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giovedì 13 novembre 2014

Donatella Di Pietrantonio a Fermo: un miracolo destinato a sedimentare


Io credo nei miracoli che la gente può fare, canta Cristina Donà nel penultimo album: del suo pezzo ho sentito qualche settimana fa la versione acustica con kazoo, uno strumento che ho imparato a conoscere e amare con il "mio" Maestro astigiano.
Più di qualcuno mi ha accusato di essere un po' buonista, anche se in genere me lo hanno detto in tono scherzoso.

Sapete che vi dico? A volte vorrei esserlo davvero: solo così potrei, forse, risparmiarmi questa continua alternanza di speranza e disillusione.

E in ogni caso io ai miracoli ci credo per davvero.
Esattamente come canta Cristina, quelli migliori vengono proprio dalla gente che tanto ci spaventa.
Dalla medesima, certo, possono arrivare anche discrete batoste, ma che bisogno c'è di ribadirlo ogni volta?

Quel che ho vissuto sabato scorso al Centro San Rocco di Fermo, per dire, è un esempio del tipo uno (più zuccheroso del diabete).
In un luogo nel quale normalmente mi sentirei a disagio, ho invece vissuto momenti di infinita armonia. Il merito è tutto di Guglielmina Rogante, la mia cara amica professoressa-ricercatrice che fa parte del centro culturale fermano.
E' stata lei a propormi di dialogare con Donatella Di Pietrantonio, la scrittrice abruzzese che ho conosciuto due anni chiamata (letteralmente) dal suo esordio nel romanzo, Mia madre è un fiume, trovato per caso in una libreria di Pescara.

Davanti a una platea attenta, in una sorta di trance concentrato, ho posto le mie domande a Donatella, favorita grandemente dall'introduzione di Guglielmina, che con la sua consueta (per me e per chi ha avuto occasione di ascoltarla) preparazione e sensibilità, è riuscita a cogliere diversi aspetti della produzione letteraria della scrittrice nativa di Arsita, nel Teramano, ma da anni residente a Penne, un incantevole borgo del Pescarese, predisponendo quest'ultima al confronto aperto e sentito che poi ha avuto seguito.

Tra le osservazioni di Guglielmina mi ero annotata, forse per dominare un po' la mia ansia, le seguenti parole: "lingua che non si autocompiace", "sguardo femminile", il terremoto aquilano come "metafora di tutti i crolli"; e poi ancora "evoluzione impercettibile dei sentimenti dei protagonisti" con conseguente "metamorfosi interiore di tutti i personaggi".
Il tutto era riferito non solo al primo romanzo, evidentemente, ma anche a Bella mia, il secondo dedicato all'Aquila e alle lacerazioni soprattutto interiori che tuttora albergano nei cittadini del capoluogo abruzzese a distanza di quasi sei anni dal sisma.

Di Donatella Di Pietrantonio Guglielmina riconosceva poi la sua appartenenza fortissima all'Abruzzo, nella lingua "pietrosa" e nell'attenzione quasi inconscia alla memoria collettiva della sua gente: una gente dedita alla cura della terra e alla pastorizia, rimasta in massima parte povera per millenni, oggi strappata a quei ritmi antichi da una globalizzazione forse ancora più disorientante.

Come si riemerge dal lutto, interiore e sociale, sembra chiedersi pagina dopo pagina Donatella?
Quando si comincia davvero a farlo, le ho chiesto a mia volta a un certo punto del nostro dialogo?

Donatella lo ha mostrato con precisione in entrambi i romanzi.
Ho trovato davvero illuminante quando, riferendosi al primo, lo fissa in quell' "adesso basta", che pronuncerebbe dentro di sé l'io narrante, la figlia di Esperina Viola, colei che deve accettare, volente o nolente, di non essere stata sufficientemente amata dalla madre che ormai le si presenta come un albero secco sotto la cui ombra non si può più giustificare.

E ho in cuor mio ringraziato moltissimo Donatella quando ha esposto pubblicamente il rovescio della medaglia di ogni amore, persino di quello verso i figli. Non c'è alcun "ti amo" che non nasconda anche un "ti odio", ha detto proprio la scrittrice. Ed è solo oggettivando i nostri sentimenti, pure i più crudeli, che possiamo cominciare a guarire.

Non ha, tra l'altro, neanche avuto paura di confessare i suoi lunghi anni di analisi: per lei sono stati anzi fondamentali per imparare a scrivere per davvero.

E io credo che abbia proprio ragione: la rabbia, per esempio, va riconosciuta, va per l'appunto "oggettivata" in qualche maniera, per poterla raccontare.
In parte, mi è successo così quando ho narrato su questo blog del terribile incubo ospedaliero.
Temo però di non essere ancora del tutto guarita: ogni tanto, mi sveglio nel cuore della notte, e mi ricordo di tutto.

Mi ha molto sollevato, pensandoci per un breve flash, durante l'incontro di sabato scorso, sentire dalla bocca di Donatella la definizione che Ennio Flaiano, altro grande abruzzese, benché emigrato nella capitale, dava del medico contemporaneo, da lui chiamato "il cretino specializzato".

E mi ha emozionato alquanto percepire l'imbarazzo che la scrittrice sottolineava di aver provato nel presentare la sua storia aquilana nella città ferita. Chi sono io, si è detta, per parlare di un dolore che non ho vissuto direttamente?

Ed è esattamente per questo motivo che bisognerebbe sempre pesare le proprie parole, soprattutto quando presuppongono un pubblico.
Chi scrive per mestiere ha una grande responsabilità, insomma. E anche chi lavora con il dolore altrui.

Per tutte queste ragioni, sono davvero contenta del miracolo di un incontro destinato a sedimentare.
Sono certa che mia mamma, con me nella gonna che indossavo e non solo in quella, è stata felice per me.

Alla prossima, belle donne.
:-)