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martedì 5 gennaio 2016

Attaccarsi al presente, lo dice mia Brezny-cugina



Non bisognerebbe mai rileggersi, soprattutto quando si era convinti di aver cancellato alcune tracce del proprio passato che, invece, erano ancora lì sepolte in qualche cartella virtuale.

Sto cercando il più possibile di restare attaccata al presente (come mi ha suggerito l'intelligente cugina nell'oroscopo personalizzato che ha diffuso su Facebook), ma, davvero, a volte il caso è più crudele di un'offesa mortale.

Mi sono ritrovata all'improvviso in quell'ospedale che in verità continuo a frequentare quasi mensilmente.
Mia madre era a uno dei primi ricoveri, la vestaglia celeste a incorniciare la sua bella non troppo smagrita figura. Adesso quella vestaglia è passata a una zia simpaticissima: mi piace vedergliela addosso, di tanto in tanto, insieme con gli altri vestiti che ha voluto prendere con sé.

La nostalgia, a dire il vero, aleggiava già da ieri, mentre leggevo i bellissimi racconti di un'amica, in cui l'ho vista bambina e ragazza per la prima volta. Mi ha fatto davvero un bel regalo: le sue parole ben scritte mi hanno mostrato meglio di una fotografia un tempo che non ho conosciuto direttamente, ma che in qualche modo mi appartiene dalla nascita.

Nel video sull'infanzia che ho montato l'anno scorso più o meno nei giorni in cui mia madre avrebbe compiuto 73 anni, si vedono i residui di una campagna molto simile a quella in cui è vissuta la mia amica. Non ho voluto diffondere quelle immagini tratte da vari filmini girati in prevalenza da mio padre con la cinepresa Super8 che da poco ha peraltro ritrovato, per rispetto della privacy dei parenti che vi sono stati immortalati.

Chi è stato bambino e ragazzo negli anni Settanta, comunque, sa di cosa sto parlando.
Quei giorni non torneranno più, ma tanto lo si dice sempre, in ogni generazione.

Diverso è accorgersi che frasi scritte poco meno di tre anni fa, fanno ancora male.

Fa niente. Poi passa. E mia cugina ha ragione: meglio concentrarsi il più possibile sul qui e ora.
Il che non significa non progettare alcunché: significa solo riporre le zavorre di certi ricordi e guardarsi bene allo specchio. Oggi sono una persona diversa, uguale nell'essenza, ma diversa.
Niente è mai uguale. Pure il codice d'accesso all'home banking tra poco cambierà.

E io ho troppe cose da sistemare (lavorare, magari) perché mi possa abbandonare a molli amarcord.
La Befana, per fortuna, sta per arrivare. E le giornate si stanno già allungando. Wow.

mercoledì 6 marzo 2013

I giorni dell'anormalità normale

Il vento scuote le piante fuori dalla mia finestra, lieto megafono del cinguettìo di qualche passerotto coraggioso, impaziente come me per questa primavera che non ancora arriva. L'immagine fiaccamente poetica fa da altrettanto debole cappello alle parole che sto per scrivere.
Oggi vorrei parlare di horror vacui e dell'allenamento a questo punto non più solo personale a vivere come color che sono sospesi. Perché, se è vero che il grosso di noi crede di non saper gestire il vuoto, riflettiamo un attimo sul periodo storico che stiamo vivendo: senza governo, senza Papa, senza futuro. Almeno all'apparenza. Il futuro, infatti, c'è per forza, comunque vada a finire.
Sapete anzi che cosa penso? Molti di noi (io di sicuro) ci stiamo bene in questo stato di sospensione. Dire bene, forse, è esagerato, però la strizza per quel che deve venire ci rende più sopportabile anche l'incertezza. E l'horror vacui di cui sopra passa decisamente in secondo piano.
Faccio un esempio più personale.
L'altro giorno ero in cucina con gli zii e mia madre. Sulla tavola due diversi numeri della Settimana enigmistica. Non so come, ma ci siamo messi a risolvere un cruciverba collettivamente, passandocelo democraticamente alla prima o seconda definizione insolubile. Nello specifico, al gioco ho partecipato io con gli zii, mentre mia madre, con gli occhi bassi, commentava ironica: "Ma guarda un po' tu: li avevo presi per me...". Abbiamo riso tutti.
Domenica mattina, poi, ero in auto con mio padre e casualmente ci siamo messi a parlare dei ricordi dei primi anni di vita. Io dicevo che è difficile avere memoria di noi stessi dai due ai cinque-sei anni, ma mio padre non era del tutto d'accordo. Lui, per esempio, non aveva scordato alcune cose, anche se, certamente, a ripensarci oggi erano come sogni, ma di quelli molto vivi che ci portiamo dietro tutta la vita.
E me ne ha raccontato uno, con quella leggera pausa che precede l'atto del narrare a voce alta, che tanto piace da bambini. In quei secondi ho avvertito una specie di sottilissima nostalgia, consapevole di stare vivendo un momento unico, del quale avrei voluto conservare tutto.
E invece. Il racconto mi è giunto a metà, troppo presa com'ero dall'ascolto delle mie emozioni.
C'era la guerra e i bombardamenti. Mio padre era all'epoca l'unico figlio cresciuto in solitudine da mia nonna, nei lunghi anni in cui il marito, mio nonno, rimase lontano, come soldato e poi prigioniero di guerra.
Non si poteva restare in casa, troppo pericoloso. Così mio padre, chissà se impegnato in qualche gioco infantile, venne trascinato via dalla mamma per un braccio, perché potessero rifugiarsi il più velocemente possibile in una delle cavità aperte su un muro di una strada poco distante. E' riuscito proprio a farmi vedere il braccino tirato dalla mamma e tutta la sua ansia, riflessa in quella di lei. Altre volte mi aveva raccontato di quando non aveva le scarpe e dei pantaloncini corti con cui erano soliti girare anche d'inverno. Quel periodo, però, è testimoniato anche dalle foto della famiglia di mia madre, quindi è un ricordo mediato dalle immagini.
Stavolta, invece, la sospensione prodotta era più intima, più segreta.
Certo, adesso che ne ho parlato sul blog, non lo è più, ma sentivo il bisogno di fissarlo qui, a testimonianza di questi inediti giorni di "anormalità normale", per citare un'espressione usata spesso da mia mamma nell'ultimo periodo.
Sento di star vivendo un momento della mia vita molto speciale, di cui un giorno, forse, potrei avere nostalgia.
D'altra parte, la mia natura tende naturalmente alla saudade, ma cerco di tenerla sotto controllo, per paura di risultare pesante.
Non si tratta, tuttavia, tanto del rimpianto del passato (a volte c'è anche quello) quanto della malinconia di non poter trattenere nulla per sempre, neanche certe tristezze obiettivamente dannose.
Tornando al presente e al destino dell'Italia (e della Chiesa!), sarebbe bello se un domani potessimo ripensare a questi giorni con un pizzico di saudade. Come eravamo incasinati, ci pensate? Potremmo dire così ai nostri nipoti.
Già solo sognare di poterlo raccontare è una prospettiva ottimistica, vero?
Sì che lo è. E del resto, tenderò anche alla saudade, ma al contempo sono un'inguaribile illusa.
Vi lascio con una barzelletta stupida stupida, di quelle che piacciono tanto a mio nipote settenne, che me le scrive su Skype tutto gongolante.
Sapete qual è il colmo per la Befana? Non saper giocare a scopa.
Magari, in questi giorni, anche i cardinali se ne racconteranno probabilmente anche di più scollacciate, e forse pure i parlamentari grillini, mettendo alla porta l'horror vacui e la storia che incombe.