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giovedì 21 novembre 2013

Diciotto anni per la ripresa in Italia: andiamo oltre la paura

La ripresa italiana secondo Nomisma

Diciotto anni sono una bella età. Si prende la patente, si può votare. Fortunati i bambini italiani che stanno per venire al mondo, quindi. Infatti, se tutto andrà secondo le previsioni di Nomisma, la società di studi economici di Bologna che da oltre trent'anni analizza e documenta le dinamiche di sviluppo locale e internazionale, dalla ripresa effettiva dell'Italia ci separano ancora diciotto anni.
Ai miei nipoti, 6 e 8 anni in questo momento, andrà ancora bene: supponendo che staranno lasciando il mondo dell'istruzione giusto in quegli agognati giorni, dovrebbero riuscire a trovare adeguata collocazione. Si togliessero però dalla testa la prospettiva di un altrettanto adeguato stipendio.
Date un'occhiata al grafico sopra riportato: vedete a destra la cima della linea blu spezzata (per la precisione, precipitata nell'angolo acutissimo giusto nell'anno che si sta chiudendo)? Se ci fate caso, si trova esattamente alla medesima altezza del picco registrato nel 2007.

Come a dire che tra diciotto anni torneremo agli stessi livelli che avevamo quasi sette anni fa. Insomma, stiamo sereni (il bolognese Romano Prodi sarebbe fiero di me): avendo già toccato il fondo, più in basso di così non si può andare.
O meglio, non si dovrebbe.

Sulla crisi oggi sappiamo di tutto e di più e se non siamo completamente sconsiderati, è bene ascoltare le (cosiddette) cassandre che ci consigliano di rispettare i vincoli di Europa 2020.
Solo in questo modo, infatti, riusciremo a evitare ai miei nipoti e quelli che stanno venendo al mondo giusto adesso di fuggire verso lidi migliori, sempre che nel frattempo non li abbiano già trascinati via dall'Italia quelli che li hanno messi al mondo.

Perché, ahimè, per i diciottenni di oggi e per i loro genitori, zii e fratelli maggiori, il presente è davvero drammatico, come hanno illustrato più o meno tutti e quattro i relatori che hanno preso parte alla conferenza inaugurale dell'anno accademico dell'Università del tempo ritrovato e dell'educazione permanente (in sigla, Utete) di Grottazzolina, un ridente paesino in provincia di Fermo.

Il tema conduttore di tutti gli interventi era "Una finestra sul futuro. Il territorio fermano verso Europa 2020" e, tolta la prima mezz'ora dedicata a rivangare i lustri del passato, il resto è stato una sorta di dotto appello alle energie locali e nazionali per una virata decisa verso un ripensamento complessivo del nostro sistema socio-economico.

Gli applausi più vibranti sono andati all'intervento del sociologo Massimiliano Colombi, ma personalmente ho trovato molto illuminante quello successivo di Marco Marcatili, analista economico e project manager di Nomisma, il quale mi ha gentilmente elargito le sue slide.

Amici miei, ha detto fuori dai denti il giovane studioso, di che cosa stiamo parlando quando diciamo che si intravvedono segnali di ripresa? Che cosa ce ne facciamo del + 0,7% previsto per il 2014? E via via dell'1,1 del 2015 e dell'1,4 del 2016, anche considerando che staremo comunque sotto, anche se di poco, la media europea prevista negli stessi anni?

Di quel che accadrà dopo il 2016 ho già accennato all'inizio, ma è chiaro il problema posto da Marcatili: la ripresa attesa di qui a cinque anni non si tradurrà in un miglioramento delle condizioni di vita della maggioranza delle famiglie italiane né in un aumento di redditività di una buona parte delle imprese nazionali, troppo piccole e troppo poco esportatrici.
Come uscirne? That is the question.

Qualcosa bisognerà pur fare, logicamente.
Per esempio, mettere un po' d'ordine e chiarezza dentro di noi. Un po' come ci succede dopo una separazione non voluta, un lutto o un qualsiasi altro evento che ci ha mandato "in crisi".
Nelle slide che Marco ha mostrato alla platea forse un tantino attonita del piccolo teatro di paese, si leggevano parole come "dai beni privati ai beni di interesse collettivo (commons)", "politiche di sviluppo rivolte ai luoghi che abitiamo", "partecipazione delle comunità (civile e imprenditoriale)", "riscatto della qualità dell'azione pubblica", "città in cerca di economie, ma economie in cerca di città".

Insomma, ha detto l'analista economico, cominciamo intanto con il pronunciare questa serie di paroline magiche come per riabituarci al suono di un diverso modo di fare politica ed economia. Poi andiamo più nello specifico. Come si riporta al centro l'interesse collettivo?

