mercoledì 22 luglio 2015

Un compleanno indimenticabile

C'è sempre una prima volta per tutte le cose.
L'influenza estiva non me l'ero mai beccata, nemmeno, penso, da bambina: all'alba dei miei vierundvierzig (Katzen)... zac!
Lo dico piano, per timore di scatenare di nuovo l'ira divina, ma mi pare che la febbre sia passata.
Andrò avanti con l'antibiotico che mi ha prescritto il mio medico ("nooooo, non è gastrolesivo", pensavo alle sue parole mentre mi veniva da rimettere pure l'acqua. Mortacci). E insomma, cerco di farla breve: così è la vita.

Mentre imboccavo la discesina che dal parcheggione squallido porta all'ingresso dell'altrettanto anonimo ospedale clinicizzato di Chieti, pensavo che questo è il terzo anno di seguito che bazzichiamo quel posto. Va fatto, lo so, ma non è una gran consolazione saperlo.

Sono spesso intenerita da mio padre, così scarsamente dotato di manualità, ma al contempo, complici stanchezza e stress, mi è pesato in certi momenti anche solo mettergli le goccine nell'occhio.
Già da prima di partire per Chieti, per tentare di alleggerire il senso di pesantezza che in seguito, nel pieno dell'esplosione del virus, mi si è concentrato sul collo manco fossi stata la versione femminile di Atlante, prendevo un po' in giro con mio marito il povero papà facendogli il verso quando attacca sulle "esigenze dell'ammalato".

Però devo dirlo: è triste.
Nel giro di un anno è diventato vedovo e, per l'appunto, ammalato.
Non sarebbe semplice per nessuno (io, poi, sarei insopportabile), solo che, analogamente, nessuno ti può salvare.

Oltretutto, noi figlie siamo lontane ed è oggettivamente impegnativo mollare tutto e correre da lui.
Ammalarmi a Chieti, insomma, con lui con l'occhio mezzo cieco per via dei residui di cataratta, quindi impossibilitato a fare alcunché (anche per via delle sue abitudini: mio padre non fa nulla senza la macchina), è stato un incubo.

Mi dispiace molto.
Fortuna che a ora di pranzo del mio compleanno sono riuscita almeno a mangiare qualcosa. Persino un gelatino. E poi, come dice il saggio Bipede, i compleanni sono roba da bambini (resterò sempre una bambina sotto quest'aspetto, non ci posso fare niente).

Adesso, pezzetto dopo pezzetto, mi devo rimettere in piedi.
Stanotte sono stata a lungo seduta sul davanzale del nostro bagnetto ad assaporare il vento della notte e a seguire i lavori di pulizia del viale dove fanno il mercatino. Sarebbe stato meglio dormire, ovviamente, ma che ci si può fare? A un certo punto ho visto schiarire il rettangolo di cielo sopra la palazzina più bassa tra quelle che stanno dirimpetto alla mia e mi è quasi venuto da sorridere. Perché ho pensato ai cornetti della pasticceria in fondo al viale che pulivano, buonissimi.
Però mi sembra ancora un po' prematuro, considerato l'intestino sderenato.

Credo che passerò buona parte della giornata a dormire, spero profondamente e serenamente.

Voi che siete in forma, vi prego, godetevela pure per me.

Auf wiedersehen e buon ascolto:



martedì 7 luglio 2015

Noa e il disvelamento. Alla buon'ora

 
 

 
 
Ho conosciuto Noa diversi anni fa, più o meno agli inizi della storia che sto per raccontarvi. L'album (Love Medicine) dal quale è tratto il brano Little star, costruito su una melodia nota - presumo - in tutte le scuole elementari e medie del mondo, è dello scorso anno.
 
L'ha scoperto (manco a dirlo) per caso Paolo (il nome vero del Bipede) giusto a ridosso del trasloco. Sinceramente non mi ricordo se avevamo già fatto il rogito, comunque la musica di quest'artista israeliana-newyorkese è perfetta per i periodi di cambiamento.
 
Il mio rapporto con il Bipede è cominciato (più o meno) proprio con Noa. Ai tempi dello stage nel quotidiano Il Centro accompagnava non di rado le nostre gite fuori porta.
Ho passato mesi memorabili nella vecchia redazione pescarese del giornale che mio padre compra tutti i giorni, più o meno da quando è nato.
 
