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sabato 17 maggio 2014

Imparare a vivere per raccontare meglio




Parlando con un amico più vecchio che compiva gli anni, a un certo punto me ne sono uscita dicendo che penso di avere qualcosa da raccontare.
Non avrei mai immaginato di pronunciare un giorno una frase così, non perché, in fondo in fondo, non lo pensi davvero, ma per la modestia che generalmente sbandiero nelle più svariate circostanze. 
Una modestia, a volte, fuori luogo, che però in ogni caso preferisco all'eccesso di sicurezza ostentato da troppa gente che mi circonda.

Dev'essersi tuttavia scatenata la ubris divina.
Perché esattamente a una settimana o poco più di distanza da questa mia ben strana dichiarazione di fiducia nella mia auto-significanza, ho incontrato una donna di appena cinquant'anni che di cose da dire ne ha ben più di me.
Man mano che andava avanti nel suo racconto, qualche sera fa, su come sia arrivata in Italia nell'ormai lontanissimo 1998, sentivo di diventare sempre più piccola. Praticamente una nana-neonata, per scherzarci su.

Stringendo sotto le sue braccia forti le bambine avute in giovanissima età (adesso è nonna di due o più nipoti), Ina è riuscita a resistere alla forza centrifuga del gommone che in due ore e mezzo l'ha traghettata dall'Albania alla Puglia.
Era aprile, faceva freddo e loro erano completamente bagnate.
Prima di compiere la traversata, ha venduto la sua casa e con la somma ricavata (comunque una buona parte della medesima), ha pagato il prezzo del futuro migliore, per lei e le sue figlie: otto milioni di lire. Tempo prima era già arrivato suo marito, che stava aspettando il giorno in cui si sarebbero ricongiunti.

Per un soffio hanno rischiato di non coronare il loro sogno: la Guardia costiera (o qualcosa del genere), quella notte, aveva intercettato il gommone che filava come un razzo nell'Adriatico, lanciando l'allarme alle forze dell'ordine di terra.
Disperati, i migranti giunti con lei, avevano tentato di sfuggire alla cattura, invano.
Ina ci ha detto che solo lei e le sue bambine, spinte da qualche demone benigno, erano riuscite a nascondersi, ma che prima di riunirsi a suo marito e agli altri parenti già approdati nella terra della speranza, ci hanno messo diversi giorni.

I primi due anni nel nostro Paese devono essere stati piuttosto duri, ma non conosco i dettagli: è solo una mia supposizione.
Poi sono arrivati a Chieti e via via la famiglia è cresciuta. La nipotina parla il mio dialetto, probabilmente meglio di me.

Della sua storia abbiamo parlato giusto la sera dell'ennesima tragedia dei migranti morti in mare.
Probabilmente dovevo essere qui, in questi giorni, anche per questa ragione.

In un certo senso, perciò, è vero che ho qualcosa da raccontare, ma non di me stessa.

Un'altra sera, forse quella in cui ci siamo conosciute, parlando della crisi, Ina ha dichiarato, tenendo ben dritta la schiena maschile: "Se uno vuole lavorare, lavora. Io ho sempre lavorato, sempre".
Ci credo, ti credo, Ina. Però non hai del tutto ragione, anche se naturalmente rispetto la tua opinione.

Io la forza che hai tu non ce l'ho: non sono partita come te con un gommone alla ricerca di fortuna a molti anni di meno di quelli che ho adesso e non ho vissuto sulla mia pelle il probabile disprezzo che hai dovuto sopportare per la povertà che per fortuna ti sei lasciata alle spalle.
E non ho neanche fatto la Resistenza come i vecchi sopravvissuti che stima il mio amico di cui parlo all'inizio, né sono passata attraverso le privazioni vissute in infanzia dai miei genitori.
Ho avuto, anzi, relativa agiatezza fino almeno ai trent'anni.

Sono diventata donna tardissimo e lo si vede chiaramente dall'età apparente che mostriamo, almeno per ora, tu ed io.
Poi però succede che recuperi in fretta il tempo perso. Il tempo dell'oro.
E tutto assume una luce diversa.

Non sono, certo, ancora in grado di fare un racconto oggettivo, letterario, quasi, di quel che stiamo passando negli ultimi tempi.
Però, se è vero che ho qualcosa da dire lo si vedrà a breve.
Altrimenti, farò bene a tacere. 
E a imparare dell'altro.
Vivendo.