Teatro di Porto San Giorgio, 2 febbraio 2018, foto di Ennio Brilli
Ho ricevuto questa fotografia qualche giorno fa da Elisa Ravanesi, l'attrice di Porto San Giorgio che mi ha coinvolta lo scorso febbraio nella serata in teatro dedicata a José Greco senior, il padre della danza spagnola mondiale. A scattarla, è stato Ennio Brilli, un fotografo di Fermo di cui ho parlato qualche volta su Minime Storie, l'altro mio piccolo blog che non aggiorno ormai da tempo immemorabile.
Stasera m'ha preso una botta di narcisismo, per cui eccomi qui, a farmi guardare, con gli occhi che vorrete.
Ho un bel ricordo di quella serata, la mia prima volta nelle vesti di conduttrice di uno spettacolo di danza e teatro, a stretto contatto con due dei figli del grande ballerino di origine molisana, José junior e Lola, e gli altri protagonisti di un bel viaggio nella musica, il cinema, la cultura e la storia del Novecento (parlo di Hermana Mandelli, Juan Lorenzo, Valeria Clementes, Cristiana Merendi ed Elisa Perticarà).
In questa foto, però, i veri protagonisti della serata non compaiono, mentre solo qualche minuto fa ho realizzato che sembra invece che io stia cantando.
Mai scatto è stato più profetico? Chi può dirlo, a parte la sottoscritta e Giorgia Pulcini, la mia giovane insegnante di canto che ha raccolto il testimone da un'altrettanto affascinante sua collega, Anna Laura Alvear Calderon, che dal maggio dello scorso anno fino a Natale o poco più si è sciroppata i miei tentativi di farmi esplodere finalmente la voce in gola.
Sono, ve lo confesso, pure io stupita di come mi stia buttando a tirar fuori tutto il fiato che ho soprattutto da un po' di incontri a questa parte. E' come se non me ne fregasse più nulla, delle figuracce che vado facendo, innanzitutto, ma in generale di tutto.
A che serve fare i ritrosi, mi sto chiedendo, non so quanto consciamente.
Poi, certo, i risultati sono altalenanti: è come se stessi imparando a scrivere in un'altra lingua, quindi incertezze e svarioni sono lì che non mi mollano.
Però oggi, quando Giorgia mi ha illustrato un modo per dare più espressività a parole e versi, mi sono sentita felice come una poppante: quante cose sto scoprendo sul canto!
Uscendo da lì, intendo dire dall'aula del Cantiere Musicale, la scuola diretta dal batterista Michele Sperandio che ho conosciuto (e intervistato) l'anno scorso, rimanendo molto colpita dal grande entusiasmo che ci mette in tutti i progetti che intraprende, di solito sono stanchissima e al contempo più carica.
In macchina oso pure parecchi acuti. Incredibile a dirsi per una che ha sempre temuto di non riuscire a farsi sentire.
E insomma: strane cose accadono, anche in età non più verde, ed è una grande conquista tornare a percepirsi comunque in evoluzione.
E poi chissà che un domani qualcuno non si impietosisca e mi butti là qualche moneta.
Non avevo notato gli occhi azzurri di James Taylor: nella copertina di Mud Slide Slim che vedete qui sopra non si vedono.
Sarà per questo che non avevo idea di quanto fossero profondi e mobili, specchio esatto della sua vita, raccontata magistralmente in un articolo che ho scovato navigando qualche giorno fa.
L'occasione per approfondire chi si nascondesse (o svelasse, a seconda dei punti di vista) dietro l'autore di pezzi memorabili come quello che riporto sopra mi è stata offerta da un gioco di Facebook in cui mi si chiedeva di elencare i 10 album della vita, intesi come quelli che sono ancora nella mia playlist nonostante lo scorrere del tempo.
Tolti quelli del Maestro (l'avvocato astigiano baffuto: per i pochi conoscenti che ancora non lo sanno si tratta naturalmente di Paolo Conte), ci ho dovuto ragionare un po'.
Ed è così che ho ripensato a James Taylor e alla sua inconfondibile voce nasale, che mi parla ancora. Anzi: forse mi parla di più adesso di prima.
Ho riascoltato Mud Slide Slim un pomeriggio di qualche settimana fa mentre stiravo, ritrovandomi piacevolmente a cantare una dopo l'altra le canzoni che lo compongono.
