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domenica 15 aprile 2012

Di Mercè Rodoreda e dei grazie che riscattano


Di questa dedica lasciata sulla balaustra del parco pubblico poco distante da casa mia mi ha colpito in particolare la chiusa: il simbolo "minore" seguito dal 3 su Facebook (ignoro se succeda anche su Twitter: proverò) si trasforma in un cuore. Da quando l'ho imparato, alla mia veneranda età, lo uso spesso perché trovo carino lanciare cuoricini a chi mi dimostra affetto e/o benevolenza.
Al di là della mia preoccupante inclinazione ad abitudini adolescenziali, mi sono fermata a scattare la foto anche per una ragione un po' meno leggera. Nella testa mi risuonavano le parole de La piazza del diamante, il bellissimo libro di Mercé Rodoreda, che ho terminato di leggere ieri pomeriggio mentre fuori imperversava la tormenta.
Era un pezzo che non m'immergevo per così tante ore nella lettura, un piacere che ho relegato sempre di più alle mezz'ore serali o ai viaggi in treno, l'unico luogo in cui non mi sento mai in colpa per essermene restata incollata alla pagina per tutta la durata del viaggio.
E invece, per apprezzare al meglio la potenza narrativa della scrittrice spagnola protagonista della guerra civile di Spagna e per tal motivo esule dalla sua patria per circa vent'anni, bisogna darsi tempo spegnendo, o sospendendo, tutto il resto.
Negli anni più tranquilli, la sua Natàlia-Colombeta diventa una donna malinconica, "una lagna", scrivono nella traduzione italiana. Quanto mi piacerebbe sapere qual è il termine catalano usato dalla scrittrice, che adotta un linguaggio fintamente semplice, per riprodurre il modo di parlare di una persona di scarsa cultura.
Nella post-fazione, il traduttore dice di aver dovuto parzialmente modificare il flusso joyciano in cui si esprimeva la Rodoreda accrescendo ancora di più la mia curiosità di sapere che effetto mi avrebbe fatto leggerla in lingua (se conoscessi il catalano, naturalmente).
Nelle sue giornate "sfaccendate", Colombeta va spesso al parco e stringe amicizia con alcune signore, convincendole di nutrire una struggente nostalgia per i colombi che abitavano nella soffitta della sua prima casa coniugale. Invece è tutt'apparenza, ma alla protagonista del romanzo non importa e lascia che lo credano pure.
E poi la svolta. La figlia minore, Rita, fierissima e bella, si sposa e la notte dopo la festa, Colombeta si sveglia presto e raggiunge la piazza del Diamante, quella in cui aveva conosciuto il suo futuro primo marito Quimet. E qui succede qualcosa di sconvolgente, per lei e anche per me.
Non scendo nei dettagli, a beneficio degli eventuali lettori (direi meglio lettrici: sono sicura che solo le donne e pochi, sparuti uomini siano in grado di apprezzare fino in fondo la Rodoreda), ma posso assicurarvi che l'immedesimazione tra i fatti che vi si raccontano e le vite di chi pensa di trascinarsi dentro macigni poco digeribili è garantita. Se non ho pianto è solo perché poco sopra avevo letto quel passaggio sul diventare "una lagna", una propensione tipica di chi crede di vivere una maturità frustrata.
A differenza di Via delle camelie, l'altro, intenso, stratificato romanzo della scrittrice di Barcellona, qui il lieto fine è più chiaro ed è forse questa la ragione del grande successo che La piazza del diamante ha riscosso in patria e in molti altri Paesi al di fuori del nostro (da quel che ho capito, dell'esistenza della Rodoreda in Italia ci siamo accorti tardi).
In ogni caso, non si tratta di una chiusa sdolcinata o buonista, bensì soltanto di una pacificazione molto realistica e probabilmente anche parziale.
Ecco, a me basterebbe qualcosa del genere.
E della foto in alto condivido, profondamente, quella dedica insieme così antica e moderna a una tale "Giulia" (ho scattato due immagini scegliendo per questo post quella orizzontale: il nome era molto in basso, e nell'altro formato mi sapeva troppo di lapide).
Chissà chi ne è l'autore. Me lo immagino molto giovane e molto romantico.
Anche Colombeta riceve molti grazie dal suo secondo marito, ma di quanto sia stata fortunata lei a incontrarlo non sembra avvedersene fino alla svolta cui ho fatto cenno.
Bisognerebbe sempre ricordarsi di ringraziare le persone che ci vogliono bene, cogliendo i doni che ci fanno con lucida e aperta gratitudine. Chi ne è capace senza affettazione, infatti, ha già compreso di non essere, né ora né mai, il centro del mondo, ma di essere veramente importante per qualcuno.
E non c'è nient'altro che conti di più.