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giovedì 26 luglio 2012

L'arte di ascoltare non s'impara con uno stage

Morsicati dalla crisi

L'astinenza da computer è salutare, salvo poi essere costretti, dopo vari giorni di interruzione, a doversi districare tra centinaia di mail per la maggior parte inutili.
Tra tutte, merita il palmares dell'inanità quella che mi ha girato, con grande gentilezza, una giovane donna conosciuta lo scorso anno proprio in questo periodo. 
Come ho già avuto modo di dire in più occasioni, quando ci si lamenta della propria condizione di simil-sfaccendamento con gli estranei, è piuttosto facile suscitare un misto di tenerezza-solidarietà-disagio, forieri, quasi sempre, di ulteriori frustrazioni. Il punto è però sempre il solito: ce la siamo cercata, perciò prendiamoci il consiglio, la segnalazione non richiesta e andiamo avanti.
In questo caso specifico, si trattava dell'offerta di una Ong della zona (il nome non è importante) che cercava un addetto alla comunicazione che avesse una laurea in materie simil-giornalistiche e conoscenze del mondo del volontariato. Avrebbe dovuto insospettirmi il periodo previsto per l'incarico, ossia sei mesi, e il compenso "da concordare", ossia non pre-determinato come dovrebbe accadere quando si parla di lavoro. 
Si trattava, insomma, di uno stage, che per le leggi vigenti non può durare oltre i sei mesi - se non vado errata e salvo, immagino, trovare gabole per rinnovarlo sotto altro nome - in cui il fortunato, se sta andando tutto bene, riceverà almeno un rimborso spese. 
In tempi di magra, naturalmente, si accetta anche quest'ultimo, soprattutto se si è giovani e si vuole arricchire il proprio curriculum. La stessa Ong, peraltro, non è direttamente responsabile della miopia di una legislazione che abbatte le ambizioni dei neolaureati con la passione per la cooperazione internazionale: è probabile che i soldi di cui dispone siano pochi e che rischi di saltare essa stessa da un momento all'altro, perciò meglio un lavoretto (stage) a ciascuno anziché un singolo addetto stampa da stipendiare o fatturare con tanto di contributi e altri inaccollabili fardelli fiscali. 
Parafrasando il Maestro astigiano, sì ma intanto così va il mondo e non ci si può fare nulla. 
Almeno, finché la barca non affonderà del tutto. E non è escluso che ci sia qualcuno che prema davvero verso il default finale, anche se non ho mai creduto nelle forze del male o in altre sciocchezze dietrologiche.
Il mio senso del dovere assai spiccato, tra l'altro, mi ha spinto comunque a contattare la suddetta Ong per accertarmi se l'offerta fosse ancora aperta. Sono stata trattata con molta educazione e direi umanità ed è già qualcosa: spero a questo punto che il ragazzo che sta svolgendo il periodo di prova (sì, l'offerta era scaduta) riesca a strappare qualcosa di meglio di un rimborso spese, che di solito si aggira sui 500 euro al massimo. Perché il lavoro va pagato (è un mio mantra, ormai), anche se durasse una manciata di minuti.
Ho raccontato l'aneddoto a una mia carissima amica sessantenne, insegnante, pensione (spero per lei) garantita: ha vari nipoti di 25 anni circa alle prese con continui lavoretti, come molti di quella generazione. Ho sperato che capisse (e forse l'ha fatto, ma chissà) che cosa può significare per una professionista di 41 anni dover (eventualmente) concorrere con i neolaureati o poco più per le medesime posizioni. 
Ho rischiato - in sostanza - di ripetere lo stesso errore che ha spinto la mia conoscenza a girarmi l'inutile (e un po' umiliante: lo riconosco) annuncio. Per fortuna abbiamo cambiato argomento e so per certo di esserle stata di qualche utilità almeno come ascoltatrice. 
Sì, perché per comunicare qualcosa bisogna saper ascoltare, ma - mi domando - quanti di questi ragazzini concentrati a sfangarla con l'ennesimo stage hanno poi davvero voglia di mettersi nei panni della realtà che dovrebbero propagandare? Quanti dei giovani e giovanissimi impiegati chissà con quale inquadramento nelle agenzie interinali o nei call center hanno voglia di sopportarsi le magagne di chi arriva ai loro sportelli o alle loro orecchie quando sanno anche loro di rischiare di ritrovarsi dall'altra parte in un battito ciglia?
Agli albori del lavoro temporaneo, prima di passare la selezione per la scuola di giornalismo, ho fatto la stagista per una filiale della Manpower a Firenze. Un giorno entrò un uomo sui 50 anni o poco più, occhialuto e distinto. Si capiva da come se ne stava impettito davanti a me, all'epoca 28 enne, che era teso e seccato di essere stato costretto a cercare lavoro con il curriculum che aveva, lungo come un romanzo breve.
Glielo presi dalle mani, forse gliene strinsi una per congedarlo e poi risposi alla domanda del capo filiale su chi fosse la persona appena uscita. Risultato? Quei fogli finirono in pezzettini: il tipo, disse il capetto dai capelli brizzolati, un quarantenne che si piaceva molto, era "troppo vecchio".
Ci rimasi malissimo. Ed è da allora, o forse da sempre, chi lo sa, che guardo con molta diffidenza le persone arrivate, quelle che sanno sempre tutto e quelle che se capitasse a loro di essere trattate così forse non reggerebbero e si sparerebbero (mi verrebbe, con rabbia, da aggiungere magari) un colpo in testa.
In definitiva, meglio tenersi i momenti "down" per sé, evitandosi la vera o pelosa compassione, e continuare a lottare, giorno dopo giorno per restare a galla. Di più. Per preservare la propria dignità, l'unica vera risorsa che non ha bisogno di essere pagata.