbandona mai.

E tuttavia non basta.
E' arrivata pure la primavera, persino qui a Fermo fa meno freddo (non in casa nostra: ieri al ritorno c'erano 15 gradi). Il cambiamento è necessario.
Alcuni arrivano del tutto inaspettati; altri bisogna impegnarsi continuamente a cercarli.

Che fatica, insomma. Sarà per questo che poi si ride a mezza bocca.
Per le risate con le lacrime ci vuole qualcosa di più.
Aspetto di vederle affiorare, accanto a quelle di commozione e di nostalgia, che ogni tanto, negli ultimi miei due viaggi verso nord, sono scese senza che potessi farci nulla.

Grazie, mamma, per tutto quello che mi hai dato.
Mi pare (lo dico piano) che stia germinando sempre di più.
Continuerò a non smarrirmi. Continuerò a rinascere, come tu hai saputo fare tutta la vita.

Buona Pasqua a tutti.

martedì 20 gennaio 2015

Le radici e il clan allenato alla pazienza


Spero proprio che mio zio Gigi non se ne abbia a male (mio padre, ormai, è diventato una star di questo blog), ma oggi desideravo proprio questo ennesimo amarcord.
La fotografia che pubblico stavolta era tra le centinaia conservate da mia mamma nel suo armadio stracolmo di oggetti disparati, come quasi tutti i mobili della casa parentale.

In questo momento vi stanno rovistando dentro mio padre e la sua zia-sorella, una persona dotata di una simpatia straordinaria, che negli ultimi anni si era molto affezionata alla sua nipote-sorella acquisita. Con la sua meravigliosa r moscia, ci stritola (non solo metaforicamente) e ci dice di amarci tutti. E' così bello sentirsi dire "ti amo" da lei, ti viene naturale ridirglielo ridendo, sì, ma con sincera convinzione.

E insomma. Eravamo a Francavilla Beach, se non vado errata qui avevo 29 anni: se ho ragione, ero giusto a metà della scuola di giornalismo. E doveva essere già fine estate. Perché durante l'estate facevo gli stage, quindi è improbabile che potessi essere in vacanza che so, a metà luglio.

Mio padre, che oggi ha detto di non aver mai amato il mare, esibisce una bella abbronzatura. Idem mia sorella. Credo (ma non ne ho la certezza) che la foto sia stata scattata dalla mamma, ed è in ogni caso evidente che siamo tutti molto rilassati.

Amo (come direbbe la zia-sorella-prozia-zia) il senso di pace che più o meno ha sempre regnato nella nostra famiglia. Nel tempo ho imparato ad affrontare atmosfere diciamo così più concitate e a discutere pure piuttosto aspramente, quando necessario.
Però i dialoghi difficili, i fraintendimenti e gli accapigliamenti mi affaticano assai.

E' così piacevole, invece, essere compresi al volo, fare battute intellegibili per chi ascolta e pure servirsi naturalmente di un linguaggio non verbale consolidato.
Del resto, siamo abbastanza clanici, se posso usare questa specie di neologismo, e infatti chi prova a entrare nella nostra famiglia allargata non sempre si sente subito a suo agio. Anche perché l'ospitalità meridionale può creare ancora più imbarazzo. "Mangia, mangia, prendine ancora, hai mangiato? perché non ne prendi ancora?", etc etc. E l'ospite di turno non sempre se la sa cavare.

Il tipo nero con cappellino si chiama Rai, Ibrahim per la precisione. Ai tempi era un giunco, oggi ha messo su una bella pancia di benessere; anno dopo anno abbiamo continuato a incontrarci sulla stessa spiaggia.
Gli ho mandato una copia della foto qualche mese fa direttamente in Senegal. Non ho idea se l'abbia ricevuta, ma ci tenevo tanto che la avesse anche lui.
Rai è rimasto molto colpito dal nostro lutto: "e la mamma?", ci ha chiesto pure la scorsa estate come fa sempre ogni anno.
Non riusciva a crederci. Aveva capito che tipo era, che tipi siamo.
Da buon commerciante già da tempo aveva rinunciato a venderci le sue borse taroccate, ma quando ha potuto ci ha portato collane e vestiti. E noi l'abbiamo accolto nel clan. Ufficialmente. E' pure venuto a vedere i piccini quando erano neonati.

Adesso i nipoti lo salutano e ci scherzano, il piccolo lo chiama Rai Uno.
Ricordo benissimo la prima volta che l'abbiamo incontrato: mia mamma amava fare acquisti sotto l'ombrellone. La nostra casa di Francavilla è ancora zeppa di animali di legno: li prendeva da un altro venditore, anche lui non poteva crederci che quella cliente tanto brava non ci fosse più.

