lunedì 27 agosto 2012

Ma il catalogo Ikea non fa per noi


A me invece non capiterà di provare questo brivido, ma come mi hanno scritto tanto gentilmente, per future selezioni, basterà che rifaccia l'identica trafila della scorsa. E come no.
Mentre svuotavo il mio pc sovraccarico di troppa roba, distrattamente ho consultato la mia mail ed eccola lì la risposta alla mia candidatura alla nuova filiale di mobiletti svedesi appena aperta a San Giovanni Teatino (Ch, che non sta per Svizzera, bensì per Chieti):


Gentile Alessandra Cicalini,

siamo lieti di aver ricevuto la Sua candidatura. Grazie per l'interesse, la disponibilità e il tempo che ci ha dedicato. 

Si è conclusa la fase di selezione finalizzata al primo reclutamento dei collaboratori del nuovo punto vendita IKEA di San Giovanni Teatino (CH). Pur ritenendo interessante il Suo profilo, abbiamo indirizzato la scelta verso risorse maggiormente in linea con le nostre attuali esigenze. 

La informiamo che, ai sensi del D.lgs n 196/2003, i suoi dati, conservati nella nostra banca dati, sono stati trattati esclusivamente ai fini della selezione del personale,

Per le esigenze che dovessero presentarsi in futuro, raccoglieremo le candidature unicamente attraverso il nostro sito www.ikea.it nella sezione "lavora con noi".

Le auguriamo di raggiungere i Suoi obiettivi professionali attraverso le Sue attitudini personali ed il Suo percorso formativo.

RingraziandoLa ancora per la sua attenzione, con l'occasione Le inviamo i nostri più cordiali saluti.

IKEA Risorse Umane

Non che avessi mai avuto alcun dubbio sul fatto che non mi avrebbero mai chiamato neanche per la prima scrematura dei Cv (oltre trentamila per circa 200 posizioni. Un esercito di questuanti che neanche ai tempi della carestia di patate causa della prima emigrazione transoceanica di massa).
Tra l'altro sono stati a loro modo assai gentili. E scaltri: capiranno assai bene che una 41 enne dall'incerta collocazione nel mondo potrebbe essere una loro probabile cliente. E infatti ho da poco ricevuto il catalogo 2012-13, pieno di carinissime novità di arredamento "giovane" standardizzato.
Peccato, però, che lo stia conservando per regalarlo a un'altrettanto giovane (ricordo che in Italia si è giovani fino alla pensione di vecchiaia, che peraltro non c'è più) coppia, la cui bellissima casa (non è ironico: è davvero bella) sembra veramente uscita da uno dei loro magazzini.
Noi, invece, siamo quelli dei "mobili vecchi", come ho già raccontato in un precedente post.
Però, Ikea sa: tempo al tempo e dovremo riemigrare dacchepparte (trascrizione letterale dal dialetto fermano) e non è detto che i bauli e soprattutto il pregevole tavolo da sei della mia carissima nonna materna ci stiano in un loft (= stamberga) di qualche ridente comune della Germania (stavo per dire Brianza, ma escludo con ferma certezza che mai mi ci trasferirò. Piuttosto mi compro direttamente un prefabbricato svedese e mi piazzo abusivamente su qualche spiaggia non ancora cementificata. Molto poche in Italia. Il mondo è grande, però).
E insomma, è andata. Giuro che la notizia non mi ha depresso. Ormai mi sono indurita. Grazie, sicuramente, alle frequenti nuotate di questa lunga e per fortuna quasi sempre calda estate.
Per rammollimenti veri e metaforici c'è sempre tempo.
Converrà che aumenti la dose di anti-rughe serale e di thè verde mattutino per contrastare il crollo complessivo, di fisico e psiche.
Non mi avrete.
Non ora, almeno.
Lo scrivo a cuore (abbastanza) leggero, come il mio pc dopo le grandi pulizie di oggi.