L'album è uscito, chissà quanto casualmente, nel 1971, e mi ha sempre trasmesso armonia e insieme apertura, come i paesaggi americani che sogno di vedere prima o poi di persona.
Ne fa parte anche You've got a friend, il pezzo che gli scrisse Carole King e che io ho conosciuto proprio nella versione proposta da Taylor.
Ringraziandolo idealmente per la bellissima ora di amarcord, sono andata così a leggermi qualcosa sulla sua vita ed è stato lì che ho realizzato che grande personaggio sia questo musicista californiano, transitato da Londra nel 1968 (leggetevi l'articolo linkato sopra, ve lo consiglio caldamente).
Ai tempi di Mud Slide Slim e di Carolina in my mind, Fire and Rain, etc etc, Taylor si drogava e ha continuato a farlo fino al 1983.
So che era piuttosto diffuso nella sua generazione e che in generale le sostanze stupefacenti siano comuni tra gli artisti. Però il contrasto tra la grazia delle sue composizioni e la sofferenza che deve averlo attraversato mi è sembrato molto forte.
Nelle interviste più recenti parla spesso della sua dipendenza della giovinezza e anche in questa intervista dice chiaramente di sentirsi un miracolato, considerati i molti amici e colleghi morti invece prematuramente.
Mi piace però anche la sincerità con la quale ammette il potere seduttivo della droga, oltre che la sua capacità di accrescere la creatività. Il rovescio della medaglia, però, dice Tayor, è che brucia il cervello e a quello ho l'impressione che lui abbia tenuto assai.
Per capire come sia diventato dopo aver smesso, basta ad esempio guardarlo in un concerto acustico in teatro, che ha tenuto nel 2010: la versione di Carolina on my mind che propone è da lacrime, però di pura gioia.
Non sapevo che il suo pezzo preferito degli ultimi anni fosse invece My traveling star, sulla quale dice di riconoscersi soprattutto nel ritornello "never asking why, never knowing when", riferito alla sua volontà di restare libero, dentro.
Per spiegarsi meglio, si sofferma sul suo modo di affrontare le cose oggi, ossia con "la pancia, il cuore e la testa", perché se è vero che è importante mantenere lo spirito corsaro, bisogna anche saper "controllare l'istinto" se si vogliono ottenere i risultati migliori.
Mi ci riconosco pienamente e gli sono davvero grata di essere così e di riuscire a far parlare ancora i suoi magnifici occhi buoni.
Il 12 marzo scorso, tra l'altro, James Taylor ha compiuto 70 anni.
Se ci arrivo, mi auguro davvero di diventare luminoso come questo alto signore dalla pelata borghese e le note zingare nelle vene.
Concludo con una postilla sulla canzone che ho scelto a corredo del post, proprio quella che dà il titolo all'album.
A un certo punto James canta "I've been letting the time go by", ripetendolo più volte.
Da sempre mi ritrovo a cantare questo punto con più forza, come se percepissi che in quella frase ci sia il significato più importante di tutto il pezzo.
Credo di averne capito per lo meno la mia, di ragione più profonda.
Sto aspettando una risposta per una faccenda che mi sta molto a cuore che tarda ad arrivare, perciò mi ritrovo ogni giorno sempre di più "a lasciare che il tempo passi".
In generale, ho passato parecchio tempo (direi anni) a far passare il tempo in attesa di tempi più rosei, cercando però il più possibile di impiegarlo in modo produttivo (da ultimo la corsa, un'attività che mi sta facendo molto bene).
Dalle parti in cui sono nata, invece, quell'espressione lì sta ad indicare il pigro, oltre che depresso, riempirsi di impegni pur di non sentire il vuoto della giornata.
"Almeno passo il tempo" è una frase di famiglia che mi manda veramente ai matti.
No, perché un conto è come lo dice James, ossia lasciare scorrere il tempo che vale per lasciarsi scorrere le cose addosso con tutta la leggerezza possibile, un altro è subire il senso di inazione che ti lascia l'assenza di novità. Nel lavoro, ovvio, ma non solo.
Quindi ringrazio doppiamente James per avermi riportato alla ragione.
Never asking why, never asking where. Giustissimo. Me lo dovrei tatuare in fronte.
Speriamo di resistere. Ce la sto mettendo tutta. Mettetecela anche voi, in tutte le cose che vi stanno a cuore.