Mi è capitato di rivedere questa fotografia e svariate altre perché ne stavo cercando una della sottoscritta per un lavoro che forse dovrò fare.
Non riesco ancora, in certi momenti, a capacitarmi che la mia mamma sia da un'altra parte.
In certi istanti la sento qui con me, in altri, semplicemente, mi sembra di non avere più passato.

Quella ragazza sorridente con il costume rosa mi sembra così diversa dalla donna di quasi 44 anni di oggi (a proposito: oggi è il mio mezzo compleanno. Ne ho parlato un paio di anni fa del significato di questo giorno per la matta che sono).

Dovevo appena aver bevuto una granita. Allora era assai caldo, perché non mi sembra di aver mai amato in modo particolare le granite. Mi piacevano i gelati confezionati (mi piacciono pure ora, veramente), e se potevo, ne mangiavo uno dopo il bagno del pomeriggio, come fanno adesso i nipoti.

A loro lo prendeva sempre la nonna: era anzi il loro appuntamento del pomeriggio. Sono stati proprio i bambini a farmi conoscere il cornetto sbagliato, una vera sciccheria.

Manca troppo mia mamma, manca a tutti noi, per poterne ancora parlare come di qualcuno che non c'è più.
Oggi ho messo i suoi pantaloni e i suoi orecchini. E l'ho cercata nello specchio guardandomi fisso negli occhi.
Un giorno, non adesso, la riascolterò mentre recita una poesia di Leopardi in una registrazione che ho fatto partire dal mio pc quando eravamo su skype quasi presagendo quel che sarebbe successo di lì a poco.
Leopardi è intriso di questa terra in cui vivo ormai da più di dieci anni. Una terra affascinante e segreta, con me, ahimè, non troppo clanica, mai abbastanza familiare, comunque.

Vorrei imparare a conoscerla davvero, spero di averne ancora la possibilità.
Sono grata ai miei per avermi insegnato a non arrendermi. A mia mamma in particolare per aver creduto sempre in me.
Se resisto, se sogno ancora, è per via delle salde radici di quel clan allenato alla pazienza che vedete sopra.

Posso solo dire, di nuovo, grazie.
E correre in palestra!

martedì 30 dicembre 2014

Vivere e amare, il resto non conta: buon 2015 a tutti


L'emozione di rivedermi cosi' meravigliosamente ragazzina e' stata grande.
Mi colpisce poi moltissimo l'espressione di papa', fiera - probabilmente - e rilassata.
Sembra quasi che sia lui solo a essere completamente a suo agio davanti all'obiettivo.
Del resto, chi sta scattando e' un giovane uomo che lui ha visto crescere, se non proprio nascere.

L'autore di questa dolcissima foto-ricordo e' infatti il figlio di una persona che tanto ha voluto bene ai miei genitori.
Di Amelia mio padre ha sempre parlato con aperta ammirazione. E' stata lei - ci ha raccontato molte volte negli anni - a partire per prima lasciando laggiu' nel Sud Italia marito e figli per tentare di risollevare le sorti dell'intera famiglia.
Un tentativo coronato da successo, determinato dalla tenacia di questa signora oggi purtroppo un po' malandata ma dal carattere ancora d'acciaio.

Vorrei avere solo un'oncia della sua tempra per uscire dal pantano in cui sento di essermi ficcata. Ma questa e' un'altra storia.
Torniamo alla foto.

Ci e' arrivata alla Vigilia di Natale, intorno all'ora di pranzo. Quando hanno citofonato, io ero sul balcone a godermi il sole caldo che da sempre mi ha reso la casa dei miei tanto gradita. Con il passare degli anni, anzi, mi sembra sempre piu' accogliente, considerate le varie stamberghe nelle quali sono andata a vivere (compresa la dimora fermana, un palazzo gentilizio, si', che pero' d'inverno sembra la residenza siberiana degli zar).

Assorta com'ero nei miei pensieri da felino indolente, sono andata ad assistere all'apertura del voluminoso pacco con neutra curiosita'.
Nemmeno davanti alla lettera appiccicata sul coperchio ho sentito mutamenti interiori. Solo quando ho visto la fotografia racchiusa in una molto appropriata cornice di legno e accuratamente incellofanata ho realizzato.

Mi sono subito uscite delle lacrime e anche mio padre, poco incline ai piantarelli, era visibilmente commosso. I bambini, pero', non capivano che ci fosse tanto da piangere, com'era logico che fosse, per cui tutti  e due siamo subito ritornati in noi, anche se da quel momento in poi mio padre si e' messo alla spasmodica ricerca del numero dell'affettuoso mittente e finche'  non e' riuscito a trovarlo, non si e' dato pace.

