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martedì 9 gennaio 2018

Vitaliano Trevisan parte seconda: risposta (scritta) alla domanda di un amico

Come pensi si debba reagire di fronte a un cambiamento lavorativo? Cosa ti ha lasciato il fatto di aver dovuto affrontare nuove situazioni, conoscere nuovi colleghi, etc?



La domanda in corsivo mi è stata fatta via Whatsapp da un amico che mi ha onorato della lettura del post precedente sul libro di Vitaliano Trevisan.

Con mia grande sorpresa, mi ha spiazzata: e mo' che gli rispondo?, mi sono detta.
Per prendere tempo, gli ho chiesto di mandarmi la sua mail: ho bisogno di "nascondermi" dietro le parole scritte, ho precisato.

E' davvero difficile dire qualcosa di univoco. Spero almeno di riuscire a essere chiara.

Dunque, cominciamo.

Parto dagli stage, per definizione destinati a concludersi in tempi più e meno rapidi.
Nelle aziende più grandi (la più grande per definizione nel settore pubblico della tv, per capirsi) mi vedevo talmente ragazzina professionalmente parlando, da non aver mai neanche per un momento pensato che quello sarebbe stato il mio futuro luogo di lavoro. Accomiatarsi alla fine, perciò, è stata più una festa di fine anno scolastico che altro. Poco tempo fa, tra l'altro, ho ritrovato le foto che avevo scattato l'ultimo giorno ai colleghi, alle cui scrivanie (com'è successo in tutti i successivi stage che ho fatto dopo) mi alternavo in coincidenza con le loro ferie. Che bella esperienza e che ambiente rilassato, almeno all'epoca.

Un po' diverso è diventato il mio atteggiamento con i primi contratti di collaborazione fino alla sostituzione di maternità nel giornale economico più importante d'Italia, vissuta, francamente, non al massimo della mia lucidità.

Lì chiudere non è stato affatto semplice (mi ricordo i pianti e la scatola con i pochi effetti personali che ho dovuto portare via con me), anche se a distanza di tempo ho fatto pace innanzitutto con me stessa per l'incauta scelta di andarmene dalla città.

Poi sono venuti i primi tre anni marchigiani, partiti, romanticamente, benissimo. Lo strappo finale è stato duro, molto duro, e mi ci è voluto del tempo per abituarmi alla solitudine di una casa non mia, a pochi passi da una piazza addormentata nella nebbia, a svolgere un lavoro a distanza, parlando quasi tutti i giorni con gente che abitava, guarda caso, proprio nella città che tanto mi era parsa ostile. Era strano non incontrarsi, ma con il tempo, però, finisci per abituarti al silenzio e anche all'indipendenza che ti regala l'assenza di subordinazione.

Quel lavoro è finito poco alla volta, come un paziente terminale che man mano se ne va. Ed è coinciso, in effetti, con la malattia di mia mamma, per cui, sinceramente, non ne ho avvertito più di tanto la conclusione definitiva.

Poi sono sbarcata a Lu Portu, con un'energia e un'incoscienza forse tipiche dei cani che viaggiano da troppo tempo a briglia sciolta.

Le chiusure degli ultimi tempi non sono state, quindi, granché dolorose, perché via via ho finito per considerare normale che qualcosa finisca (soprattutto quando non si crede che valga la pena proseguire), con tutto quello che comporta in termini di relazioni umane che saltano. Di qualcuna sento la mancanza, ma è meglio andarsene nutrendo un sentimento positivo piuttosto che arrivare a non sopportarsi più.

Sia che si scelga di andarsene, ma anche in caso contrario, resta però latente un certo sapore amaro, che non so dire se sia senso di colpa o una sottile forma di auto commiserazione, ma dura poco: giorni, settimane, al massimo pochi mesi. Almeno, finora è stato sempre così.

In tutto questo gran peregrinare disordinato, ho comunque fatto chiarezza su quello che mi aspetto da un lavoro e mi pare già un grande risultato. 

Rimando alla prossima domanda del mio amico (se mai avrà il coraggio di farmela) la spiegazione della precedente frase (una persona disoccupata è bene che tenga un basso profilo: non si sa mai che si giochi qualche buona occasione di lavoro), però davvero lo ringrazio di avermi dato l'occasione di tornare sulle riflessioni scatenate dalla lettura del bel libro di Trevisan.