sabato 25 agosto 2012

Cronache dalla spiaggia

Ci vorrà un po' di collagene?
Quel braccialetto di stoffa vagamente etnico è stato strappato dalle onde adriatiche, risibili, certo, rispetto alle potenti spire atlantiche, ma pur sempre forti per una donnetta come me.
Scrivo come strategia anti-afa e per togliere (non lo nascondo) dal primo piano il precedente, cupissimo post.
Non che la mia visione rispetto all'Italia e al presente sia cambiata, ma bisogna pur andare avanti.
La callara (parola di chiara matrice dialettale che non ho intenzione di dantescamente ripulire) non mi ha impedito di pensare, o sarà che, tanto, deliro con qualsiasi temperatura.
Tra gli argomenti per questo spazio mi frulla da parecchio una puntata numero due sulla maternità e sulle madri, ma per il momento lo lascio sedimentare un altro po'. Mi limito a svelare un dettaglio: non sopporto le mamme che parlano solo dei figli, soprattutto quando questi ultimi non sono più nell'età delle prime pappe. Al mare, invece, non ho potuto proprio fare a meno di ascoltare di quei discorsi, ma di quei discorsi. E pensare che si tratta di mie coetanee o di persone anche più giovani. Mi fermo qui. Ci tornerò su.
Passiamo all'argomento numero due: i milanesi (meglio: i lombardi in genere) in vacanza. Tolti quelli (che saranno la maggioranza, certamente) che si fanno gli affari loro e che usano un tono di voce moderato o proprio assente, sulle spiagge mi capita spesso di incontrare varia umanità dall'accento settentrionale che urla e spesso si lamenta dello stato selvaggio dei locali  (qualche ragione ce l'hanno, ma che ci sono venuti a fare, considerato che tornano TUTTI gli anni?). Oppure, colgo negli sguardi di qualche esponente della razza ariana d'Italia un misto di disprezzo e ingiustificabile senso di superiorità. Perché loro, i produttivi connazionali nati (o comunque cresciuti) al di là del Po, nei paesini e nelle valli pedemontane da dove provengono "hanno abbassato la saracinesca" (cit) per un po', ma poi torneranno a rialzarla, ammesso che il governo non li tassi dell'altro. Mentre qui, questi generici terroni si grattano la panza e lasciano tutto sporco, ma di cambiare mentalità proprio non se ne parla.
Devo però aggiungere che un pizzico mi viene anche da gongolare, considerato che le Marche, anche quelle del Sud, non possono di certo essere ascritte all'ex Regno borbonico. E però c'è sempre qualcuno più meridionale di noi con cui prendersela e io, lo confesso, non sopporto di essere guardata (a volte) dall'alto in basso solo perché vengo da Chieti.
E insomma, ce ne ho una per tutti: bella scassapalle, non c'è che dire.
Terzo e ultimo argomento, gli habituè della spiaggia libera dove noi Sfaccendati (ebbene sì, signori del Nord: non c'avemo voja de faticà, come dicono da queste parti) siamo soliti passare le nostre mattine.
In particolare, c'è un tizio sui settant'anni o giù di lì che mi ha incuriosito già dallo scorso anno. Occhi chiarissimi, secco come un chiodo, abbronzatura dorata molto simile alla mia e un tatuaggio non meglio identificato sulla scapola, quest'uomo, tutte le sante mattine, nuota fino alla secca a un centinaio di metri dalla riva, con una sistematicità davvero impressionante.
Prima di tutto si bagna, quando fa particolarmente caldo come oggi, altrimenti, intorno alle undici-undici e mezzo, si tuffa a pochi passi dalla riva e con lente bracciate percorre metà del suo percorso abituale. A quel punto, se ne resta lì in ammollo, qualche volta fa anche il morto, e poi, a seconda forse anche delle correnti, decide se proseguire a dorso o sempre a stile libero. La sua testa pelata diventa così sempre più piccola, finché, talvolta si innalza sulla secca, come ho visto fare ieri da un sub che sembrava camminare sulle acque come Gesù. Con analoga calma, torna indietro, in genere prima a stile libero, poi, a metà strada, a dorso. Anche in questo caso non nuota perfettamente perpendicolare alla riva, come se sapesse che tagliando le onde si fa meno fatica. Una volta uscito dall'acqua, poi, infila le ciabattine e si allontana sulla battigia. Fino a quest'anno non sapevo dove si dirigesse, da poco l'ho capito: va a farsi la doccia al più vicino stabilimento. Forse, dopo, va anche in bagno, ma di solito non a cambiarsi il costume. Come faccio a saperlo? Perché quando torna al suo asciugamano, liscio e perfettamente parallelo alla riva, gli abiti altrettanto perfettamente piegati sopra uno dei lembi superiori, si sdraia di schiena, poggiando i gomiti a terra, la testa liscia reclinata in avanti, e dopo un po' si gira e prosegue con l'asciugatura del lato anteriore. A un certo punto, probabilmente per via del caldo, si calca sulla testa il suo cappellino bianco con la visiera e gli occhiali da sole. A questo punto del rito, so già che saranno più o meno le dodici e trenta. Tra un po' si alzerà e si rivestirà.
Prima, però, riannoda i fili interni del costume, poi si infila la maglia, quindi piega perfettamente l'asciugamano e se è il caso con il quadrato che ne ha formato si asciuga la pelata sollevando un po' il suo cappellino.
Nessun rito riesce esattamente uguale, però. Me ne sono accorta stamattina, quando il soggetto in questione, che io credevo impegnato a riannodare i lacci dello slip, in verità li stava sciogliendo per calarseli giù. Stavo guardando verso il mare, quand'ecco che, voltandomi verso di lui, l'ho visto in piedi, di spalle, con una strana fessura più chiara al di sotto della schiena. Velocemente, devo dire, ho constatato che stava già infilandosi i pantaloncini, ma non ho potuto fare a meno di strabuzzare gli occhi. Anche perché, di fronte a lui, a pochissima distanza dai gioielli di cui sono dotati tutti i maschietti (anche il suddetto nuotatore ordinato), c'era la solita, graziosissima ragazza bionda anche lei abituale frequentatrice di quel tratto di spiaggia. Mi pare che stesse dormicchiando, ma non ne sono certa. In tutti i casi, è facile che abbia richiuso gli occhi non appena intravista tanta meraviglia.
E dire che in altre zone dell'Europa è considerata prassi svestirsi del tutto e rivestirsi dopo il mare. Tuttavia, sono rimasta un tantino spiazzata, più che altro perché non mi tornava con l'idea che mi ero fatta del personaggio. Sarà il caso di osservarlo (sempre a debita distanza) un altro po' per capire se ci saranno evoluzioni. Beh, speriamo di non dover assistere all'arresto per atti osceni in luogo pubblico.
In tutti i casi, vedremo che cosa farà la bionda. Se piazza l'ombrellone da tutt'altra parte o se non la rivedrò più, sarà il caso che prenda di mira qualche altro bagnante per le mie improduttive osservazioni di fine estate.