"Mi hai fatto tornare in mente il periodo piu' bello della mia vita", gli ha detto quando e' riuscito a parlarci.
Con mia sorella ci siamo fatte un po' di conti.
Ai tempi della fotografia  i nostri genitori erano piu' giovani di come siamo noi adesso. Forse la mamma aveva intorno ai quarant'anni, ma pure di meno, probabilmente.

E' impressionante come abbia conservato l'espressione di allora praticamente fino a quasi gli ultimi giorni della sua vita. La mano si muove nell'aria: sicuramente stava parlando, di certo voleva organizzare qualcosa o puntualizzare un qualche aspetto.

Allora, ma non ne sono certa, non doveva darle ancora fastidio essere ritratta. Negli scatti della sua maturita', invece, finiva sempre per mettersi una mano davanti al viso. Pero' spesso ci giocava pure con malcelata vanita'.

Nonostante le rughe e qualche segno sul corpo, nostra madre ci ha sempre tenuto al suo aspetto, con sobrieta', certo, ma mai con rassegnazione.
Se sia Linda sia io abbiamo potuto prenderci diversi dei suoi vestiti (e io personalmente anche varie borse e pure qualche orecchino e collana) e' proprio perche' aveva stile.

Venendo poi a Linda, pure lei e' straordinaria: che classe i suoi pantaloni con la riga e la posa plastica delle sue braccia magre, identiche (giuro) a quelle che ha oggi.

Sembriamo tutti e quattro quello che effettivamente eravamo: turisti perfetti, con tutti gli accessori giusti per quegli anni. La fotocamera, la cartina, la borsa a tracolla, la sigaretta del papa' al centro, come il suo sorriso, insieme con quello della mamma e al mio appena appena accennato.

Insomma, se mai avessimo avuto bisogno di qualche altra prova, adesso ce l'abbiamo: siamo stati una bella famiglia, come tante altre, ovvio, ma dotate di quella straordinaria normalita' che prima o poi, da adulti, finisce per mancarci come l'aria.

Fino agli anni dell'universita', per dire, io personalmente non avevo idea che potessero esserci famiglie infelici e, pensando ai problemi della nostra, ho realizzato solo molto tardi quanto fossero veramente risibili.

E non sto parlando solo dell'aspetto economico che pure, certo, ha contato assai.
Due genitori che lavorano permettono ai figli una sicurezza davvero miracolosa pure di tipo interiore.

Piu' importante ancora e' stata la sicurezza psicologica e morale nella quale siamo vissute fino a pochissimo tempo fa. Fino alla malattia della mamma, voglio dire.

Solo due anni fa e poco piu', voglio dire, non sono stata del tutto consapevole (parlo solo per me, non so se mia sorella la vede esattamente allo stesso modo) di quanto io abbia ricevuto, praticamente tutta la vita.

Adesso, invece, so che sto ancora ricevendo; ho potuto verificarlo in questi giorni di vacanza, proprio quelli che dovevano essere i piu' tristi, che invece sono diventati i piu' maledettamente belli mai vissuti finora.

Al miracolo ha contribuito anche l'autore di questa fotografia che ringrazio di nuovo dal piu' profondo del mio cuore.
Al resto hanno pensato i miei zii e i miei cugini, che ci hanno letteralmente rimpinzato di cibo e di calore.

Sentirsi vivi e amati e' un privilegio.
Ma per arrivare ad averlo non bisogna avere paura di vivere e di amare noi per primi.
Cerchero' il piu' possibile di non dimenticarlo mai.

Se potete, fatelo anche voi.
Buon Anno a tutti.


martedì 16 settembre 2014

Le fotografie di mia madre e i tratti distintivi del suo carattere


Mia mamma mi ha vista così, credo due anni fa, a giugno. Deduco il periodo dell'anno dal colorito che ho normalmente, prima del breve periodo di rosolatura estiva. Il posto in cui è stata scattata la fotografia mi è molto familiare. E se è crudele passarci tutte le volte, andando e tornando dal mare, lo è stato ancora di più vederlo in immagine.

Ci abbiamo festeggiato così tante riunioni familiari, che dubito che riuscirò a rimetterci piede tanto presto. Anche mio padre sembra pensarla come me, ma d'altra parte poi il tempo passa e ammetto di essere stata contenta che abbia giocato a carte con gli amici della spiaggia, giusto due giorni fa, alla fine di questa estate così triste.

Sfogliando le fotografie scattate da mia madre, però, devo ammettere di aver più volte sorriso.
Abbiamo passato molti momenti felici, naturalmente felici, di quella normalità intima priva di aneddoti rilevanti se non per la stretta cerchia parentale, che tutti meriteremmo di avere.

