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martedì 5 giugno 2018

Muoversi Insieme... a Coatesa, da Luciana e Paolo!

Alla fine ce l'abbiamo fatta, almeno in parte. Sto parlando di alcuni dei membri del comitato scientifico che ha animato per anni il sito di un'azienda dedicato agli anziani e alle persone disabili, parlando davvero di tutto. Da loro ho imparato molte cose che ancora adesso porto con me.

Mi dispiace per chi non è potuto venire, ma d'altra parte non era facile ritrovarsi tutti il 2 giugno, giorno della data prefissata per la nostra reunion sul lago di Como, a casa di Luciana e Paolo, un vero e proprio luogo dell'anima da loro ribattezzato Amaltea.

Non credo sia il caso di aggiungere ulteriori parole al resoconto visivo (e musicale... grazie doppio, Paolo!) che ho voluto preparare in luogo del classico scritto "internettiano", come lo chiamerebbe il padrone di casa.

Vi rimando ai suoi blog per conoscere meglio Coatesa, frazione di Nesso, e la casa con un giardino terrazzato immenso, raccontato stagione dopo stagione dal nostro sociologo, con una passione dalla quale è impossibile restare immuni.

Che altro dire?

Grazie per la bellissima esperienza e a presto... magari sul lago d'Iseo!

Buona visione a tutti, amici vicini e lontani.



 

lunedì 11 maggio 2015

Mark Knopfler: da Madamatap a... Muoversi Insieme!




Orgogliosa di farvelo sapere: ho proposto ai miei committenti un pezzo su Tracker, l'ultimo lavoro del mio amato Mark Knopfler e loro l'hanno accettato.
Perciò eccovelo qui sotto forma di link.

Sopra, invece, una sua recente apparizione alla crucca Radio Bremen. Detto tra noi, accidenti come parla veloce la tedesca!! E del resto lavora in una radio, mica in un monastero Zen.

Buona lettura, ascolto etc etc.

giovedì 7 maggio 2015

Mario Dondero e l'arte di vivere in "Calma e gesso", il documentario di Marco Cruciani

Mario Dondero e i gestori dell'Enoteca di Fermo, 25 aprile 2014
Ho scattato la fotografia che vedete sopra in una fortunata giornata dell'anno scorso: l'ultima prima di un mese e mezzo durissimo.
Di quel pranzo improvvisato devo ringraziare ancora molto, a distanza di oltre dodici mesi, Laura Strappa, la compagna di Mario Dondero, il grande fotoreporter genovese-milanese che ho conosciuto ormai cinque anni fa a Fermo, in occasione di una memorabile intervista (memorabile per me, naturalmente: chiunque abbia incontrato Mario, anche solo per cinque minuti, sa di che cosa parlo).

Parto da questo ricordo biografico giusto per darvi un'idea della commozione che ho provato ieri sera guardando Calma e gesso, il documentario che Marco Cruciani ha dedicato al grande fotografo, presentato ieri sera alla Sala degli Artisti di Fermo in anteprima assoluta, in occasione - non so se casuale o voluta - del suo ottantasettesimo compleanno.

Dopo una breve (e visibilmente emozionata) presentazione da parte dell'autore, sullo schermo del bel cinema fermano sono seguite due e ore e un quarto di inseguimenti compiuti dal regista nell'arco di ben cinque anni.
Finanziato, almeno in partenza, con un fondo della Regione Marche per il cinema, il film è stato ultimato - come racconta il medesimo regista in un'intervista a Today - grazie al crowdfunding, una moderna ma in verità antichissima forma di autofinanziamento che dovrebbe - si spera - permettere al suo ottimo lavoro di lasciare il nido marchigiano e toccare le principali piazze italiane e straniere, almeno tutte quelle in cui Mario ha lasciato la sua indelebile impronta, come si vede bene nel film, ossia, tra le altre, Genova, Milano, Parigi, Bologna e Locarno.

Una vita donderoad, rubando il neologismo a uno dei molti libri tributo che gli sono stati dedicati, a partire da quel primo, pericoloso viaggio in Val d'Ossola, dove, appena sedicenne, Mario ha fatto il partigiano di città (come racconta lui stesso nel film), non la staffetta, precisa, perché non conosceva i sentieri come i ragazzi del posto.

Da quel momento, la sua certamente genetica capacità di entrare in empatia con gli altri si è impastata di una sorta di comunismo di formazione che si potrebbe definire romantico: forte di questo sentimento appassionato oltre che di un bagaglio culturale non trascurabile, Mario è stato spinto in età già non più verde a ripercorrere i luoghi calcati da Robert Capa ai tempi della Guerra civile di Spagna del 1936, sulle tracce del miliziano ritratto dal reporter americano.

Per quale motivo l'ha fatto, direte voi. Per dimostrare - come racconta il documentario - che il famoso scatto di Capa, quello in cui si vede un giovane uomo in tenuta militare, le braccia spalancate e il fucile in una mano, che pare saltare ma che in realtà sta per cadere a terra colpito a morte, era autentico, non una ricostruzione effettuata a tavolino dal fondatore dell'agenzia Magnum.
A quella vicenda era dedicata un suo reportage uscito su Diario - mostra sempre il documentario - e una mostra in Sardegna, un altro dei luoghi amatissimi dal fotoreporter.

