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mercoledì 25 novembre 2015

Paolo Conte e il mio post di riserva sul suo dolce mondo



Fatemi scrivere un post di riserva
.
Davvero, non è cosa semplice, per me che sono contiana da quasi trent'anni, raccontarvi, nemmeno recensirvi, Fammi una domanda di riserva, il libro Mondadori curato da Massimo Cotto (bellissima la sua introduzione), nel quale sono raccolte frasi pronunciate dall'avvocato Maestro astigiano dal 1985 in avanti.

Potrei, come ama ripetere spesso il nostro Baffone nazionale, dirvi solo dell'atmosfera, della malinconia più che nostalgia che pervade, a questo punto, non solo le sue musiche, ma anche il suo dire, non solo in formato canzone.

Conoscevo diverse delle frasi qui raccolte, ma messe così tutte insieme fanno decisamente un altro effetto.
Sarà la stagione e le temperature colate a picco, sarà l'età che avanza, saranno questi giorni di vuoto e di pensieri, ma lo ammetto: mi sono quasi commossa.

Ho ritrovato, un capitolo dopo l'altro, molti dei motivi che mi hanno fatto, ebbene sì, innamorare della musica del sempre giovane Canadese (come lo chiamava il suo amico e mentore Mingo Chiodo). E delle sue parole, naturalmente.

Perché se è vero, e lo è, che quasi nessuno gli fa delle domande competenti sulla sua musica, è altrettanto vero il fatto che dalle sue parole non si può prescindere.

E' tutto un complesso di cose che lo rende così unico. E così simpatico. Assai.
Mi piace che dica che non sia colto. Che mangi il minestrone e il bollito nella sua camera d'albergo, pur essendo in tournée all'estero.
Ed è troppo, troppo nostalgico (alla sua maniera) quando racconta dei suoi inizi, della povertà e del dilettantismo con cui lui e i suoi amici si buttavano a fare jazz.

Mi verrebbe da abbracciarlo per quanto scrive sull'essere snob (non lui) e l'essere dandy (avere il culto della bellezza profonda, lui).
E per Maigret, per Camilleri e pure per il giallo svedese di Mankell (quest'ultimo in verità da me scoperto solo per via dei telefilm che gli sono stati tributati in patria con un fantastico attore, perfetta incarnazione dell'anti-eroe).

Dovrò rileggerlo, questo libro: perché, pur essendo godibilissimo, contiene talmente tanto (che fa pure assonanza enigmistica, cosa che l'avvocato capirebbe e perdonerebbe, spero) l'universo contiano da meritare di essere mandato a memoria da noi adepti grati e piccini.

C'è tanto di Parigi e di Asti, nel suo universo. E dell'esotismo non salgariano ma quasi, delle palme e bambù delle origini.
Adesso, alla vigilia dei suoi primi magnifici 79 anni, il Conte nazionale conosce abbastanza il mondo, ma a volte a me sembra, e le sue parole raccolte me lo confermano, che non abbia mai lasciato la sua cittadina di provincia.

Solo un provinciale poteva mettere a fuoco (cinematograficamente parlando) così bene quella nutrita schiera di persone senza importanza che caratterizza molte delle sue canzoni.
Solo un uomo cresciuto con la campagna a due passi poteva imparare, crescendo, a nutrire un così attento amore per i particolari.

Peccato che io non sia una musicista, perché se avessi basi in quel mondo, nel suo mondo, potrei capire ancora meglio come mai dice di amare Franck, da Conte considerato un anticipatore del Novecento, il suo secolo di riferimento, quello che gli ha indotto una tale "confusione mentale" (pronunciato alla francese) da spingerlo poi sulla via del jazz e dello swing, che in verità è un qualcosa che non si spiega, e che anzi, pare, gli scorra direttamente nelle vene.

Il libro ha peraltro confermato alcune delle mie scoperte recenti, ossia i legami tra la sua musica e quella di Ellington e anche di Armstrong, da Conte amatissimo.

Non sapendo, tuttavia, nulla o quasi del jazz degli anni Venti, posso solo credergli sulla parola quando si sofferma sulle differenze tra quel periodo e i decenni successivi.
Cita però Jelly Roll Morton, che ho ascoltato e apprezzato, o un tale (per me!) Tricky Sam, asso del trombone, al quale il Maestro si sarebbe ispirato.

Sapevo del suo desiderio di essere interpretato da Charles Aznavour, ma non che sarebbe stato contento se avesse scritto lui Ma l'amore no, di Giovanni D'Anzi.

Che l'habanera e il fandango fossero pasta per le sue note si capiva, ma non immaginavo che la mamma gli facesse ascoltare i tanghi tedeschi (esistono tanghi tedeschi?).

Della mamma parla anche in un'altra occasione, verso la fine, quando racconta di averle fatto ascoltare Celentano che interpretava Azzurro. Lei pianse e io con il suo ricordo.

Che cos'altro posso aggiungere, a parte il consiglio, accaloratissimo, di leggerlo se siete contiani come me  (i neofiti potrebbero aver bisogno di qualche ripetizione, a mio personalissimo avviso)?

Solo questo.
Per me, Paolo Conte è un uomo dolce, di una dolcezza che solo i veri uomini non nascondono di avere. Tanto più andando avanti con gli anni, quando si acquisisce il senso, come lui stesso dice, del durante.

Da giovane, spiega, non vedeva l'ora di farsi una bella doccia calda dopo una partita, di cenare con i suoi musicisti, dopo un concerto. Adesso gli importa solo di essere lì, a pestare di note il piano (o il vibrafono e il kazoo), felice se qualcuno lo segue o lo applaude con la foga che si destina agli acrobati e ai clown.