Guardando i momenti del nostro passato comune resi inconsapevolmente immortali (salvo sbiadirsi negli anni o disperdersi nel cimitero dei byte), capisco ancora di più quanto io sia stata fortunata.
Mi sono rivista mentre giocavo a racchettoni con zio Gigi, mentre prendevo il sole con il quotidiano spaginato sulle ginocchia, con indosso i pigiami vecchi che continuiamo a metterci mia sorella ed io quando andiamo nella nostra casa da ragazze. E poi ho visto gli zii, i cugini, i nipotini prestarsi all'obiettivo con quel misto di ritrosia e vanità che mia mamma stuzzicava sempre quand'era in loro, in nostra, compagnia.

A volte ci fotografavamo vicendevolmente, in un gioco infantile che dava piacere a entrambe.
Ho scovato anche un suo ritratto in cui sfoggiava una parrucca verde fosforescente e sorrideva molto divertita. Ne ho una analoga di me, con un'espressione straordinariamente uguale, solo il colore della parrucca è diverso.

Da lei, credo, di aver preso un po' di spirito canzonatorio.
A fine mese mia zia farà dire una messa dal suo padre spirituale: gli ha passato un po' di parole chiave che vorrebbe che dicesse per ricordarla.
Io ne ho aggiunte due all'elenco per il resto veritiero composto dalla sorella: ironia e fierezza.

Per lo meno, io l'ho vista anche così.

Più passano i giorni e più mi convinco che non avrebbe mai potuto sopportare di diventare un vegetale. Noi avremmo voluto che restasse di più con noi, ma poi, come si dice dei figli, bisogna accettare che le persone che si amano di più prendano altre strade.

Non riesco ancora a provare granché conforto nel saperla sepolta accanto ai suoi genitori, ma al contempo, non posso fare a meno di percorrere il viale di cipressi soffermandomi ad ascoltare il gracchiare dei corvi e di qualche altro uccello a me sconosciuto.

Sei con me, sei con noi, in ogni momento.
Guidaci, se puoi, ancora un po'.
Ciao, mamma. Adesso sono io che vado a guidare: il cambiamento è cominciato dalla macchina nuova. Speriamo che ne arrivino anche altri.

So che tu ci credi. Cercherò di crederci anch'io.

sabato 12 luglio 2014

Peperoni rossi dell'amore. Che non finisce


Vi giuro, non avrei mai pubblicato questa immagine solo un giorno fa.
L'ho scelta per il mio desktop perché la trovo così intima e bellissima.
Mia mamma è stata una bella donna, fuori e dentro.
Non lo dico per il legame che c'era tra noi, è un fatto oggettivo.

Ho scattato questa fotografia due anni fa. Ho appena controllato la data di acquisizione sul pc: era il 22 settembre 2012. Non sono ancora due anni. E lei, probabilmente, era già malata, ma non lo sapeva.

Lo avrebbe, lo avremmo, scoperto più o meno un mese dopo, subendo uno shock che può immaginare solo chi ha vissuto un'esperienza analoga.
Di questa brutta malattia si ammalano davvero in troppi e a tutte le età.
Lo diceva sempre lei, che ha affrontato la cura con una forza in fondo prevedibile, visto il suo carattere. La sala d'attesa lassù al quattordicesimo livello era sempre zeppa di gente, soprattutto il lunedì mattina. Io ci sono stata poche volte, esentata, per così dire, dal ruolo di accompagnatrice a favore di mia sorella Linda, più capace di cavarsela con le pastoie burocratiche e di altro genere dell'ospedale.

Arrivavo dopo, a casa, durante i giorni degli effetti collaterali. Sopportati bene, tutto sommato. Fino all'ultimo Natale, anzi, ci eravamo, forse, tutti illusi che sarebbe restata ancora a lungo con noi.
Ancora a maggio pensavamo che davvero sarebbero arrivati "i giorni migliori" che ci aveva prospettato il chirurgo milanese che abbiamo incontrato a Terni. Sono sicura che ne era convinto anche lui (diversamente sarebbe stato uno sconsiderato, come minimo), ma purtroppo non ha avuto ragione.

Non voglio ricostruire minuto per minuto i giorni ancora troppo recenti del distacco, ma ho comunque bisogno di fissare qualche pensiero. Perdonatemi se doveste trovarli troppo tristi.
In questi giorni teatini ho rivisto tre mie ex compagne di liceo, una al giorno, e sono stati tutti incontri molto belli. Molto veri.