mercoledì 22 agosto 2012

Largo ai giovani? Non agli "ex" della generazione perduta



"Largo ai giovani", dice Peppy Miller all'intervistatore. Al tavolo alle sue spalle sta cenando George Valentine, famoso attore del cinema muto, orgogliosamente ancorato alle pellicole prive di sonoro. La sua scelta conservatrice lo porterà, come si vedrà nel corso del film, quasi alla morte, ma per una volta, accidenti, un film così intenso e originale come non se ne facevano da tempo, sceglie il lieto fine.
Che poi, intendiamoci, non vuol dire che sarà possibile tornare indietro. Tutt'altro: il tempo, ahinoi, non si ferma mai, figuriamoci il progresso tecnologico. Però un sottile e sottinteso messaggio didascalico la pellicola di Michel Hazanavicious lo dà proprio grazie alla sua coraggiosa e assai creativa scelta di girare alla maniera del cinema degli esordi, naturalmente con tutte le differenze potrei dire post-moderne del caso.
Il messaggio è a mio avviso il seguente: nessun 3D di ottima fattura potrà mai soppiantare la necessità di una trama convincente e di una recitazione altrettanto degna di questo nome. Il regista, peraltro, è abbastanza giovane, ma non per questo sembra essersi dimenticato dell'importanza del passato.
Lo stesso, purtroppo, non accade in Italia, in cui si è fatto di tutto per bruciare presente e futuro di schiere di ex giovani e giovani veri.
Chi segue questo blog (pochi ma buoni) sa che lo scrivo da tempo: la generazione più disgraziata di questo crudele Paese è quella a cavallo tra i 30-40 anni; sì, proprio quella da sempre impegnata a guardarsi l'ombelico (le schiere di fan dell'Ultimo bacio ne sanno qualcosa) e a farsi un'istruzione destinata a frustrarli a vita.
Del resto, l'ha detto anche Mario Monti non più di qualche giorno fa, tra gli applausi entusiasti anche di gente della mia età (le blandizie pagano ancora, si vede): a riportarlo, è stato il Manifesto della generazione perduta, segnalatomi dal mio caro amico Paolo Ferrario, che ha peraltro anche avuto il coraggio di firmarlo, benché, per fortuna sua, non lo riguardi direttamente.
Vi confesso, tra l'altro, di averlo già ricevuto ieri, ma, sinceramente, non ho avuto il coraggio di aprirlo perché sapevo che mi sarei inc... inquietata assai.
Vi trascrivo giusto la premessa dell'iniziativa di questi miei coetanei (forse pure più giovani: perché la tragedia vera è che quelli di noi nati tra i Sessanta e i Settanta avrebbero anche potuto averlo un posto a tempo indeterminato, ma chi l'ha perso o se n'è andato convinto di poter trovare di meglio, sa bene, troppo bene, di aver perso l'ultimo treno per darsi uno straccio di stabilità economica).
Mi auguro solo che non si tratti dell'ennesimo tentativo di avere visibilità a buon mercato, sempre nella malcelata speranza di passare dall'altra parte, tra quelli che parlano di crisi solo perché oggi fa tanto fashion.  Eccoli qua:
Noi siamo la generazione perduta. Quei 30-40enni italiani per i quali – come ha di recente confermato il Presidente Monti – lo Stato non potrebbe far altro che limitare i danni. Perché è ormai troppo tardi per offrirci speranze e futuro. Siamo consapevoli – e ce lo ha ricordato lo stesso Premier – che le responsabilità di questa situazione sono di un’altra generazione: quella alla quale appartiene buona parte della classe dirigente che negli ultimi venti anni ha guidato questo Paese. Oggi i quasi dieci milioni di italiani che appartengono alla nostra generazione vengono considerati “perduti” ed invitati ad accettare con rassegnazione un destino senza speranze né futuro. E padri senza futuro non possono generare figli capaci di averne.