Non voglio assolutamente ammorbarvi con i miei ricordi di gioventù (sappiatelo: tutti i giornalisti, prima o poi, vi raccontano la loro vita), ma solo tornare per un attimo agli albori della mia vita adulta.
 
C'è chi diventa grande presto, per costrizione o per scelta.
Oggi posso dirlo: ho rischiato un sacco di volte di passare dall'immaturità alla muffa senza mai aver vissuto una vera fase di maturazione.
 
Succederà a molti, certo: dubito di essere speciale anche sotto questo aspetto.
Sia come sia, da qualche giorno vivo come se la cataratta l'avessero tolta a me, non a mio padre.
 
Come sono stata infantile. Quante energie buttate, quanta inutile (e dannosa) modestia.
Quante relazioni subite. Quanta negatività accumulata per vigliaccheria.
Quanto masochismo, in una parola.
 
Scrivo queste parole non per infliggermi ulteriori colpe immaginarie costruendomi l'ennesimo alibi dietro al quale continuare a nascondermi, ma solo perché sono, ebbene sì, ancora molto incazzata per averci messo così tanto tempo a capirlo.
 
Noa che c'entra, dirà qualcuno di voi (forse)?
Ascoltate attentamente la canzone.
A un certo punto dice:
 
Twinkle, twinkle, I will sing,
For tomorrow always brings,
Opportunities to begin again

Una ninna nanna che guarda al futuro non l'avevo mai sentita, mai comunque con questa potenza ed energia. Che voce sublime, accidenti.

Ascoltandola al mare due giorni fa, ebbene sì, ho pianto. Non avrei voluto farlo, come dice la canzone in un altro punto, ma le lacrime andavano giù da sé.
Mi sono scorsi davanti gli ultimi quindici anni, davvero come la pellicola di un film, anzi, come si vede nei flashback dei film.

Mi sono calmata solo quando è finita la canzone, o forse proprio l'album, lo stesso, tra l'altro, che asseconda meglio le mie corsette sul lungomare degli ultimi giorni (ho subito un brusco stop per via della febbre e della callaccia amara che ancora non ci ha mollati).

Si chiama, vi dicevo, Love medicine e per i cinici dei nostri tempi (quanti ne ho incontrati in questi quindici anni) sarà retorico, femminile e buonista.
Si fottano, perdonate il linguaggio da marinaio.

I primi giorni, in effetti, non riuscivo ad ascoltarlo per via della voce della riccia con il naso da aquila e gli occhioni da Bambi che ti costringe a stare lì a sentirla. Un po' come mi capita con Mina: con la tigre di Cremona non hai scampo. O stai lì e ti fai pervadere dalla potenza delle sue corde vocali o spegni e parli tu.

Sono riuscita a concentrarmi sulle singole canzoni solo quando mi sono ritrovata a tu per tu con la sua musica.
Peccato che Smile sia diventata il simbolo per eccellenza del buonismo piddino, perché anche quello è un magnifico pezzo.

In ogni caso...
sono stata interrotta dalla telefonata di mio padre.
Non ho molto altro da dire. Solo questo.

Se avessi figli, insegnerei loro innanzitutto a non mentire mai a loro stessi. A non avere mai paura di guardarsi dentro.
A non aver paura di nulla, come dice sempre Noa in un'altra splendida canzone.

Non aver paura di nulla non significa fare per forza bunging jumping, o come diavolo si chiama.
Significa solo alzarsi e andare, come mi ha costretto a fare mia madre il giorno che sono dovuta partire per Pisa per andare a prendermi la mia dannata (per molti inutile) laurea.

La strada ce l'avevo già chiara davanti con il suo solo esempio.
Ma lei a 24 anni era già una donna.
Mi fa male non averla qui accanto a me adesso, ma in qualche modo ne avverto forte la presenza.

Che sia la black star di Noa?
Domani si va a Chieti.
E' giusto così.

Buoni giorni a voi (e ascoltate la riccia!).


sabato 4 luglio 2015

#concorsonerai, presagi di una guerra (ahimè) necessaria


Qualche piccolo segnale premonitore di come dovesse andare a finire l'anteprima di questa storia, lo ammetto, mi era arrivato.
Del nostro amico senegalese Ibrahim detto Rai vi ho già parlato un po' di post fa.
Bene: il suddetto mi ha telefonato il giorno prima della mia gita a Bastia Umbra, nella calura crescente che non ci ha ancora mollati, verso la fiera di Perugia, dove si è celebrato un rito collettivo di biblico sapore.