Da ognuna di loro ho imparato qualcosa, durante i lontani anni della crescita, ma sono stata davvero contenta di scoprire di poter apprendere dell'altro ancora oggi. Siamo uguali ad allora e insieme diverse. Il carattere non si cambia, ne sono sempre stata convinta, ma la vita ce lo modella. Può peggiorare, certo, ma può anche manifestarsi in tutte le sue potenzialità, rivelando le magnifiche donne che sono diventate.

Mi spiace di non poter condividere con Susi, Simona e Valentina anche l'esperienza della maternità: so che buona parte del loro tempo è occupato dal pensiero dei figli che crescono. Però sono, per fortuna, una zia, quindi conosco, almeno superficialmente, che cosa si prova nel dover uscire da sé per diventare strumento di qualcuno che dipende da te.

Da figlia, inoltre, so quanto sia fondamentale sentirsi amati. Le ammiro, ecco, perché le vedo in grado di svolgere il loro ruolo, rimanendo comunque così simili a come erano quando sedevamo dietro ai banchi della nostra aula lunga e stretta.

Susi mi ha mandato delle foto di quegli anni. Le ricordavo tutte, tranne una di gruppo, a casa di un nostro compagno. Solo qualche tempo fa rivederle mi avrebbe messo angoscia. E invece adesso le ho trovate così lievi.

Ho dimenticato molto di quegli anni, ma so al contempo che la donna di oggi viene da lì, principalmente. Certo, poi, c'è stata l'università fuori casa e tutti gli altri anni di peregrinare in giro per l'Italia, ma quanto sia simile alla ragazza che sono stata me lo ha restituito, in questi giorni, il dialogo con le compagne di liceo.

Chissà che cosa ne avrebbe detto mia madre. Penso che ne sarebbe stata contenta: dentro di sé deve aver almeno un po' patito per la mia insofferenza verso la nostra piccola città. Ma chissà se è davvero così: probabilmente l'ho delusa per non essere riuscita a staccarmene davvero del tutto. Chi può dirlo.

In ogni caso, sapete perché mi piace tanto la foto che vedete in alto? Perché quei peperoni così rossi mi parlano di amore. Dell'amore che passava anche dai piatti che ci preparava, dagli occhi fiammeggianti, dalle battute fulminanti e dalle risate ai danni di papà che tante volte ci siamo fatte insieme.

Il rosso è un colore che mi piace e so che piaceva molto anche a lei.
Un filo rosso mi lega ancora alle amiche di scuola che hanno condiviso con me questi giorni di lutto (è compresa nell'elenco anche l'assente ma sempre presente Annalisa) ed è consolante accorgersene.

Stamattina sono tornata con mio padre al cimitero e lei era lì, nella fotografia che abbiamo scelto per la tomba. Devono essere venuti a metterla forse ieri: lunedì non c'era e poi ci sono stati giorni di pioggia e vento.
Già da ieri, comunque, sentivo di doverci tornare: volevo togliere i fiori che immaginavo secchi o marciti.
Lì per lì non me n'ero accorta, attratta dal rosso del lumino che era stato spostato. Allora, mi sono detta, qualcuno deve essere venuto. E infatti.
Al posto del lumino c'era lei, nell'ovale quasi uguale a quello dei suoi genitori.

Da lontano si vedono solo i suoi occhi leggermente socchiusi per via del sole.
Occhi parlanti. Occhi danzanti.
Ciao, mamma. Tornerò presto a trovarti.
Grazie, amiche.

venerdì 27 giugno 2014

Foto e parole per raccontare come si può. E andare avanti


Ho pubblicato questa fotografia sulla mia pagina Facebook, riscuotendo un certo gradimento. Non faccio caso, in genere, ai "mi piace" raccolti, ma in questo caso ne sono stata contenta per il significato che ha per me l'immagine.
Il cactus che vedete è sul balcone dei miei genitori da sempre. Credo di averlo fotografato (anzi, sicuramente l'ho fatto) un sacco di volte, soprattutto nel periodo in cui ho cominciato a usare la reflex, l'ultimo anno di liceo. Non ho ancora avuto il coraggio di sfogliare le centinaia di fotografie che giacciono in alcune scatole di latta, di quelle belle rigide, dei biscotti e dei panettoni, ma sono certa che tra loro ce ne sarà almeno una che ritrae la stessa pianta quando era molto più piccola di come è adesso.