In questi pochi paragrafi c'è tutto, quindi non serve aggiungere molto altro. Resto però colpita dal fatto che a parlare, ancora una volta, sia un uomo: lo deduco dal riferimento alla paternità mancata o perduta, che dir si voglia. La prima domanda che mi pongo è infatti: che fine hanno fatto le donne del movimento "Se non ora, quando?". Forse che lì c'erano anche svariate esponenti di quella fetta di classe dirigente in rosa tuttora ben piazzata sugli scranni del potere, la stessa, sì, proprio quella, che ha impedito alle più giovani di farsi largo anche senza, perdonatemi la volgarità, allargare le gambe? Lo sanno le agiate (e spesso ageé) signore che recitavano Christa Wolf o qualche altra autrice radical chic che per molte delle loro un po' più giovani compagne di sfilata post-femminista non ci sarà mai il momento per rivendicare la proprietà sul proprio corpo (quante violenze domestiche su italiane ci sono già state quest'anno?) né tanto meno difendere quello delle figlie sventuratamente messe al mondo? Sanno che alcune di loro rischiano di fare come Anna Magnani in "Bellissima"? E non ditemi, per favore basta, che la colpa è di Berlusconi. E' anche sua, naturalmente, come perfetto esponente dell'Italia che ha rubato il presente e il futuro a me e agli ex ragazzi del Manifesto sopra detto, ma parte di questa colpa ce l'ha anche Monti, che avrebbe potuto anche scegliersi collaboratori più giovani, anziché quelle vecchie ciabatte incarognite che hanno dato più prove di quanta considerazione abbiano per i famosi bamboccioni.
Come uscirne? Io qualche idea comincio ad averla, come forse s'intuisce dai miei continui riferimenti alla mitizzata nazione tedesca. Nel frattempo, continuerò a digitare parole e a credere, ferocemente, in tutti i progetti, anche i più strampalati, che dovessero partorire dalla mia testa. E da quella di altri "sfaccendati" come me che vogliano - anzi: PRETENDANO - esattamente quanto indicato come punti programmatici dal Manifesto: rispetto, merito, impegno, progetto, fiducia.
E no, Claudio Risè non ha del tutto ragione, caro Paolo Ferrario: io non avrei potuto fare nient'altro che la giornalista o qualcosa del genere. Però è vero che lo sfascio di un Paese che non sa più formare i ragazzi ai mestieri, quelli che teoricamente gli italiani non vogliono più fare, ha aggravato il dramma della mia generazione. Io, poi, ho fatto il Classico e dopo Scienze Politiche. Peggio di così.
Per fortuna ho imparato (abbastanza) a fare almeno le pulizie. E non è escluso che per racimolare qualche denaro ricominci proprio dalla ramazza. Basterà mentire sul curriculum o, magari, sulla nazionalità: a parte l'altezza, posso passare per ucraina. Dirò che sono muta. Ecco: straniera e appartenente alle categorie protette è l'ideale.
Una volta messi da parte un po' di denari, quelli bastevoli per comprarsi un piccolo terreno su cui costruire una casetta di legno con un piccolo appezzamento da destinare a orto, potrei passare direttamente "dalla penna alla vanga", come mi aveva predetto il mio amatissimo Sfaccendato. Perché, nonostante la sfiga, ogni tanto sorridiamo. L'unico vero antidoto contro la miseria, soprattutto morale, in cui vorrebbero farci sprofondare.
Concludo con un contro-appello ai promotori del Manifesto: voglio credere nei vostri intenti, ho pure firmato, cosa che non faccio mai, men che meno sul Web. Per favore, non deludetemi.

martedì 14 agosto 2012

Pesce d'agosto per Sfaccendato, l'ultimo contestatore



Per caso notate qualche somiglianza?
Lo premetto: il presente è un post-scherzetto dedicato a Sfaccendato (che fa pure rima) alla vigilia di Ferragosto. Una specie di pesce d'estate, insomma.
Chi sarebbe il tipo sopra il volto a me (e alcuni di voi lettori) più noto? E' il protagonista di un telefilm tedesco rimasto fermo agli anni Ottanta a causa di un coma ventennale. Quando si risveglia, naturalmente, tutto intorno a lui è cambiato, a partire dalla figlia che lui ricordava bambina. Potrebbe sembrare l'incipit di una tragedia, invece no: il suo essere - e soprattutto sentirsi - fuori dal tempo lo costringe, questo sì, a bizzarre sedute dalla psicologa della polizia, ma lo rende ancora di più simpatico agli occhi di noi telespettatori, per via della sua totale mancanza di diplomazia e per quella sorta di goffaggine posseduta di solito da chi non si adatta facilmente ai gusti della maggioranza. Mick Brisgau (così si chiama il personaggio interpretato dall'attore protagonista del telefilm: Henning Baum) potrebbe ricordare il Moretti di Caro Diario, quello che ha capito che farà sempre parte di una minoranza di persone in qualsiasi contesto si verrà a trovare.
Sfaccendato è uguale e forse - se l'ho sposato - anch'io, benché lo mascheri meglio di lui o almeno lo credo. Perché, poi, quando devo dire la mia, in genere difficilmente mi trattengo e quasi sempre il mio pensiero non coincide con la vulgata maggioritaria. Ma torniamo a Sfaccendato e al telefilm tedesco. Anzi: ai telefilm tedeschi dal medesimo seguiti con assiduità via via crescente. Sì, perché da poco, quando ceniamo abbastanza presto (mai troppo per i suoi parametri. Ha sposato una terrona? Non gli resta che adattarsi), ha preso a seguire Siska, nato sulle ceneri di Derrik, suo pari quanto ad assenza di ritmo e ad ambientazioni da Germania dell'Est.
Di recente aveva introdotto, tra le nostre abitudini del dopo cena, anche Fast Forward, altra produzione crucca, protagonista il commissario Schnell, una piacente e procace mora, all'apparenza più italiana che teutonica se non fosse per l'altezza decisamente sopra la media (beh, non mi sto basando sulle mie misure, altrimenti non sarei obiettiva). Era forte, ma poi la serie è finita e non so se la riprenderanno.
Poco male: Sfaccendato si è illuminato quando ha scoperto che davano di nuovo Matula, altro serial stavolta ambientato a Monaco (mi pare), con un attore ormai ben oltre l'età della pensione di vecchiaia, che ha i capelli come me. Anche lì ritmo a profusione, ma Matula ama farsi un bicchierino di vino rosso ogni tanto e cucinarsi prelibatezze italiane, perciò, alla fine, mi sono affezionata pure a lui.
Ed eccoci arrivati alla scoperta più recente: il suddetto Last cop, con le sue manie e il suo caratteraccio. In questo caso, beh, il ritmo c'è, dato anche dalla colonna sonora tutta anni Ottanta, quella della nostra infanzia-adolescenza. A occhio, hanno cercato di invecchiare l'attore protagonista, classe '72: per quanto nel resto d'Europa si facciano figli prima, se il personaggio rispecchiasse la sua età reale, sarebbe stato un padre ben giovane al momento dell'incidente che l'ha mandato in coma.
Stasera, però, ci perdiamo la nuova puntata, perché Sfaccendato, che mi vuole tanto bene, mi asseconda nel mio "desiderio di gite", una frase che scrivo non casualmente tra virgolette avendola mutuata sempre da lui, poco amante di code e intruppamenti da vacanzieri della domenica.
Ed è proprio per farmi perdonare di averlo sottratto al telefilm che gli sto dedicando questo post, con tanto di galleria fotografica finale personalizzata:



Lì per lì non ci avevo fatto caso, ma sapete come si chiama il primo brano rubato (accidenti: speriamo che non se ne accorga la Siae...) a Paolo Conte? Berlino, naturalmente.
E benché Sfaccendato non sia mai stato nella terra dell'efficienza e l'ordine (mitologicamente parlando), inconsciamente devo avere cominciato a considerarlo un po' crucco anche lui.
Fino a quando, una volta trasferitici lassù, non individui un'altra teutonica maggioranza dalla quale dissociarsi.
Però la sua musica è proprio bella.
Accidenti se lo è.

lunedì 13 agosto 2012

Pensierini di Ferragosto di chi non è partito


Il cestino delle carte in semi-primo piano non è proprio il massimo, ma d'altra parte amplifica l'atmosfera da fine estate di questo scatto (come se dicesse: buttiamoci alle spalle la bella stagione. Bella stupidaggine, eh?).
E pensare che risale alla penultima perturbazione della seconda metà di luglio, quando l'autunno, e tanto più l'inverno, erano ancora decisamente lontani. Oggi, se possibile, fa ancora più freddo di quel tardo pomeriggio in cui, Sfaccendato e io ci eravamo concessi una birra a pochi passi dalla riva. Quella coppietta sul fondo della passerella pareva pagata dalla Pro Loco. D'altra parte ci sono luoghi e temperature che invogliano a effusioni e tenerezze così. Buon per loro.
Invece a me, quest'anno, nonostante l'afa, non è quasi mai sembrata estate. Oltre alle solite lagne sul lavoro che non c'è, credo che dipenda soprattutto dal fatto che non ho fatto neanche un viaggio, tolto quello brevissimo a Bibbiena peraltro compiuto prima dell'ingresso ufficiale della stagione che mi ha visto nascere.
Tra pochi giorni, certo, visiterò una zona delle Marche in cui non sono mai stata e sarà come partire per destinazioni più lontane (sono una che si sa accontentare, per fortuna), ma il risvolto più  meno pratico del piccolo trasferimento nella zona nord di questa bella regione mi impedisce di concepirla del tutto come una vacanza.
A peggiorare le cose, ahimè, si aggiunge l'impressione che invece tutti gli altri siano in panciolle, anche quando hanno facce lunghe e antipaticamente annoiate come i vicini di ombrellone di Marisao o al contrario sembrano divertirsi un sacco a schiamazzare fino alle quattro del mattino convinti che il quartiere sia tutto loro, come i tizi che gestiscono la pizzeria-chalet di fronte alla nostra camera da letto, che rigovernano tavoli e stoviglie tenendo la radio a tutto volume ben dopo la mezzanotte.
Non c'è niente che mi manda più in bestia della maleducazione, ma da un altro lato mi rendo conto che l'estate è breve e che tra pochi giorni rimpiangeremo di non potercene più restare in mutande (più o meno) tutto il giorno.
E poi, in fondo, perché dovrei alzarmi presto se non ho particolari impegni? Devo avere un senso di colpa lungo più delle facce annoiate e antipatiche di quella gente del nord che non si smuove da sotto l'ombrellone neanche se arriva l'ariètta con la a aperta come la chiamano loro.
Sarà come sarà, l'altra notte non ce l'ho fatta più e sono sbottata.
Finché c'è stata la musica forte, da discoteca, stranamente ho pure dormito. A svegliarmi, è stata la voce sgraziata, da maschio ottuso, di un tizio secondo me neanche giovane che andava storpiando una canzone di Lucio Dalla, accompagnato da un suo pari impegnato in una sessione di percussioni improvvisate chissà se su una latta enorme di birra.
Fatto sta che mi sono alzata, ebbene sì, semi-nuda, e mi sono diretta alla finestra come una furia. Ho atteso qualche secondo per essere sicura di quanto stessi ascoltando e poi, preso fiato come neanche una cantante lirica, ho urlato: "BASTAAAAAAA!". E ho richiuso la persiana. In tutta risposta mi sono sentita dire: "Perché, non de piace?". E io, con una prontezza elargitami solo dall'esasperazione, di rimando, in italiano pulito, senza inflessioni particolari né soprattutto, vista la situazione, parolacce: "A un certo punto bisogna anche dormire!". E quello, di risposta: "Ah, allora scusa". E me ne sono andata in bagno a fare pipì mezzo assonnata mezzo divertita dalla mia stessa performance. Mio marito il giorno dopo mi ha detto che il cantatore notturno ha borbottato "checcò" d'altro al mio indirizzo, con tono di certo poco signorile. Sia come sia, la serenata degli ubriachi è morta lì, ma io, da quel giorno, ho preso la mia definitiva decisione: finché il dannatissimo chalet resterà aperto dormirò in soggiorno nel divano letto tutto schiantato ma comodissimo, un tempo ubicato nella casa dei miei genitori a Francavilla al Mare. In un certo senso, questo piccolo cambiamento forzato sa di vacanza più delle mattinate nella concessione di mia suocera, tra gente orribile impegnata a sprecare il tempo non sapendone fare tesoro.
Stamattina, comunque, non sono scesa al mare, con la scusa dell'appuntamento su skype che avevo con una persona. Aspettavo, credo, il momento di ritrovarmi qui, da sola, davanti allo schermo per riordinare i pensieri. Dovevo fare spazio, svuotandomi delle parole in eccesso rimaste lì a rotearmi nella testa.
In parte, ci sono riuscita.
Il resto verrà fuori pian piano, come l'autunno dopo l'estate e dopo ancora l'inverno.
Alla faccia di bagnanti antipatici e pizzaioli sgraziati, perciò, sarà bene continuare con la provvista di bagni, di sale e e di sole.
Buon Ferragosto, amici.


