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venerdì 23 ottobre 2015

Ritorno a Fermo, tra realtà e sogno

Fermo, zona Girfalco

Stamattina sono salita in cima al colle per risolvere una questione burocratica e per vedere un'amica.
Non venivo nel centro storico di Fermo da inizio estate, per la precisione dal giorno in cui ho restituito le chiavi ai miei ex proprietari. Mi ha fatto uno strano effetto.
Pur essendomi tutto, com'era ovvio, ancora molto familiare, m'è sembrato di essere piombata in un sogno, uno di quelli in cui c'è qualche elemento del tuo passato mescolato ad altri di fantasia.

Mi è venuto in mente, per esempio, il mio lavoro (si fa per dire) fotografico sulla via dove abitavo appena sotto il giardino del Duomo e in particolare lo scatto della panchina sommersa di foglie, le stesse che vedete nella foto sopra. Da quella foto sono passati esattamente quattro anni, abbastanza per accumulare altra vita (e che vita), ma non troppa per lasciarmi andare a un eventuale amarcord.

In quel giardino ho fatto varie telefonate a mia mamma, praticamente in tutte le stagioni. Qualcuna, poco prima di andarmene via, pure a mio padre, per informarmi sulle varie visite di controllo alle quali non avevo potuto assistere.

Ferma a osservare il cedro secco ricoperto di carta argentata (ho provato a fotografarlo, ma l'obiettivo del mio cellulare mi è andato in crisi sfocandomi albero e sfondo), ho avvertito nitidissimo un brivido lungo la schiena e una vaga vertigine
Sono scappata via
Riscendendo nella piazza centrale, deserta e assolata, ho intravisto l'edicolante anziano su un lato (ho avuto l'impressione che mi abbia riconosciuta, ma chissà) e una donna impegnata a lavorare a maglia sull'altro. Che calma. 
Troppa. 

Qualcosa mi dice che passeranno altri mesi prima che mi riaffacci lassù.
A scanso di equivoci con gli eventuali amici lettori del blog nati, cresciuti e giustamente fieri di Girfalco e dintorni, il problema non sono questi luoghi, crudelmente rasserenanti. Sono io che non sono in armonia con loro, troppo giovane per la pensione e troppo vecchia per mischiarmi con i ragazzi che hanno ripreso l'autobus con me per ritornare giù al mare.

Ho bisogno di aria, di luce e di radici più profonde, insomma.
Forse (lo dico piano) la mia nuova vita sta cominciando, insieme con i ciclamini e l'erica che ho rinvasato oggi pomeriggio, i panni da casa, le ciabatte e il caffè caldo sorbito sul balcone.
Il mio balcone.

Fatemi l'in bocca al lupo.
Ne ho bisogno.

martedì 15 aprile 2014

Fermo e l'invincibile distanza


Ci ho pensato a lungo, ma la conclusione è rimasta la stessa cui ero approdata fin da subito. Desidero dedicare qualche riga alla chiusura di Alelà, il piccolo negozio di calze, canotte e costumi, nel quale sono entrata più di una volta, soprattutto quando ho avuto bisogno di fare qualche regalo un po' più di qualità.
Sono rimasta malissimo quando ho saputo la brutta notizia.

Pur non essendo una habituè dei negozi di piazza del Popolo, il magnifico cuore del centro storico di Fermo, mi piaceva infatti dare un'occhiata alle vetrine, come chiunque (non solo di sesso femminile) abbia un minimo di interesse per vestiti, scarpe e accessori vari.
Da quando sono arrivata quassù, però, lo shopping dei miei occhi si è di anno in anno sempre più ridotto, lasciandomi nel cuore la spiacevole sensazione di abitare in un paese fantasma.

So di dire qualcosa di scomodo per chi - giustamente - è molto attaccato alle proprie radici, ma, credetemi, se giorno dopo giorno Fermo mi è diventata sempre più estranea non è solo per colpa mia e del mio essermene restata chiusa nella "torre" troppo a lungo.

Ci ho provato, e continuo tuttora, in fondo, a tentare di sentirmi a casa, ma non ci sono riuscita. E, ahimè, ormai mi sono convinta che mai riuscirò.
Il che non vuol dire che in tutti questi anni non abbia conosciuto persone interessanti e fatto bellissime e indimenticabili esperienze.
E' solo che se non lavori sul posto, se non hai un legame non solo hobbistico con il luogo in cui abiti diventa obiettivamente più difficile.

E non che non abbia provato anche a cercarmi qualche lavoretto. Una volta ci sono anche riuscita ed è stato bello, ma del tutto inutile in prospettiva.
In questo caso, però, il problema è tutto mio e del percorso di studi e professionale troppo poco spendibile in una terra dedita al lavoro prevalentemente manuale (agricoltura+calzaturiero) come questa.