Un amico di origine chietina che ho conosciuto (per ora) solo sul social network (che, a proposito di questo, ogni tanto regala anche piacevoli incontri, nel mare scivoloso delle chiacchiere poco importanti nelle quali spesso indulgo anche io), mi ha giustamente detto che la fioritura ritrovata per puro caso nei giorni appena trascorsi nel luogo in cui sono cresciuta è un segnale positivo.
Non so se sia vero, ma comunque mi ha rincuorato leggerlo. Quindi lo è davvero, un segnale positivo. Non mi ricordo chi lo diceva, ma è proprio vero che una cosa esiste quando le si dà un nome. Le parole non rispecchiano mai completamente i nostri stati d'animo, attraversati da contrastanti e insondabili accavallamenti del cuore, ma a qualcosa pure servono.

Le parole fissano ciò che non si può mai fermare, come i minuti irripetibili che stanno scorrendo anche adesso che scrivo.
Chi fotografa per hobby come me, poi, sa anche quanto la fotografia faccia lo stesso in un tempo ancora più rapido. Anche la fotografia come le parole, però, non racconta mai del tutto ciò che siamo, ciò che pensiamo. Però ci tranquillizza pensare il contrario.

Mi attacco alle parole e alle immagini più che mai in questi giorni.
La fotografia che ho scattato a mia madre non più di tre mesi fa sullo stesso balcone tuttora pieno delle sue piante oggetto spesse volte dei miei scatti mi sembra che cambi aspetto ogni volta che guardo lo schermo del mio cellulare.
Sorride, mia mamma, ma a volte sembra malinconica, altre ironica, come è stata davvero.

Non abbiamo scelto quella foto per la tomba, perché ci sembrava inadatta: più passano i giorni e più non vedo quell'ombra di sofferenza che vi abbiamo colto all'inizio.
Sono in ogni caso contenta, orgogliosa direi, che ne abbiamo scelto un'altra sempre mia, scattata in giorni d'estate, così crudelmente lievi.
Lo stesso è successo per l'altra foto che regaleremo a chi le ha voluto bene. Lo scatto, stavolta, è invernale, ma l'occasione era altrettanto felice.

Sì, abbiamo fatto bene a tenere per noi quell'ultimo scatto, che poi ultimo non è. L'ho fotografata anche in ospedale, mentre dormiva. Non ho il coraggio di cancellarla, ma non posso nemmeno guardarla. Non avrei potuto fare il fotoreporter di guerra, di questo sono sicura.

Anche a lei piaceva molto fotografare. Nel dvd che le abbiamo regalato per i suoi settant'anni c'è un intero "capitolo" in cui l'ho ritratta nell'atto di scattare. Sul suo computer ci sono le foto che ha fatto lei, molte vivaci e dinamiche, come il suo temperamento.
Un giorno potrei raccoglierle e ricavarci un altro video. Sì, credo proprio che lo farò.

Di sicuro le sarebbe piaciuto guardarlo. E' stata sempre molto felice di partecipare alle attività di tutti noi, di incoraggiarci quando era il caso. Nei tempi andati della mia adolescenza e prima giovinezza, per dire, mi ha pure aiutato un sacco di volte a sgombrare la testa dalla confusione che, tuttavia, ahimè, non mi hai mai abbandonato. Ma questa è un'altra storia.
Non dimenticherò mai quella volta tra le tante, per dire, in cui mi ha sbattuto in faccia la verità che non volevo sentire, e cioè che il ragazzo che tanto mi piaceva non mi avrebbe mai considerato.

Come aveva ragione, ma come mi fece male sentirmelo dire allora.
E' stata, voglio dire, anche duramente chiara e nel tempo mi sono accorta di aver imparato a fare lo stesso. Almeno con le persone che amo di più. E lei di sicuro mi ha amato molto.

Grazie, mamma. Tutto quell'amore è ancora qui.
Passo dopo passo sto riprendendo in mano la mia vita. Spero di sentirti sempre vicina. Spero di non dimenticarmi mai di te.
Queste parole non raccontano del tutto la verità di ciò che provo, ma, appunto, fissano il presente. Un presente di lucido vuoto che non so dipingere meglio di così.
Mi manca la tecnica. L'acquisirò come posso. Un giorno dopo l'altro, come nella canzone di Luigi Tenco usata in una delle serie di Maigret di Gino Cervi. Sono un po' pesante, sì. E pazienza.
Vero, mamma?

sabato 15 febbraio 2014

Chi espone e chi dispone, ovvero Il segreto del tempo


Troppe cose da fare, alcune belle, alcune meno.
La foto che vedete sopra è stata scattata a Ostra Vetere, poco prima che ci buttassimo ad allestire per la seconda volta la mostra già portata a Intanto, lo spazio collettivo degli artisti che si è tenuto durante il periodo natalizio a Fermo per la quarta edizione.
Non sto parlando con il plurale maiestatis, bensì della mia amica Maria Loreta Pagnani, che a Ostra Vetere abita.
 