Sono arrivata al padiglione 7 alle 10 e un quarto. Fresca, relativamente, e determinata a non parlare con nessuno.
Mi sono nascosta dietro agli occhiali da sole di mia mamma (uno dei due modelli che uso abitualmente) e, per i miei parametri, calma, ma anche vagamente incazzata, ho aspettato che facessero entrare anche noi del "varco 10".

Percepivo intorno a me una certa tensione, ma anche una vaga rassegnazione, soprattutto in quelli più vecchi. Come me. O forse ero solo io che proiettavo sugli altri il mio stato d'animo.
"Nella foto ero più giovane", ho detto alla bella moretta che mi ha preso tesserino e carta d'identità squadrandomi bene in viso per essere certa che fossi la stessa persona ritratta nella foto. "Me lo dicono tutti", mi ha risposto dolcemente, facendomi sentire ancora più vecchia e inadeguata.

Ho preso posto in fondo all'hangar di Casablanca - mi domandavo dove avessero spostato gli aeroplani con le eliche (non è vero: me lo sono appena inventato) e mi sono messa in attesa che ci dicessero qualcosa, provando, in verità, un certo imbarazzo intestinale. "Vado o non vado al bagno?", mi domandavo, sempre più incupita con me stessa per il corpo che in quest'ultimo periodo sta facendo un po' troppe bizze.

Alla fine ho resistito usando la mia solita strategia anti-stress: ho scambiato qualche parola con la ragazza alla mia destra, faccia concentrata, aspetto gradevole. "Però con la V fanno presto ad arrivare a noi", dice commentando l'estrazione della prima lettera del cognome dalla quale partiranno per la seconda (e terza) prova.
Chissà se anche lei aveva il presentimento di potercela fare. Chissà se ce l'ha effettivamente fatta. Ignoro come si chiami. Dopo la prova non ci siamo neanche salutate. Meglio così. Troppa confidenza crea solo mala creanza. I detti di una volta hanno il loro perché, date retta a zia Alessandra.

Uscita, mi sono allontanata il più rapidamente possibile dalla fiera, il Bipede tra i coniugi, compagni etc etc in impaziente attesa. Si schiattava di caldo e lui non sopportava nessuno (in particolare i candidati che avevano già finito la prova), dev'essere stato uno sforzo non indifferente farmi da body-guard in questa circostanza. Io, in tutta risposta, mi sono mangiata senza battere ciglio la metà del suo panino direttamente in macchina, manco il tempo di raggiungere un luogo più ameno.

Ma torniamo per un attimo a Rai: mio nipote piccolo, almeno fino all'anno scorso, tutte le volte che lo vedeva gli domandava: "Ma sei Raiuno, Raidue o Raitre?".
Me ne sono ricordata quand'eravamo già a casa, risvegliandomi dal riposino della nonna.

No, non può essere, mi sono detta, riscuotendomi.
E invece è.

Per cui adesso, alla vigilia delle 44 primavere, mi aspetta un'estate di matto studio, con l'assoluta consapevolezza che sarà una vera guerra.

Qualche giorno prima della prova, mi sono iscritta al forum dei candidati su Facebook. L'ho fatto pensando che potessi ricavarne qualche indicazione utile sia su cosa studiare sia sui problemi logistici eventualmente riscontrati da chi era già lì.

Di informazioni ne ho ricavate parecchie, devo ammetterlo, ma su aspetti che non mi sarei mai immaginata.
Per esempio, su quanti siano i professionisti più o meno a spasso, ma questo era, in fondo, scontato.

Tra i molti rosicamenti di chi non ce l'ha fatta, ho notato anche quella tendenza tipicamente italiana al complottismo.
Sinceramente: perché sprecare le proprie energie a interrogarsi su come siano stati redatti i quizzzzz, sui cognomi illustri di quelli che sono passati e sul fatto che tra quelli che ce l'hanno fatta diversi non hanno mai fatto tv?

Una persona ha giustamente fatto notare quel che è: i 400 selezionati si prenderanno a coltellate solo per essere nel gruppo dei 100 che andranno a formare una graduatoria dalla quale si potrà (forse) pescare entro i prossimi tre anni per contratti a tempo determinato.

