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venerdì 13 novembre 2015

Kafka sulla spiaggia, metafora della nostalgia. Una furberia che ammalia



Mentre scrivo questo post, sto ascoltando il Trio dell'Arciduca di Beethoven, in un'esecuzione di Rostropovich and company che, sinceramente, non mi ricordo già più se è citata in Kafka sulla spiaggia, il libro di Murakami (Haruki, il nome di battesimo, poco nipponicamente parlando) che ho finito di leggere ieri sera.

L'ultima parte, ve lo confesso, mi ha lasciato un po' perplessa: troppo, troppo onirica e fumettistica per i miei gusti. E al contempo, anch'essa, come il grosso di questo affascinante libro, molto, molto attraente.

Perché più passano gli anni e più ne ho la certezza: la perfezione rompe le balle, le crepe nella narrazione e i passaggi inverosimili che mi hanno fatto sorridere in modo spontaneo sono tra i motivi principali per cui posso dire che sì, valeva davvero la pena trascorrere varie ore in compagnia del poco credibile quindicenne Tamura Kafka, dell'uomo-donna Oshima, di Nakata l'autistico che parla in terza persona e dello scombinato camionista Hoshino, tra tutti, il personaggio che meno ho capito.

C'è qualcosa che mi ricorda i cartoni di Miyazaki in questo libro, anche se, obiettivamente, so talmente poco di Giappone e di letteratura dell'estremo Oriente in generale che potrei pure star scrivendo una boiata.

Mi piace comunque assai l'animo pop di Murakami e pure quella che alcuni giudicano un'autentica furberia, ossia il suo continuo citare marchi di abbigliamento in particolare (e calzature: la Nike magari gli passa qualche dollaro per ogni volta che ce la infila, ma chissà), perché, come tutte le altre cose che scrive, lo fa con un'apparente naturalezza che me lo rende simpatico.

E poi la cucina: accidenti quanta attenzione dedica ai piatti della sua terra (pure ai surgelati: voi sapevate che in Giappone si trova il riso fritto surgelato? Io proprio no) e in generale alle funzioni corporali dei suoi personaggi. La cacca è citata almeno un paio di volte. Per non parlare delle eiaculazioni e del glande appena sbocciato di Tamura. Abbiamo capito che vuoi farci credere che parli di un quindicenne, ma, per quanti sforzi tu faccia, caro Haruki, non ci caschiamo. Quello sei tu, rassegnati.

Veniamo però alla storia. O meglio, alle sensazioni che mi ha lasciato leggerla.
Tutti quei dettagli di vita quotidiana e poi la primissima parte e l'ultima, in cui la facoltà di parlare con i gatti passa da Nakata lo scemo (per così dire) al suo improbabile amico camionista, mi hanno messo una malinconia che non so dire.

In certi momenti mi affioravano alla memoria le canzoncine giapponesi del Castello errante di Howl e della Città incantata, i primi due lavori di Miyazaki che ho conosciuto e che tanto hanno significato per me in altri tempi. Forse dovrei rivederli ora, forse mi direbbero cose ancora diverse. O forse rivederli mi darebbe ancora di più la misura del tempo passato.

Ho trovato davvero commovente la descrizione della signora Saeki, il personaggio femminile chiave della narrazione, la mamma con la quale, come Edipo, Tamura Kafka deve giacere.
In vari punti c'è lei quindicenne come il protagonista e lei cinquantenne, identica ma con un sorriso forzato e i tacchi e le perle a differenziarla da com'era un tempo.

Per puro caso (ma chissà), durante questi giorni di lettura, ho scorso velocemente il mio archivio fotografico. In una mezza mattina ho rivisto me e non solo me in questi ultimi dieci anni e pure di più.
Non ho avuto tempo né voglia di soffermarmi troppo a lungo su nessuna delle fotografie (ne stavo cercando una in particolare, volevo ritrovarla nel più breve tempo possibile).

Ebbene: ho avuto una prova materiale della nostalgia di cui è impastato tutto il romanzo. Se si può dare una definizione breve, da tweet, di Kafka sulla spiaggia, potrei solo dire che sia una metafora (una parola ripetuta spesso nel libro) della nostalgia.
Avrebbe potuto parlare anche d'altro, avrebbe potuto non infilarci i soldati dell'esercito imperiale e neppure il serpente vischioso e bianco che Noshino deve uccidere verso la fine: il sentimento principale non sarebbe cambiato.