Non ho tempo di scendere nei dettagli, ma vi dico solo che alla fine dei tre giorni (due e mezzo, va) di Festa della Merla, scenario della nostra esposizione, quel manifesto che qui vedete arrotolato non c'era più.
 
Per la mia intelligente e sensibile compagna di viaggio (metaforico, ma in qualche modo anche reale: Maria Loreta è sempre in movimento, come me), il furto è stato un segno del destino, positivo. Per qualcuno che era con lei (al momento della sottrazione indebita io non c'ero già più), invece, semplicemente il manifesto rubato è servito a coprire qualche testa sguarnita d'ombrello.
 
Anche se fosse così, fa niente: il segreto del tempo si esplica anche così.
C'è chi espone e chi dispone. Anche degli oggetti altrui.
Detto ciò, vi lascio.
 
Mia mamma mi parla mentre scrivo e io non so sicura di che cosa sto digitando.
Fa parte anche questo, però, del segreto del tempo.
Se volete sapere di che cosa sto parlando, andate su Minime Storie.
E capirete.
Forse.

mercoledì 31 ottobre 2012

In biblioteca a scrivere e fotografare, la giusta pausa tutta per me

Biblioteca Mozzi Borgetti, Macerata


Comunque vada a finire, ne è valsa davvero la pena.
Parlo della mia esperienza di ieri pomeriggio, le quattro ore più piacevoli della mia vita recente, non esaltanti, giovanilisticamente parlando, però assai rasserenanti.
Sto parlando della mia partecipazione a Storie da biblioteca, un concorso o gioco (a seconda di come lo si voglia vedere) per scrittori/fotografi incentrato sulla valorizzazione dello splendido patrimonio librario delle Marche. Volendo, si poteva partecipare a tutte le dodici tappe del viaggio letterario e fotografico condotto in altrettante biblioteche regionali, anche perché il tutto si è svolto gratuitamente, senza limiti d'età né presentazione di curriculum. Prima di iscrivermi, mi sono giusto informata se fosse il caso che una tardona come me non fosse proprio fuori luogo. Rassicurata dalla gentilissima organizzatrice, mi sono detta: ma sì, perché no? Ed è andata. Anzi: è andata benissimo.
In fondo, non ho dovuto fare altro che rinverdire una mia antica frequentazione: dal liceo alla laurea, ho sempre bazzicato le sale lettura e ancora oggi, quando vedo uno scaffale ricolmo di libri, provo una grandissima fascinazione.
L'esperienza di ieri me ne ha peraltro richiamato alla memoria un'altra, risalente ai tempi della scuola di giornalismo. Qualcuno, non so più se Tabloid, il mensile dell'Ordine della Lombardia, o una testata interna all'Ifg, mi aveva spedito alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, nel cuore del centro storico della metropoli lumbard, per ricavarne un articolo. Ricordo l'esaltazione (in quel caso sì, l'ho provata) nell'aggirarmi tra teche, incunaboli, tavoli massicci e suoni ovattati. Se non vado errata, anche in quel caso ho scattato qualche foto, con una delle prime digitali all'epoca in commercio, dotata, pensate un po', di porta per il floppy disc.
Ai tempi della Voce, poi, mi è toccato di calarmi nel ruolo di un immaginario utente colto di spalle intento a sfogliare un volume qualunque (un'altra volta ho fatto la donna vittima di violenze domestiche e un'altra la cercatrice di lavoro interinale... che si doveva fare per campare). E ogni tanto, soprattutto da quando ho ripreso a fare foto, prendo in prestito qualche volumone di fotografia nella bella biblioteca Romolo Spezioli di Fermo.
Però un concorso, no, non l'avevo fatto mai e se anche non dovessero mai prendere in considerazione il raccontino che ho buttato giù con un certo divertimento infantile e se pure le foto scelte (dovevamo selezionarne solo cinque: quella che vedete in alto è stata sacrificata, non senza fatica) non convincessero la giuria, beh, chi se ne importa. Speriamo piuttosto di avere altre occasioni per nuovi giochi di ruolo, innocenti e stimolanti per anima e, sì, gambe.
Perché accidenti se pesa portarsi appresso pc, fotocamera e cavalletto!
Sarà il caso, piuttosto, che mi attrezzi con uno zaino adeguato: ieri sono arrivata con un borsone da pendolare decisamente poco professionale. E d'altra parte, era giusto presentarsi così, un po' sprovvisti e dimentichi di se stessi. Sì, era proprio giusto così.

mercoledì 13 giugno 2012

Una di Chieti. Per tutta la vita

Fotografie di Demetrio Mancini per il suo libro Liberi da contratto
premiato dal progetto ITAca di Giovanni Marrozzini