Molto forte è, dicevamo, l'impronta lasciata da Mario su Locarno, luogo nel quale si è voluto ripercorrere il suo fondamentale periodo francese, come sanno tutti quelli che hanno visto - magari sui libri di scuola - lo storico scatto al gruppo di intellettuali parigini passato alla storia come gli esponenti del cosiddetto Nouveau Roman.

Genova è, ancora, un altro luogo che gli ha voluto rendere omaggio, con una retrospettiva che Mario afferma di aver sempre desiderato: sorride contento di sapersi sulla parete del Palazzo Ducale in una gigantografia di uno dei suoi più celebri scatti, si vede sempre nel film.
Don Andrea Gallo (scomparso nel 2013), poi, offre sul fotoreporter, che nella città ligure ha passato vari anni soprattutto dell'infanzia, uno dei giudizi più emblematici contenuto nel racconto per immagini di Cruciani: "Un quinto evangelista portatore di un messaggio di speranza", lo definisce. Il tutto detto senza un filo di retorica.

Analoga è l'impressione che ha Vinicio Capossela che, dallo schermo del cinema, di Mario loda la sua capacità di "valorizzare tutti".
Ed è esattamente questo il motivo per cui ieri sera, come in molte altre occasioni in cui si sapeva che, forse, prima o poi, uno dei principali protagonisti degli anni d'oro del Jamaica, il mitologico bar di Brera a Milano, sarebbe apparso, eravamo così tanti a sentirlo cantare versioni differenti di Bella ciao, pezzetti da Luigi Tenco e altre canzoni che - ahimè - la sottoscritta non conosceva.

Mario è un dispensatore di dignità, una dote che va ben oltre il suo immenso, disordinato e insostituibile archivio di fotografie. Un patrimonio che molti suoi amici stanno cercando tuttora di sistemare, perché non ne vada disperso neanche un frammento.

Bellissimi davvero, tra gli altri momenti del film, quelli in cui noi spettatori siamo stati condotti nello studio fotografico del suo amico romano (purtroppo me n'è sfuggito il nome) che l'ha aiutato a più riprese a stampare e catalogare scatti da Mario dimenticati chissà dove; e altrettanto emozionanti sono i passaggi dedicati all'altro gruppo, quello della Fototeca provinciale di Fermo, in cui si vedono volti esausti - compreso quello del nostro eroe - che tentano di organizzare migliaia di diapositive scrutandole con un ingranditore, sotto la luce fioca di una lampada da scrivania.

Quante nottate avranno passato così, quanti discorsi, quante cene, quanto vino bevuto tutti insieme.

Mario è questo e molto altro, come sa - presumo - anche Marco Cruciani, al quale va il grande merito di aver creduto nel suo progetto, sentendo che andava fatto (come afferma nell'intervista che ho già citato), oltre ogni ragionevolezza.
Agendo così, a mio modestissimo avviso, il regista ha interpretato alla perfezione lo spirito dell'uomo,  ben più di un fotografo, ben più di un giornalista, come dicono in molti anche nel documentario.

L'ultima volta che ho incontrato Mario è stato sul pullman Fermo-Porto San Giorgio: era estate, quella di un anno fa. L'ho accompagnato a sistemare il suo orologio, in un affascinante negozietto dall'insegna gialla. Quando entri lì dentro, senti una calma speciale, scandita dal ticchettìo di svariati pendoli alle pareti e dalla radio (la Rai, di solito) in sottofondo.

Ha preso un gelato, dopo, se non ricordo male, e io un caffè. "Perdere la mamma è un colpo durissimo", mi ha detto. Già, Mario. Sarà per questo che uno dei ritratti che più mi piacciono, tra le tante foto che ho imparato a scoprire negli anni, è quella in cui si vede Pier Paolo Pasolini in primo piano, un po' di sguincio, e sullo sfondo, nella stessa posa, sua madre.

Adesso che ci penso, ci siamo incontrati di nuovo forse a inizio autunno. Sono andata come sempre io a rompergli le balle: leggeva come sempre un quotidiano, seduto su una delle panchine di piazza del Popolo, qui a Fermo. Si sentiva stanco, ma niente l'avrebbe tenuto un altro giorno di più imprigionato in una casa o, peggio, in un ospedale.

Se c'è una cosa che ho imparato semplicemente guardandolo è che a vivere non s'impara se non vivendo.
E lui ha vissuto.
E se davvero non avrò più modo di incontrarlo, posso dirmi davvero fortunata per averlo almeno incrociato.

Calma e gesso verrà proiettato questo fine settimana in vari orari alla Sala degli Artisti: chi può vada a vederlo. E soprattutto viva. Come cercherò di non dimenticarmi mai più.

