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venerdì 20 dicembre 2013

Il mercatino dell'Otto dicembre e la dignità del lavoro. Auguri a tutti

 

Ho scattato questa foto lo scorso otto dicembre, all'imbrunire.
Come (forse) si intuisce, ho trasportato il cesto dei nostri gatti sul banchetto che ho allestito per il primo mercatino natalizio di Fermo. Nella cittadina marchigiana rispettano infatti in maniera molto rigorosa il calendario delle festività cristiane. Prima della festa dedicata all'Immacolata Concezione, per dire, non accendono neanche le luminarie.

E insomma: tra un dubbio e l'altro, alla fine ho pagato una cifra sostenibile per occupare uno spazietto a due passi dalla grande piazza principale e, per l'intera giornata, decisamente umida, mi sono trasformata ancora una volta in ambulante.

A chi mi chiedeva che cosa vendessi e in alcuni casi anche perché, ho spiegato, con tutta la calma che mi è possibile (sono un tipo francamente suscettibile, anche se cerco di nasconderlo in ogni modo) che mi sembrava una buona idea continuare in questa forma di artigianale "direct marketing" che tanta fortuna aveva avuto la scorsa estate.

E in effetti è andata bene anche stavolta. Benché, adesso posso dirlo con tutta sincerità, fare la vita dell'ambulante è davvero dura, soprattutto d'inverno. D'altro canto, ho fatto anche un'altra, educativa scoperta.
In quel mercatino, di persone prestate al mestiere del mercante ce n'erano davvero tante.

Sulla mia sinistra, per esempio, c'erano due coppie di sessantenni, o giù di lì, con i loro oggetti fatti in casa di davvero pregevole fattura. Sono rimasta a osservare diversi minuti ogni singola pallina natalizia ai ferri e soprattutto il meraviglioso paraspifferi con tanto di funghi e lumache cuciti sopra, dal costo di diciotto euro.
Niente, considerato l'amore, la cura e il tempo che la sua realizzatrice deve averci messo. A fine giornata, però, quel bellissimo oggetto era rimasto invenduto e io posso assicurarvi che se avessi avuto qualche denaro in più l'avrei comprato.
Pensate, anzi, a quanto costa la stessa cosa se la prendete in uno dei quei negozi di artigianato locale o pseudo tale.

Idem per le bellissime agendine di carta crespa confezionate una per una dall'altra signora sessantenne, lo sguardo vispo e il marito molto simpatico, un elettricista disoccupato.
Quest'ultimo usa il suo tempo libero per fare degli orecchini molto fini, piccini e delicati, più facilmente smerciabili, certo, ma venduti a prezzi talmente bassi che dubito che il ricavato gli basti a coprire le spese dei materiali e del tempo lavoro che ha dedicato a ognuno di loro.

Di fronte a me, poco più su, c'era una signora russa, della Crimea per la precisione, la tipica struttura di capelli a cofano e la faccia di chi ha molto sofferto molto frequente tra queste signore dell'Est Europa che vediamo assai spesso in compagnia di anzianissimi connazionali.
Con lei c'era una ragazza dagli occhi di ghiaccio e una treccia da dottor Zivago, che continuava a sferruzzare con il suo uncinetto piccolissimi sotto bicchieri e presine varie.
Anche il loro banchetto era minuscolo, forse persino più del mio.

Mi sono avvicinata ai loro oggetti e ho comprato, esattamente come avevo fatto con gli orecchini fatti dall'elettricista. Anche in questo caso perché il prezzo era molto basso. Anche in questo caso, infatti, ho pensato che gli stessi prodotti venduti in uno dei negozi sfavillanti di qualsiasi centro urbano costerebbero tre volte tanto. Almeno.

Alla mia destra, invece, c'era un bancaccio enorme, pieno di cineserie, gestito da uno strano trio di personaggi, un'italiana sporca e puzzolente, i capelli unti e gli occhi d'acqua, e due uomini giovani con i denti già marci, forse pakistani. Ogni tanto dal loro banco partivano dei fasci di luce stroboscopici e una musica chiassosa e di bassissima qualità sonora forse prodotta proprio da uno dei loro oggetti in vendita. Sul filo sopra al banco una schiera di quelle scimmiette che imperversavano anche la scorsa estate sulle spiagge.

Non ho idea quanto abbiano incassato, ma posso assicurarvi che erano molte le persone che si fermavano da loro, qualcuno per le scimmiette, qualcun altro per quegli aggeggi stroboscopici, altri ancora per degli orribili fiori finti.

In ogni caso, era chiaro il motivo per cui il grosso dei passanti era attratto dal loro banco: il bassissimo costo che però, in questo caso, era anche sinonimo di bassissima qualità.
Dubito insomma che i grossisti di tutta quella paccottiglia vendano sottocosto ai dettaglianti.
Noi ambulanti per caso (o sarebbe meglio dire per costrizione) rischiamo invece di rimetterci o di andarci solo a pari.

Detto questo, per me che ho studiato ma sto avvicinandomi un passo alla volta sempre di più al baratro della miseria, è stata una lezione di vita sentirmi dire, a fine giornata, dal pakistano con gli occhi di brace e l'alito di curry: "Hai lavorato?".
E' come se avesse capito tutto, è come se in quelle poche ore passate l'uno accanto all'altro, si fosse creata una sorta di solidarietà da disperati o simil-tali, piena alla fine della dignità di chi comunque non è stato a grattarsi la testa o a battersi il petto, ma ha comunque, eccome, lavorato.

Sì, caro pakistano. Quella sera ho lavorato e sto continuando a farlo, come posso, cercando di non smarrire mai la fiducia nel futuro.
Non è facile, ma è proprio vero che l'istinto di sopravvivenza è più forte di qualsiasi altro sentimento.

Stamattina, poi, sono stata contentissima di prendere altri due ordini da una mia cara amica che non sentivo da tempo. Adesso anzi corro a farle la spedizione. Mi cambierò, truccandomi un po', e andrò alla posta. Con tutto l'orgoglio segreto di chi ha capito che bisogna lottare. Sempre.
Come sta facendo la mia magnifica mamma anche in questo momento.
A lei ho dedicato, non a caso, il mio libro.
A voi che mi state leggendo, dico grazie. E Buone Feste.
Ce le meritiamo.