Se lo si legge con la giusta predisposizione d'animo, insomma, alla fine si piange. O comunque si dovrebbe farlo se non si avesse un cuore pesante più della pietra dell'entrata che ossessiona il lettore da un certo momento in poi della storia.
Io, per dire, ho solo pensato di piangere; ma ho versato talmente tante lacrime in altri momenti (pure recenti) che stavolta, no, nemmeno un po' di sterili goccioline.

Chissà che diavolo stava succedendo nella testa di Murakami mentre scriveva Kafka sulla spiaggia.
Ho fatto un po' di conti: ci ha lavorato quando aveva più o meno cinquant'anni. Credo che questi passaggi decennali angoscino un po' tutti (alla vigilia dei quaranta io, per lo meno, sono andata in forte paranoia). Gli uomini, forse, temono di perdere vigore fisico, ma non saprei.
Sono certa, in ogni caso, che ci abbia infilato dentro un po' dei suoi sogni: si fa davvero fatica a distinguere il reale dal surreale, il che è sicuramente voluto, figuriamoci.

Giusto ieri, per caso, ho letto un pezzo sull'autore nipponico uscito sul Giornale la scorsa estate: era molto ironico (ben scritto, devo dire) e giudicava Murakami assolutamente sopravvalutato.
Non avendo letto che poche cose di lui, non posso concordare.
Però l'articolo ha avuto il grande merito di farmi scorgere le analogie tra lo scrittore e un'altra grande mia passione. Indovinate un po' di chi sto parlando? Ma ovviamente di Paolo Conte, che da poco ha pubblicato dei racconti sulla sua vita (titolo: Fammi una domanda di riserva. Ovviamente me lo procurerò quanto prima).

Invecchiando, il mio amore per il maestro astigiano non è passato, ma ammetto di aver imparato a smitizzarlo.
Sì, perché nel frattempo ho conosciuto vari dei suoi autori di riferimento, da Duke Ellington a Glenn Miller, ma pure autori meno famosi scoperti guardando un sacco di film in bianco e nero e ascoltando qui e là la musica del Bipede soprattutto.
Il buon gattone avvocato ha letteralmente saccheggiato dal jazz e dalla musica francese (e pure quella italiana alla Carosone) un sacco di elementi ritmici e di scrittura.

L'ha fatto, preciso, perché li ha interiorizzati talmente bene da essergli venuto naturale creare uno stile tutto suo, talmente suo da non essere ripetibile per nessun altro musicista che tenti di suonare/cantare alla sua maniera (chi ci prova, in genere, è patetico: ho in mente esempi precisi, ma non sto qui a scriverli).
Il "mio" Conte, insomma, è furbo e sornione, con quei baffoni indisponenti sotto gli occhi azzurro cerei, ma sono ben contenta che lo sia. Che ci sia.

Allo stesso modo, credo, Murakami deve aver fatto lo stesso con i suoi maestri: Checov, per esempio, dev'essere uno che gli piace assai, visto che ne parla espressamente, ma anche Dostoevskij e di certo la tragedia greca, sulla quale, tra l'altro scrive cose interessantissime.

Per me che non so assolutamente nulla, insomma, un po' di intelligente furberia altrui è un elemento positivo, non certo un demerito. Chi è capace di rubare con classe è un grande, per me, detto altrimenti.

Perché tanto, nessuno inventa nulla, la storia, la letteratura, l'arte sono percorse da temi che si ripetono all'infinito: tutto sta a saper trovare la propria voce per tramandarli ancora e ancora a chi verrà dopo di noi. E se questa voce si è formata copiando il timbro di qualcun altro, ma aggiungendovi anche solo un diesis che prima non c'era, beh, tanto di guadagnato per chi ascolta, legge e interiorizza.

So già che molte delle suggestioni che ancora aleggiano in me di Kafka sulla spiaggia sono destinate a sparire. Di Dance dance dance non ricordo nulla, se non qualche riferimento alla cucina (mi piacerebbe vedere Murakami preparare qualche piatto. Magari su You tube c'è pure), ma non importa.

Mi ha fatto ben più che compagnia in questa fase di vuoto e di trasformazione.
Già solo per questo motivo, se siete in analoga fase, leggetelo.
E poi continuate nella vostra vita. Come Tamura Kafka riprende la propria, dopo molto vagare, reale, forse, immaginario di sicuro.