lunedì 6 agosto 2012

Vite felici, speranza per chi vuole crederci ancora



I due alberi che vedete in alto sono nati a Milano, per la precisione in zona Porta Venezia, probabilmente all'interno del parco comunale. Poi, grazie alle amorevoli cure di Giorgio Blandino, la persona più rasserenante che abbia mai conosciuto, sono diventati alti e forti nelle campagne di Grottazzolina, un paese dell'entroterra fermano a pochi chilometri dal capoluogo di provincia (ebbene sì: per chi lo ignorasse, Fermo fa provincia e ha una targa che sembra una radio. Battutona, lo so).
E' stato Giorgio in persona a raccontarmi l'aneddoto durante l'intervista cui si è molto entusiasticamente sottoposto, dal momento che verteva sull'argomento che più di tutti l'appassiona: la terra. 
Del resto, se ho scelto proprio lui come uno dei protagonisti della doppia intervista che ho realizzato per Muoversi Insieme, è stato per via di alcuni aneddoti che già mi aveva narrato sulla sua campagna. 
Non conoscevo però dettagli come questo e come quello che ho riportato nel testo ufficiale, ossia che avesse invasato i semi dei due esemplari arborei (un platano e un ippocastano) sul davanzale del suo appartamento milanese; né sapevo che da bambino andasse a raccogliere le carrube scartate. Mentre parlava, anzi, mi ha fatto letteralmente vedere lui piccolo e i suoi amichetti piegati dal peso del grosso sacco riempito in luoghi in cui i piccini di oggi non sarebbero mai mandati da soli. 
Insomma, era forse destino che Giorgio tornasse alla terra e avesse la possibilità di farne la sua vera ragione di vita, i figli ormai grandi e una pensione sicura. 
Ad aiutarlo e sostenerlo, c'è sua moglie Guglielmina, nata nella terra che oggi coltiva Giorgio e abile realizzatrice di ricette siculo-marchigiane "vieppiù" (concedetemi la locuzione demodè) succulente proprio per via degli ingredienti genuini ottenuti nel piccolo appezzamento (piccolo si fa per dire: visto che si tratta di quattro ettari).
Insomma, come direbbe il mio amico Paolo Ferrario, Guglielmina e Giorgio sono riusciti a costruirsi una vita e oggi, giustamente, sono felici di mostrarla agli altri, anche quando ne parlano non con questo preciso obiettivo. Chi è felice, in altri termini, si vede e non ha bisogno di sbracciarsi per farlo sapere. 
Ecco. Esperienze come la loro e come quella del medesimo Paolo e di sua moglie Luciana sono bellissimi e credo che bisognerebbe attaccarvisi il più possibile per non perdere la speranza che qualcosa di simile, di certo a un'età più avanzata di quanto non sia successo a loro, possa un domani capitare anche a noi. 
Che lo faccia consapevolmente o meno, in ogni caso mi capita sempre più spesso di orientarmi verso le cosiddette good news. Per contro, seguo la cronaca sempre più raramente. 
Sarà che sono già entrata in una fase della vita in cui non ho più il diritto di perdere tempo. Meno che mai di farmi, vittimisticamente, del male. Perciò ancora grazie, amici con qualche anno in più sulle spalle, per la vostra energia, i vostri prodotti (non dimenticherò mai il rosmarino selvatico di Amaltea) e per il rispetto con cui ci trattate. Un rispetto di cui abbiamo bisogno come la luce che ha reso forti il platano e l'ippocastano emigrati nelle verdi colline marchigiane.  