Detto in altri termini: io potrei (sempre che lo passi) ritrovarmi ad avere il mio primo contrattino in Rai a - minimo - 47 anni.
E nel frattempo che faccio? Forse la colf, che manco mi riesce, la stiratrice (mmmh), la daddy-sitter (quello lo faccio abbastanza bene, pare).

E infatti tra gli amici che hanno declinato il gentile invito al party umbro, ce n'è più d'uno che ha ridato un'occhiata alle proprie priorità, dicendosi: ma figuriamoci, non c'è neanche da bere.

Scherzosamente, una delle mie ex compagne di casa dei tempi (poetici, per forza di cose, visto che sono lontanissimi) della scuola di giornalismo, mi ha detto che vuole "il primo stipendio" come pizzino. Mi ha fatto davvero ridere. Speriamo (nel caso) di arrivarci per lo meno prima della menopausa.

A beneficio di chi non conosce tutta la mia storia, comunque, io in Rai ci sono stata, ed è anche per questo che mi fa una certa impressione pensare di rientrarci fosse anche solo per espletare fino in fondo il mio ruolo di candidata.

I miei primi stage sono stati a RadioRai. Poi ne ho fatto uno nel programma di Enzo Biagi, al quale è seguito un contrattino.
In seguito ho preso altre strade, ma in questi giorni mi sono ricordata di come ero e di come non sono più.

Il mio cognato tedesco ha fatto un'osservazione giusta: forse, ha detto, neanche la Rai è più quella di quindici anni fa. E già. Bisognerà adesso capire in che modo siamo cambiati lei e io e se possiamo eventualmente andare d'accordo.

Finisco con un altro segno premonitore, stavolta auto-indotto.
Lungo la strada per Bastia, non so come, mi è venuto in mente Francesco Guccini.
Mi sono ricordata in particolare della canzone che si chiama Autogrill (ecco perché: ne abbiamo agognato uno per parecchi chilometri per necessità fisiologiche. Bisognerà che avvisi gli addetti ai candidati di mettermi a disposizione un pitale, mentre svolgo le mie prove. Sennò pannolone e stop).

Mio marito detesta tutta la musica italiana, per cui, snobbandomi, ha subito commentato: "Che palle".
Io gli ho ribattuto che uno dei brani inediti di Tracker del nostro amato Mark Knopfler (per la precisione My heart has never changed) parla più o meno di quel che dice il Guccio nel suo. Certo, musicalmente siamo piuttosto agli antipodi, ma io, sotto sotto, al Francescone nazionale sono affezionata per ragioni sentimentali.

Bene.
Una delle domande del quizzone era: Chi ha composto l'album live "Tra la via Emilia e il West". Guccini, ovvio.
Un sacco di candidati l'ha cannata. Io no.

Non vi dico (ma sì: ve lo dico) che errori del C. ho fatto io.
Le Déjeuner sur l'herbe? Ovviamente è di... no, mi vergogno troppo se vi rivelo quale risposta ho segnato. Mamma mia. Mamma Rai mia.

Però, a parte qualche svarione davvero imbarazzante, mi sono riconsolata: farmi studiare, alla fine, a qualcosa è servito.

Adesso sono, come dicono gli spiritosi, volatili per diabetici.
Spero solo che mi passi questa dannata febbriciattola psicomatica.
L'avevo detto io che sarebbe stato meglio se non mi convocavano.

Il buon Rob Brezny, quello degli oroscopi di Internazionale, sostiene che devo, una volta buona, agire non da cancerina. E' una parola. Alla preselezione - ebbene sì - ce l'ho fatta, ma mo'?

Mo' vediamo.
Intanto mi godo, per così dire, ancora per qualche ora il meritato riposo (indotto dalla febbre, ahimè).

E poi
à la guerre comme à la guerre.

Chi l'avrà detto?
Meglio che controlli, va.
Per il prossimo quizzone, stavolta da Gerry.

giovedì 2 luglio 2015

Mondo operaio, la vera cronaca del trasloco più lungo della storia



E niente, da quando vi ho promesso che mi sarei di nuovo fatta viva con la seconda puntata di Mondo operaio, sono successe talmente tante altre cose che, davvero, se non la scrivo subito, non la scrivo più.

Torniamo a quel lontano (issimo) giorno di fine maggio. Il 29 maggio, per essere precisi. Svegli dall'alba, noi bipedi (e inconsapevolmente i quadrupedi) immaginavamo che la giornata incipiente sarebbe stata lunga. Non potevamo tuttavia sapere quanto.