Pur essendo molto più giovane di lui, mi riconosco alla perfezione nelle sue parole.
Non le ho assolutamente fatte mie, nella quotidianità, ma, davvero, vorrei arrivare a un tale grado di riconoscenza nei confronti della vita da non nutrire più nient'altro che la gioia di essere, di esserci, su questa dannata terra.

Peccato che il Conte preferisca le brune, dimenticavo.
Ma, del resto, per me lui è un Maestro dell'anima, mica un immaginario amante.

E poi, se devo proprio dirlo, preferisco i bruni pure io.

Grazie a Massimo Cotto per il suo libro.
Rosico un cicinin per non essere entrata tra quelli da cui ha attinto per i suoi testi (il mio pezzo è uscito negli stessi giorni in cui c'era su Io Donna l'intervista della mia conoscente, bravissima, Giulia Calligaro, riportata nella bibliografia).

Ma cosa importa?
La fama non dura.

La musica del Maestro, sì.

martedì 14 gennaio 2014

Ninotchka e il fascino del cinema senza tempo


 
Credo di averne già parlato da qualche parte. Se l'ho fatto, beh, scusatemi (siete così pochi a seguirmi che se ne ho parlato, ve ne sarete sicuramente accorti).
In tutti i modi, ieri ho visto per la prima volta sul grande schermo Ninotchka, uno dei miei film maggiormente amati. Non so in effetti scegliere tra la pellicola passata alla storia per "la Garbo che ride" o l'altra, altrettanto perfetta, di Ernst Lubitsch che cito spesso senza quasi accorgermene. Sto parlando di "Scrivimi fermo posta", in inglese, più appropriatamente, The shop around the corner (il negozio dietro l'angolo, per i pochi non anglofoni rimasti).
 
Non ho quasi mai letto i sottotitoli in italiano, ma devo precisare che la perizia linguistica appena rivendicata in verità è stata di gran lunga sostenuta dal fatto che conosco il film a memoria, praticamente.
Anzi: lo conosco talmente bene che mi sono accorta persino degli errori nei sottotitoli che ogni tanto ho sbirciato (quando parlava la "granduchess Swana", per dire, non capivo quasi una mazza. Perdonatemi l'italianismo non troppo educato).
 
Capisco che la lingua si evolva e che debba adattarsi ai mutamenti dei costumi, però, per farvi un solo esempio, era proprio necessario sostituire la più musicale e francese parola "verve" con finezza, che non è proprio la stessa cosa?  
 
Mi riferisco a quando la granduchessa Swana incontra Ninotchka e Leon insieme e attacca a parlare a macchinetta (ed è lì che non ho capito assai) del cagnolino che lui le ha regalato.
A un certo punto si rivolge alla bella bolscevica scusandosi falsamente di fare discorsi che lei non può sicuramente capire. Ninotchka, invece, ricambiandola di altrettanto falsa cortesia, la rassicura: ha capito proprio tutto.
Allora Swana, teatralmente, sospira: "Oh mio dio, sto perdendo la mia verve". Così nel doppiaggio degli anni Quaranta (o Cinquanta, non più tardi, comunque), che mi ha da sempre conquistato.
 
La voce della Garbo era infatti affidata ad Andreina Pagnani, che ho imparato a conoscere puntata dopo puntata nei Maigret con Gino Cervi, per aver interpretato la fedele moglie Louise.
Una voce bellissima, dolce e profonda insieme. Il mio ideale di voce femminile.
 
E insomma. Le voci autentiche di Greta e Melvin (Douglas) sono altrettanto affascinanti e mi hanno fatto letteralmente impazzire nelle scene successive al teso incontro con la granduchessa, quando, ubriachi, fanno ritorno in hotel.
Che recitazione, accidenti.
 
Prima del film, che ho visto (a proposito) alla Sala degli Artisti di Fermo, che ha organizzato un cineforum lungo un anno intero con le pellicole presentate all'ultima Rassegna di Bologna nota come "Il Cinema Ritrovato", ho scoperto, ascoltando l'introduzione, che l'attrice di origine svedese smise di recitare due anni dopo Ninotchka per via del flop subito dal film successivo. 
 
Chissà se non c'erano anche altre ragioni, considerato tra l'altro che in molti Paesi la pellicola, uscita nel 1939, venne vista solo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, come è stato specificato sempre prima della proiezione.
 
Magari era stanca, magari una diva abituata a stare sulla ribalta per molti anni finisce per non sopportare neanche il più piccolo stop. In fondo, succede anche oggi. Soltanto che di stelle così non ce ne sono poi molte.
Non voglio fare la passatista, eh, però capolavori così moderni e insieme senza tempo non nascono tutti i giorni.
 
Vi lascio con la scena dell'incontro tra il sergente Yacushova e il borghese Leon sul marciapiede parigino: ho ritrovato il suono dei clacson in un brano di Jelly Roll Morton chiamato Sidewalk Blues. Quest'ultimo, a sua volta, mi ha fatto troppo pensare al kazoo di Paolo Conte, che ama moltissimo il Jazz degli anni Venti e Trenta (e si sente tanto nella sua musica). Non potete immaginare che soddisfazione mi dia fare questo tipo di collegamenti: per trovarne altri, probabilmente, mi ci vorrà tutta la vita.
 
E meno male.
Prima di lasciarvi al video, aggiungo un'ultima preghiera: se potete, andate a vedere Ninotchka e altri film così grandi al cinema.
Avrete anche dei tv iper-ultra tecnogici, ma le luci che si smorzano in sala e persino i colpi di tosse dei vicini (e qualche dannatissimo cellulare che ogni tanto squilla ancora: ma li mortacci...), vi regaleranno tutt'un'altra profondità. Buona visione!