venerdì 3 agosto 2012

Bizzarrie metropolitane in una calda mattina d'estate





Trenta secondi dopo, il tizio che fa le flessioni sul sagrato del duomo di Milano è sparito dietro l'angolo tutto saltellante. Pareva proprio che dicesse hop hop. Mi trovavo a passare da lì per caso, era il 27 giugno, circa le 13.30, e si schiattava di caldo.
Ho trovato talmente bizzarra la situazione che non ho resistito e ho scattato.
Mi resta un dubbio, atroce. E' amore per lo sport quel che appare o pura alienazione metropolitana? 
Chi può saperlo. 
Aggiungo che io, tutto sommato, sono una tipa abbastanza allenata, sia per conformazione naturale (e che ci si può fare se c'ho le gambe da Rumenigge? Mi è stato detto davvero un'estate di una vita fa da un ragazzotto toscano, probabilmente ubriaco, che me l'ha gridato dal buio di un lettino da spiaggia, mentre passavo in cerca non certo di lui. In vino veritas, epperò) sia perché mi piace tenermi in forma.
Però mai e poi mai mi metterei a fare ginnastica sotto un sole da infarto e meno che mai in un luogo non troppo dissimile da piazza San Marco a Venezia quanto ad affollamento.
Se non fosse corso via come un razzo, sarebbe stato da chiederglielo.
Perché? Perché lo fai? E' la tua pausa pranzo? E quando mangerai? E soprattutto che cosa? Una bella pizza farcita e spugnosa, pregna d'olio bisunto, oppure un'insalatona dalla dubbia provenienza in qualche mensa aziendale?
O magari sei uno degli atleti attualmente impegnati nelle Olimpiadi. Ecco, sarà così, ma siccome pratichi una disciplina minore, di quelle difficili da commentare per via della loro misteriosità, cerchi di attirare su di te gli sguardi dei passanti. A giudicare dalla pancia di quello più a sinistra tra i due che ti osservano, non credo che ti stiano prendendo sul serio. E non per invidia. Pur essendo, all'apparenza, di origine orientale, per me stanno commentando alla chietina maniera: "Cussù è nu pazz".
Chi può saperlo.
In ogni caso, il giorno dopo sono stata ben felice di riprendere la via per il centro-sud.
Per il mare. 
Almeno qui, se fai le flessioni sott'acqua, nessuno se ne accorge. 