Arrivederci, Mario.

giovedì 23 ottobre 2014

Affidarsi alla vita, oltre il dolore: parola di Simona Atzori




A un certo punto bisogna lasciarsi andare alla vita, che racchiude anche la morte, inevitabilmente.
Sono certa che mia mamma sarebbe stata d'accordo.
Spero un giorno di riuscire ad andare oltre la rabbia che ancora, a tratti, mi fa vibrare.

Conoscere, seppur solo virtualmente, Simona Atzori è stato in ogni caso un bel dono.
Prima di parlarci era un po' sospettosa: come si fa a condividere una perdita così, mi domandavo.
E invece, parlandoci e vedendola negli incontri pubblici caricati in Rete (oltre che guardandola ballare), mi sono resa conto che la sua è un'energia autentica.

Ognuno ha la sua, come Simona sa perfettamente, ed è proprio il rispetto in se stessi che la ballerina-coreografa orfana della mamma che ha contribuito a renderla ancora più in gamba di quanto, forse, non sarebbe stata comunque, riesce a suscitare in chi la ascolta.

Non sapevo che cosa fosse il coaching motivazionale: quello che pratica lei, ad ogni modo, mi piace.

Il mio grazie è insomma sincero, più di quanto possa sembrare dall'intervista, per forza di cose dal tono un po' più istituzionale di quello che adopero qui.

Finché abbiamo sangue pulsante non rinunciamo a vivere. Chi se n'è già andato non ce lo perdonerebbe mai.
Supererò la rabbia.
O comunque la incanalerò in qualcosa di positivo.

Buoni giorni, amici.

lunedì 6 agosto 2012

Vite felici, speranza per chi vuole crederci ancora



I due alberi che vedete in alto sono nati a Milano, per la precisione in zona Porta Venezia, probabilmente all'interno del parco comunale. Poi, grazie alle amorevoli cure di Giorgio Blandino, la persona più rasserenante che abbia mai conosciuto, sono diventati alti e forti nelle campagne di Grottazzolina, un paese dell'entroterra fermano a pochi chilometri dal capoluogo di provincia (ebbene sì: per chi lo ignorasse, Fermo fa provincia e ha una targa che sembra una radio. Battutona, lo so).
E' stato Giorgio in persona a raccontarmi l'aneddoto durante l'intervista cui si è molto entusiasticamente sottoposto, dal momento che verteva sull'argomento che più di tutti l'appassiona: la terra. 
Del resto, se ho scelto proprio lui come uno dei protagonisti della doppia intervista che ho realizzato per Muoversi Insieme, è stato per via di alcuni aneddoti che già mi aveva narrato sulla sua campagna. 
Non conoscevo però dettagli come questo e come quello che ho riportato nel testo ufficiale, ossia che avesse invasato i semi dei due esemplari arborei (un platano e un ippocastano) sul davanzale del suo appartamento milanese; né sapevo che da bambino andasse a raccogliere le carrube scartate. Mentre parlava, anzi, mi ha fatto letteralmente vedere lui piccolo e i suoi amichetti piegati dal peso del grosso sacco riempito in luoghi in cui i piccini di oggi non sarebbero mai mandati da soli. 
Insomma, era forse destino che Giorgio tornasse alla terra e avesse la possibilità di farne la sua vera ragione di vita, i figli ormai grandi e una pensione sicura. 
Ad aiutarlo e sostenerlo, c'è sua moglie Guglielmina, nata nella terra che oggi coltiva Giorgio e abile realizzatrice di ricette siculo-marchigiane "vieppiù" (concedetemi la locuzione demodè) succulente proprio per via degli ingredienti genuini ottenuti nel piccolo appezzamento (piccolo si fa per dire: visto che si tratta di quattro ettari).
Insomma, come direbbe il mio amico Paolo Ferrario, Guglielmina e Giorgio sono riusciti a costruirsi una vita e oggi, giustamente, sono felici di mostrarla agli altri, anche quando ne parlano non con questo preciso obiettivo. Chi è felice, in altri termini, si vede e non ha bisogno di sbracciarsi per farlo sapere. 
Ecco. Esperienze come la loro e come quella del medesimo Paolo e di sua moglie Luciana sono bellissimi e credo che bisognerebbe attaccarvisi il più possibile per non perdere la speranza che qualcosa di simile, di certo a un'età più avanzata di quanto non sia successo a loro, possa un domani capitare anche a noi. 
Che lo faccia consapevolmente o meno, in ogni caso mi capita sempre più spesso di orientarmi verso le cosiddette good news. Per contro, seguo la cronaca sempre più raramente. 
Sarà che sono già entrata in una fase della vita in cui non ho più il diritto di perdere tempo. Meno che mai di farmi, vittimisticamente, del male. Perciò ancora grazie, amici con qualche anno in più sulle spalle, per la vostra energia, i vostri prodotti (non dimenticherò mai il rosmarino selvatico di Amaltea) e per il rispetto con cui ci trattate. Un rispetto di cui abbiamo bisogno come la luce che ha reso forti il platano e l'ippocastano emigrati nelle verdi colline marchigiane.