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giovedì 23 ottobre 2014

Affidarsi alla vita, oltre il dolore: parola di Simona Atzori




A un certo punto bisogna lasciarsi andare alla vita, che racchiude anche la morte, inevitabilmente.
Sono certa che mia mamma sarebbe stata d'accordo.
Spero un giorno di riuscire ad andare oltre la rabbia che ancora, a tratti, mi fa vibrare.

Conoscere, seppur solo virtualmente, Simona Atzori è stato in ogni caso un bel dono.
Prima di parlarci era un po' sospettosa: come si fa a condividere una perdita così, mi domandavo.
E invece, parlandoci e vedendola negli incontri pubblici caricati in Rete (oltre che guardandola ballare), mi sono resa conto che la sua è un'energia autentica.

Ognuno ha la sua, come Simona sa perfettamente, ed è proprio il rispetto in se stessi che la ballerina-coreografa orfana della mamma che ha contribuito a renderla ancora più in gamba di quanto, forse, non sarebbe stata comunque, riesce a suscitare in chi la ascolta.

Non sapevo che cosa fosse il coaching motivazionale: quello che pratica lei, ad ogni modo, mi piace.

Il mio grazie è insomma sincero, più di quanto possa sembrare dall'intervista, per forza di cose dal tono un po' più istituzionale di quello che adopero qui.

Finché abbiamo sangue pulsante non rinunciamo a vivere. Chi se n'è già andato non ce lo perdonerebbe mai.
Supererò la rabbia.
O comunque la incanalerò in qualcosa di positivo.

Buoni giorni, amici.

lunedì 23 aprile 2012

Motivatori da bar? No, grazie



"Non lasciate nulla al caso, l'improvvisazione ormai non paga più".
Parole sante. Veramente.
A maggior ragione, perciò, mi domando perché si trovino sul biglietto da visita di una delle persone meno affidabili mai conosciute da "The Sfaccendatis'" negli ultimi mesi.
E tuttavia, se stamattina, rovistando tra le mie cianfrusaglie, mi si è nuovamente parato davanti questo cartoncino di formato rettangolare (scritto solo da un lato: perché chi gliel'ha stampato sicuramente è un maestro nell'arte grafica), una ragione dev'esserci.
Anche ammettendo che sia vecchio, dei tre siti riportati sul medesimo, non ne funzionava neanche uno.
Per risalire al curriculum di un così stimato professionista del "training by doing" (cit), ho dovuto googolarne il nome. Dopo qualche tentativo, eccolo là, sullo scoglio e la camicia mossa dalla brezza marina.
Niente da dire sul fatto che in qualche modo si debba campare, ma trovo davvero deprimente chi finge di essere ciò che non è.
In quell'anonimo bar della costa adriatica, in una tiepida giornata di fine autunno, sotto una luce lattiginosa, sarei voluta sprofondare al posto suo. Si era portato dietro anche il povero fratello tossicodipendente (o qualcosa del genere), chiaramente poco interessato al pietoso tentativo di blandizie destinato più a Sfaccendato che non alla sottoscritta.
Si trattava del secondo dei due incontri avuti con il professionista nella "FormAzione alla Vendita e Gestione Reti Commerciali" (cit/2), quando noi speravamo che si parlasse di un progetto di piccola impresa in cui avevamo cominciato a crederci, dopo vari, comprensibili, tentennamenti. Invece, rigettandoci la proposta (anche a nome di una terza persona che non ha avuto neanche il coraggio di dircelo in faccia), il professionista del coaching, il motivatore de noantri voleva convincervi a organizzare improbabili convegni-strappalacrime, a beneficio dei molti disgraziati dalla psiche ferita, bisognosi di sostegni psicologici che di certo né lui né tanto meno noi saremmo stati in grado di fornire.
Mai chiacchierata di cosiddetto lavoro è stata più imbarazzante.
E devo dire che tra i due proprio Sfaccendato è stato più capace di dissimulare, ossia proprio la persona che di solito giudico troppo polemica e troppo negativa.
Io, invece, ho perso un pochino le staffe, giusto quel tanto che è bastato per sentirmi rispondere, con tono vagamente piccato, "ma se stai a casa di sicuro il lavoro non lo trovi". E non c'è niente di peggio dei consigli o delle sentenze non richieste.
Tornando a casa con lo squallore nell'animo e la tristezza nelle membra, siamo per fortuna riusciti a scherzarci su.
"Sai quanti soldi ci facciamo, eh, con mio fratello nel gabbione", ha continuato a dirmi per varie settimane Sfaccendato man per prendere per il ... sedere (mi verrebbe l'altra, ma voglio evitare il turpiloquio) mister Coacher. Non credo che potrò mai dimenticare l'espressione del suo viso, così tristemente disperata, e ancor più quella, robotica, del fratello sfortunato. Di più, mi è rimasto in testa l'ammiccamento che faceva con la bocca e l'occhiolino da imbonitore anni Settanta, abituato a trucchi che ormai non vanno più, polverosi e giallastri come i divani in simil-pelle.
E d'altra parte, comprendo l'antipatia che devo avergli suscitato, con la mia spocchia da maestrina pronta ad annotare con la matita rossoblu le maiuscole in eccesso o gli altri obbrobri linguistici e stilistici del suo modo di presentarsi. Giustamente si sarà detto: ma chi ti credi di essere tu, inutile Carneade dell'editoria?
Tutto vero: non conto nulla. Anzi, come mi dice Marco Pesatori,  il lettore di astri di D di Repubblica, io sono "un'infinità di nulla in cui le persone normali fanno fatica ad adattarsi".
Che vorrà dire non lo so, ma se proprio devo vendere fumo, sarà bene che cominci a farlo in prima persona. Anche perché, se mi facessi convincere da personaggi così, significherebbe che, ormai, la schizofrenia astrologica che mi è stata attribuita a questo giro di oroscopo avrebbe avuto la meglio.
Invece, io, testarda come un mulo puntuto, non voglio ancora arrendermi.
Giuro che resisterò: parola di Sfaccendata-autocoacher.
Tiè!