Ho appena dato un'occhiata al libro autoprodotto di Demetrio Mancini, il mio amico grafico che condivide con me la passione per la fotografia.
Sono rimasta colpita dalla citazione iniziale, tratta da Thomas Carlyle, che colpevolmente non ho mai letto (diciamolo, non ne so un fico secco): "Felice colui che ha trovato il suo lavoro. Non chieda altra felicità".
Giustissimo. E io, tutto sommato, sono tra i fortunati che il lavoro della propria vita l'ha trovato. Perché non sono particolarmente felice, però?
Beh, chi segue questo blog conosce la risposta, però, a ben guardare, finché avrò un tetto e un po' di denaro da parte, non ho veri motivi per essere triste. E infatti ho scritto non-felice, che è diverso da dire triste. Mi sto incartando? Un po', forse. Però la differenza c'è e ve la mostro.
Qualche sera fa Sfaccendato mi ha detto una frase destinata, credo, a restare negli annali della nostra storia: "Da quando ti conosco non sei cambiata". Non si riferiva tanto al mio aspetto (benché, in cuor mio, femminilmente, spero sempre di mostrare la solita decina d'anni di meno cui ero abituata prima del quarantennale), quanto piuttosto al mio modo di fare. Ai tempi del mio contratto di sostituzione maternità al Sole 24 Ore, in effetti, mi era stato predetto che, prima o poi, sarei stata normalizzata, il che avrebbe implicato l'adozione metaforica (mica tanto) di tailleur grigi e scarpette con tacco, un po' come le hostess dell'Alitalia ai tempi d'oro. L'aneddoto è contenuto anche nel racconto intitolato E dopo, che ho da poco ripubblicato nella sezione ad hoc in alto, a destra della rubrica "Gli Sfaccendati".
Per non ripetermi, dico solo che, alla fine, la previsione non si è avverata ed eccomi qua, a distanza di svariati anni, a dirmi che, tolta la presente incertezza, doveva per forza andare così. E la conferma me l'ha data lo sguardo di mio marito ancora più delle sue parole.
Ieri, poi, a pranzo ha aggiunto una chiosa davvero tranciante: "No, non sei cambiata: sei rimasta una di Chieti". Ho sorriso divertita. In un certo senso è vero. Sono e resterò per tutta la vita una donna del centro-sud, provinciale e quieta (pur se molto polemica e pungente, in certi frangenti). Il che implica la mia totale (e probabilmente durevole) estraneità alla carriera. E stop.
Resta pur sempre il fatto che finché potrò cercherò di arrabattarmi come posso con le mie amate parole, puntando il più possibile sulla qualità e sulla valorizzazione di ciò che ritengo significativo. Per me, innanzitutto, ma anche per le persone che idealmente potrebbero riconoscervisi.
Perché, poi, riesca a passare dalla non-felicità ad almeno una quasi-felicità, beh, qualche soldo in più potrebbe farmi comodo. Ci riuscirò? Chissà. Magari comincio a partecipare ai quiz in tv, come mi consiglia sempre mia madre. In tutti i casi, spero di ricordarmi sempre da dove vengo e chi sono diventata, in maniera che possa ogni volta specchiarmi in qualcuno per cui, nonostante rughe, acciacchi e fallimenti, ho ancora stima.
E' l'unica vera speranza che ho, forse ancora più importante dell'agognata e chimerica felicità.
E voi in cosa sperate?

venerdì 2 dicembre 2011

Passato e presente


Mi pareva che fosse di un altro colore, tipo fucsia; ma probabilmente è la mia memoria a perdere colpi.
Ricordo però perfettamente il gusto che mi dava succhiare il gelato, tautologicamente gelido e ghiacciato, dal cannello.
La prima fotografia mi è stata gentilmente inviata da FairyRain, mentre la seconda, com'è intuibile, è opera mia.
Non credo che servano ulteriori parole, ma mi piaceva assai l'accostamento tra quel residuato delle mie estati adriatiche, a pochi chilometri da dove vivo adesso, e il mio presente, trascorso (con una certa frequenza) accanto a un incallito fumatore di pipa.
Per scherzo, ho detto a quest'ultimo che avrei usato la sua fotografia in un altro contesto.
Se lo faccio, ha precisato, mi denuncia. Accidenti.
So benissimo che can che abbaia non morde. E infatti eccolo qui.
Vediamo come la prende.
In fondo, dovrebbe sentirsene lusingato.
E' lui il mio presente, mica quel gelato zuccheroso e finto?
Certo, la sua pipa, ogni tanto, m'impesta.
Ma, sinceramente, non farei a cambio.
(bella come sviolinata, eh?).