Per esempio, eliminando le barriere architettoniche dalle nostre città, mettendo in sicurezza il nostro patrimonio storico-artistico, curando l'estetica delle nuove costruzioni e di quelle antiche.
In termini ancora più pratici, dove trovare il denaro per ridarci una verniciata (e non solo quella) di credibilità internazionale? Creando partnership pubblico-private, utilizzando un approccio più europeo nelle nostre iniziative, valorizzando le professionalità migliori.

Quest'ultimo aspetto, peraltro, porterebbe notevoli benefici alla marea di bravissimi connazionali che lottano per non andarsene dal nostro Paese: pensiamo solo agli archeologi, da una parte, e agli architetti, dall'altro. Quanti di loro sono pressoché a spasso, mentre potrebbero dare un notevole contributo per la sacrosanta valorizzazione di un patrimonio che tutto il mondo continua a invidiarci?

Le slide passano poi a mostrare una serie di numeri, non tutti intellegibili senza un'adeguata conoscenza economico-finanziaria, ma abbastanza chiari in un punto: se investiamo in risorse energetiche rinnovabili, se abbattiamo, detto diversamente, gli sprechi di calore, acqua ed elettricità, produciamo occupazione e crescita del Pil.

Oltre ai numeri, parlano infine le immagini di un progetto di riqualificazione prospettato per un quartiere di Modena, oggi un ammasso di fabbriche in disuso, domani un luogo pieno di verde e di case a basso impatto ambientale. Perché questa trasformazione sia possibile, però, è necessario il consenso della popolazione che deve andarvi ad abitare, magari attraverso un'adeguata politica di bassi prezzi di compravendita o di affitto. Senza un coinvolgimento della società civile, in sostanza, nessun progetto è credibile: diversamente, continueremo ad assistere alla costruzione di casette (casacce e casone) spesso destinate a restare vuote in zone ad alto rischio idrogeologico, come quelle che si vedono dal treno ahimè ormai su ogni piccolo fazzoletto di costa adriatica.

L'ultima osservazione, naturalmente, era mia, ma davvero, ascoltare l'intervento di Marco Marcatili mi ha fatto scattare qualcosa nel cervello e nel cuore: bisogna fare qualcosa, accidenti.
Bisogna aiutare quelli che verranno dopo di noi a non buttare via l'energia degli anni migliori.
Come?

Intanto, come ha scritto il project manager, ficcandosi bene in testa che l'Ue non è un bancomat e che per non fallire il traguardo del 2020, bisogna fare davvero sul serio. Il che significa che urge impegnarsi nella ricerca di vere alleanze tra i singoli territori, oltre i campanilismi e le recriminazioni localistiche che hanno davvero fatto il loro tempo.

In concreto, ci aspettano due scadenze molto più vicine di quel che sembra: l'Expo 2015, innanzitutto, da vivere non come vetrina per nani (metaforicamente i piccoli paesi che compongono non solo il Fermano) e ballerine (le aziende, pochissime, che danno lustro alle micro-realtà locali), bensì come luogo per catturare flussi permanenti di turisti e visitatori alla ricerca di qualità in ciò che vedono, mangiano, usano e acquistano.
In secondo luogo, il famigerato Ue2020, da prendere come data per suggellare le nuove alleanze strategiche di tipo "glocale", sotto l'ombrello di un'architettura finanziaria sostenibile per tutti.

Quest'ultimo traguardo si realizza tenendo d'occhio la domanda sociale e ponendosi, se si è amministratori pubblici, come "accompagnatori" degli interessi collettivi piuttosto che come "proprietari" degli stessi.
Un discorso simile va fatto anche per le imprese, che devono abituarsi a "co-progettare" la domanda di beni e servizi, anziché utilizzare i propri denari in incupenti colate di cemento.

Ce la possiamo fare?
Secondo me sì, anche se non sarà facile. L'unica arma che abbiamo sapete qual è? La paura della fame, niente affatto metaforica, che potremo fare proprio noi (plurale maiestatis, anche) che non abbiamo goduto, se non nei nostri verdissimi anni, di un benessere che ci meriteremmo, considerato quanto abbiamo studiato e quanto abbiamo investito per essere cittadini, non solo consumatori.

Ho davvero molta strizza, lo ammetto. Ma fare i conti con questo sentimento, impegnandoci oltre ogni ragionevolezza, lo dobbiamo soprattutto alle giovani generazioni, che hanno ancora meno colpa di noi per lo sfascio che stiamo loro consegnando.

Diamoci dentro, insomma.
Grazie a Marco Marcatili e agli altri trentenni come lui per il loro prezioso lavoro.
Il presente è nostro: facciamoci sentire.