mercoledì 1 agosto 2012

Dedicato ai migranti italiani e a quelli che, a fatica, restano ancora qui



Chissà se Paolo è andato a lavorare in Svizzera, alla fine. E chissà se a Priscilla rinnoveranno lo stage in una prestigiosa agenzia del centro di Milano.
Salita sul treno per la grande metropoli del Nord, non avevo granché voglia di intrecciare conversazioni, meno che mai sul lavoro. Lì per lì, dunque, scoprire che il mio posto era giusto affianco ai due giovani viaggiatori partiti varie ore prima di me da Foggia, non è che mi facesse proprio piacere.
Con ostinazione, mi sono ficcata nelle orecchie gli auricolari e ho ascoltato, forse Paolo Conte (è piuttosto probabile), ma può essere anche Mark Knopfler (e d'altra parte non cambio la playlist da secoli... beh, non è proprio vero, visto che da pochissimo ci ho aggiunto le dieci puntate di "Alle otto della sera" dedicate, indovinate un po'? Ma ovviamente al Maestro!).
Fatto sta che dopo un po' non ne potevo più di assordarmi e poi, comunque, i due ragazzi non sembravano affatto antipatici. E infatti non mi sbagliavo.
Priscilla, 27 anni circa, è laureata in Sociologia e dopo vario peregrinare tra Roma e Milano, ha scelto la seconda nella speranza di avere qualche sbocco in più. Per fortuna, la città le piace, più della capitale sicuramente, anche se avrebbe preferito restare all'università a fare il dottorato. Ascoltandola parlare della sua interessantissima (anche se un pizzico inquietante) tesi di laurea su una catena di hotel specializzata in funerali con annessi e connessi che sta facendo grande business a Milano e dintorni, mi rendevo sempre più conto di avere vicino una persona fuori dal comune. In un certo senso, mi ricordava me gli ultimi anni dell'università, prima della "grossa crisi", con le stesse ambizioni fondate su impegno e (perché non dirlo) intelligenza, ma con qualche disillusione in più sulle speranze di vederle realizzate.
Paolo, invece, era leggermente più grande di lei e di sicuro ancora meno fiducioso. Studente lavoratore, come la sua giovane conterranea era un po' pentito di aver scelto una facoltà debole, di tipo umanistico (come li capisco!), ma fino a poco tempo prima era riuscito comunque a restare nella sua terra, convinto della necessità di lavorare a casa propria per non sottrarre ulteriori risorse a una zona storicamente già ferita da oceaniche emigrazioni. Finché un giorno, chissà perché (è ironico) è cominciato il mobbing che alla fine l'ha spinto a rassegnare le dimissioni. Da un contratto un tantino anomalo. E sì, perché Paolo si è a un certo punto accorto che, oltre a essere pagato in ritardo, non c'era traccia di contributi versati e altri piccoli optional che tanto fanno la felicità dei lavoratori dipendenti (gli autonomi, invece, ci hanno rinunciato ormai da un pezzo). Avendone chiesto spiegazione, il giovane foggiano, piccole esperienze di cooperativa alle spalle e anni di praticantato nel negozio di famiglia, si è condannato all'uscio. E all'emigrazione verso il Nord, dove, per sua fortuna, vive una sorella. Da lei fa base ogni volta che lo chiamano per un colloquio. Fino a quel viaggio, però, non ne aveva cavato granché. Solo una sfilza di colloqui per mansioni commerciali, spesso a provvigione, nessuna assunzione probabile. Il giorno dopo il viaggio in treno in cui l'ho incontrato, ne avrebbe avuto un altro che non lo entusiasmava assai, però, come diceva a Priscilla, ossessionandola forse un po', a trent'anni non sei più un ragazzo e devi trovare uno sbocco. Uno qualsiasi. Per forza. Tanto, al limite, sarebbe potuto restare per qualche tempo dalla sorella e poi, un giorno, chissà. Poco prima di arrivare a Milano, gli squilla il cellulare. Capisco che ha bisogno di una penna per appuntarsi qualcosa. Gliela allungo, un po' trepidante anch'io, come pure Priscilla con la quale scambio un'ansiosa occhiata. Trecento fiorini svizzeri a settimana? Sinceramente non ricordo più la cifra ripetuta ad alta voce davanti alle facce sorprese delle sue dirimpettaie, la giovane e la vecchia (per scherzo, a un certo punto, Paolo mi ha chiesto se doveva darmi del lei. Ho finto di mandarlo a quel paese).
Chiude la conversazione e alza su di noi uno sguardo ridente, di puro stupore. L'hanno chiamato dalla Svizzera per fissargli un colloquio per il giorno successivo a quello milanese. Gli hanno già parlato di guadagno, di contratto, l'importante è che sia un frontaliero. Paolo, da quel che ho capito, lo è, quindi chissà se adesso è lì a rifarsi di tutte le frustrazioni accumulate in un Paese che, a essere bello è bello, ma è troppo crudele con troppi figli suoi.
Con questo mi riallaccio, esplicitamente, al piccolo, affettuoso dibattito avuto con mia madre su Facebook a proposito dell'idea non proprio positiva che ho della terra, amatissima, che mi ha visto nascere.
La crisi è anche in Spagna, anche in Germania, dappertutto. Anche all'estero licenziano e mettono alla porta molta gente. Però basta varcare il confine settentrionale della Penisola per rendersi conto delle differenze.
E basta parlare con chi sta vivendo situazioni di stallo analoghe a ragazzi come Paolo e Priscilla, ma anche a persone più grandi di loro come noi coniugi Sfaccendati e molti altri come noi: in Germania, ad esempio, si assume ancora senza fare questioni di età (dietro, naturalmente, un po' di formazione) e chi perde il lavoro ha qualche aiuto dallo Stato. Da noi il Welfare lo fanno i nonni, i genitori nel caso dei due foggiani trentenni. E questo non è giusto. No che non lo è. Priscilla per il suo stage prende 250 euro al mese: alla sua età, molti dei sessantenni e settantenni di oggi erano padri e madri da tempo. E a questo proposito, solo da noi si diventa genitori sempre più tardi: nel nord Europa nascono più figli semplicemente perché li si mettono al mondo prima, come imporrebbe l'orologio biologico. Poi, certo, ci sono ragioni individuali e sociali che tengono molte donne italiane lontane il più a lungo possibile dalla maternità: Priscilla, per esempio, magari adesso non avrebbe voglia di fare la mamma, presa com'è dal suo legittimo desiderio di affermazione professionale, ma quando ho accennato alle difficoltà delle mie amiche quarantenni con figli piccoli, spaventate dall'eccesso di smog che assedia grandi e piccini, e del loro desiderio, proprio per questa ragione, di fuggire dalle metropoli, ho colto un lampo di malinconia nei suoi grandi occhi chiari.
In Germania le piste ciclabili abbondano e l'aria è spesso assai più respirabile, nonostante il clima ostile.
Insomma, è una questione di scelte, purtroppo non solo personali.
Siamo condizionati, nel bene e nel male, dal luogo in cui nasciamo. Paolo ama la sua terra, e anche Priscilla, lo si intuiva da come le si illuminava la faccia parlando di casa sua. Però, da noi, chi emigra non può più tornare indietro, e non solo perché ha trovato (speriamo per loro e per tutti gli altri che stanno chiudendo la valigia in questo momento) una collocazione professionale migliore, ma anche perché non si riconoscerà più, almeno non del tutto, in quelli che sono rimasti in patria, che sia un piccolo paese del sud o lo Stivale tutto intero.
E sapete perché non vi si riconoscerà più? Perché, tornando indietro, ritroverà le medesime, stanche anomalie di un Paese che non vuole crescere, non quanto a Pil, bensì a benessere collettivo, in una parola a civiltà. Inevitabile sarà la rabbia (i primi tempi) e la malinconia (andando avanti negli anni) che li risospingerà verso la patria adottiva, nel Nord (Europa) oppure verso l'Africa, per quelli di loro che avranno compiuto la scelta più ardita convertendosi, magari, alla ristorazione italiana dopo una vita sui libri, o ancora verso la cosiddetta Cindia, per quelli dotati di spirito più pratico.
Temo, ahimè, che non ci sia scelta. Non molta, comunque.
E tuttavia, nonostante la mia età non più verde, io sono ancora allo stadio della rabbia, un sentimento che mi fa tutt'oggi dire che non siamo degni, come popolo, del nostro grande passato. Lo dimostra anche la vicenda di Milano e della riapertura della zona C alle auto per la vittoria di un'azienda privata di posteggio, raccontata dall'Amaca di Michele Serra qualche giorno fa e che ha scatenato il dibattito (ripeto, affettuoso) tra mia madre e me.
Ne sono convinta, cara mamma: persino Gesù, su questa vicenda meneghina e in generale sul futuro negato a schiere di giovani italiani, avrebbe qualcosa da ridire. Forse, chissà, andrebbe dai potenti anziani che ci hanno reso schiavi e che non vogliono proprio saperne di schiodare e li scaccerebbe via come i mercanti dal tempio. Sì, forse interverrebbe, non foss'altro perché anche lui è stato vittima della gerontocrazia. Solo che adesso lo crocifiggerebbero ancora prima, visto che sarebbe fuori tempo massimo per il contratto di formazione (oggi detto di apprendistato) di ben quattro anni.
Quest'ultima, naturalmente, è una piccola provocazione, ma a chi ha solo la voce, la tastiera e un po' di cultura non resta che usarle come può. Soltanto così continuerà a resistere e a sognare la riscossa, almeno morale, della nostra amata-odiata Italia. Anche se non sembra, insomma, io ci credo ancora.
E voi?