Mettici in più la crisi, mettici la tendenza non solo locale allo svuotamento progressivo dei centri storici a favore dei grandi centri commerciali, mettici le potenti lobby politico-ecclesiastiche contro le quali ho ampiamente sbattuto il muso quando lavoravo per il giornale diocesano. Fatto sta che la mia condizione di estraneità ha finito solo per rafforzarsi. E per aggravarsi ulteriormente per via di questo progressivo sgombero dalle vie che circondano la bella casa-torre nella quale soggiorno, dotata di questa vista mozzafiato che per lo meno ha lenito un po' lo sconforto dei momenti più bui.

Me ne dispiace. Tanto. Non sapete quanto.
Per scelta ho lasciato la grande città, alla ricerca di un luogo e di uno stile di vita più semplice.
E mi devo ritenere persino privilegiata per aver avuto la possibilità di fare almeno un po' il mio lavoro i primi tre anni passati qui con voi.

All'inizio della mia vita marchigiana, tra l'altro, abitavo sulla costa, dov'ero approdata in pieno inverno, accolta da una nevicata epocale che aveva imbiancato persino la spiaggia.
Ricordo ogni giorno, o quasi, passato alla Voce delle Marche, le risate e l'impegno che ci mettevamo, ogni settimana, per fare uscire quel piccolo giornale.
Quel giornalino, come lo chiamò una volta lo zio mantovano di mio marito, facendomi non poco scaldare, era una ragione più che valida per sentire davvero, o per illudersene, di aver trovato il proprio posto nel mondo.

Non è stato così, purtroppo, e anche ammesso che sia anche il mio carattere a indurmi a nutrire sempre un certo senso di distanza dagli ambienti troppo formati e strutturati (non ho mai fatto parte degli scout e agli sport di squadra preferisco di gran lunga quelli individuali), so anche stare con gli altri. So dare il mio contributo e fare un passo indietro a favore di qualcun altro più capace.
L'importante è avere l'occasione di dimostrarlo: il che significa essere accolti per quello che si è, senza preconcetti.

L'epilogo non felice dell'avventura commerciale della mia omonima commerciante di calzette di qualità mi ha amareggiato soprattutto per una ragione personale, insomma: se ha chiuso lei che a Fermo è nata, che per Fermo ha lasciato un posto di lavoro ai tempi stra-blindato in una grossa azienda, se oltre a lei hanno mollato le redini altri commercianti una volta molto gettonati del centro storico, compresa la mia ex edicolante, che oggi fa la fioraia (non so con quale successo) a Porto San Giorgio, perché mai avrei dovuto avere più chance io, che manco ci sono nata?

Faccio un'ultima considerazione, stavolta più politica: come può essere valutata una giunta comunale che ha lasciato andare verso il tracollo un centro così bello?
Che ha tolto i parcheggi ai residenti sulla strada che ospita il Municipio, sperando in questo modo di attrarre più gente, ovviamente automunita, senza pensare minimamente a potenziare altre vie di accesso al centro, altre forme di mobilità cosiddetta leggera che ormai dovrebbero essere un obbligo per qualunque centro che si dica civile?

Come si giudica un Comune che non ha ancora attivato la raccolta differenziata porta a porta, sempre nel medesimo centro storico?
Che cosa devo pensare della frana che si è staccata a pochi metri dalla nostra casa-torre, sembra per colpa della mancata manutenzione alla collina di tufo (o qualcosa del genere) sulla quale sorge il colle più alto della città?

In questo discorso il mio mal di vivere personale non c'entra. Però c'entra, come direbbe Nanni Moretti.
Perché se in questi anni avessi assistito a scelte illuminate, fatte per i cittadini (tutti: fermani di nascita e non) e non per favorire gli interessi di qualcuno; se avessi assistito non allo svuotamento, bensì alla rinascita del centro, alla faccia della tendenza nazionale, forse mi sarei convinta che comunque ho fatto bene a venire qua.

Mi resta sempre il dubbio che in una metropoli sarei stata ancora peggio, anche se nei grossi centri il senso di estraneità sarebbe passato inosservato, dal momento che tutti, più o meno, sono anonimi abitanti di non-luoghi.

Che dire? Ricorrendo a un'espressione che utilizzo spesso in modo ironico, ormai è andata.
E d'altra parte non mi sono del tutto arresa, visto che sto preparando una foto per una manifestazione collettiva di artisti (gli altri, non io), che esprime tutt'altro sentimento rispetto a quello che ho vergato qui.
Come me farebbe chiunque abbia ancora (molta) voglia di vivere. E di partecipare. A modo mio, naturalmente.

Vi saluto con un sogno: dopo anni passati in Germania o chissà dove in giro per il mondo, un giorno, d'inverno, i miei nipoti torneranno a Fermo e si ricorderanno di quando vi avevano venduto i loro giochi da bebè, felici dei guadagni realizzati e della festosa atmosfera che li circondava. E la riconosceranno perché, nonostante il freddo pungente che spesso alberga anche da queste parti, vi troveranno tanta gente di tutte le età, che passeggia circondata dal verde, costeggiando negozi di ogni genere, colorati ed eleganti.

E' un sogno di giovinezza, lo so, fuggevole come quella vera.
E tuttavia è l'unica visione sperabile, non tanto per me, ma per quelli che a Fermo verranno a vivere. Un giorno lontano.