Partiti gatti e marito, mi sono messa in attesa abbastanza zen dei traslocatori. Ci avevano assicurato che sarebbero arrivati alle otto in punto. Si presentano mezz'ora dopo, ma comunque mi avvisano e io, tra me, democratica come sono, mi dico: "e vabbè, un ritardo ci può stare. Sono tanto giovani. Ieri sera forse hanno fatto tardi".

Salgono e cominciano a lavorare all'apparenza con grande alacrità. No, l'alacrità è autentica, ma nel mio animo liberal fanno capolino i primi dubbi. "Ce la faranno a portare tutto entro le 16, termine massimo per l'occupazione del suolo pubblico, da me salatamente pagata?".

No, perché, a naso, continuo a rimuginare, a che cosa serve ammucchiare tutti i pacchi davanti al portone, nemmeno se stessimo allestendo una bancarella da rigattiere, se prima non smonti i mobili?

Diverse ore dopo avremmo avuto risposta al mio, in quel momento, affiorante quesito.

Ed era: certo che avrebbero dovuto innanzitutto smontare e rimontare i mobili e solo in un secondo momento occuparsi di pacchi e valigie.

Imbufalita come un leghista (si cambia facilmente ideologia quando si è sfiniti), ho ancora fissa nella memoria l'immagine di me stessa che sposta pacchi da una stanza alle altre della casa nuova, per fare spazio ai nuovi che i collaboratori del giovane capo azienda continuavano a portare di sopra.

"Signora, lei deve seguire me: dove vanno queste cose?". Mi dice a un certo punto uno dei facchini (perché di questo stiamo parlando. Detto, naturalmente, con il massimo rispetto per la categoria: il problema è che a noi non servivano dei facchini, ma degli operai specializzati in traslochi).

Furibonda, gli borbotto, spostando a mia volta tre-quattro borse alla volta, "di qua, di là", e via discorrendo.
Resosi conto del mio stato d'animo, forse per tentare di rabbonirmi il suddetto facchino commette però un gravissimo errore: prova a fare lo spiritoso.

"E se avevate figli quanti pacchi avevate?". Non reagisco. Ma lui, dopo poco: "Fai la professoressa, signora? Vedo che hai tanti libri". Mia risposta: "No". Secca come una delle mie piante tra breve.
Più avanti: "Ma ve c'entra tutta sssa roba? Pare tando piccola ssa casa".
Sento che dalle narici mi esce qualcosa, del genere fumo sulfureo: "Veramente sono ottanta metri più quindici di soffitta", acida come gli yogurt 0,1.

Finito il "passamano", anzi, lu passamà, come definiscono il passaggio di mano in mano degli scatoloni lungo le scale della palazzina nella quale viviamo dall'altro ieri ufficialmente pure per i vigili urbani, si pone il problema di come (e quando, visto che nel frattempo si sono fatte le dieci di sera) montare la cucina.

Perché, fino a quel momento, l'unico ambiente che i nostri eroi sono riusciti, pezzo più pezzo meno, a riprodurre è la camera da letto. Circondata, anzi, sommersa, dai pacchi che ho dovuto spostare dall'ingresso per far spazio alla varia mobilia pressoché tutta smontata.

Ve la faccio breve.
In questo modo.
Vrrrrrrrr... (suono del trapano, ndr, ripetuto anche più avanti), non gebbbocca ("non ci entra"), vrrrrrrrr.... non iiira ("non gira"), vrrrrrrr, nongebocca, non forzà.

Nei giorni seguenti il bipede è andato avanti con questa litania in vernacolo shtrittu shtrittu svariate volte al giorno. Impossibile scordarlo.
Non sapevo che esistesse la sordina per il trapano, comunque. L'ho scoperto quando, verso le 23.30 circa, il gruppo residuo della provetta squadra ha cercato, effettivamente con sforzo sovrumano, di terminare il lavoro della cucina.

Ce l'hanno fatta, secondo voi? Ma quando mai.
Sporca, tesa, pronta pressoché alla jihad anti-operaista, io comunque, per evitare di scagliare la fatwa su qualcuno, a un certo punto ho rifatto il letto tirando fuori lenzuola e coperte dalla valigia, che mi ero prudentemente preparata all'inizio dell'infinita giornata, e me ne sono andata a dormire.

Per tutto il giorno, peraltro, il marito, in genere polemico e puntuto, si era quasi arrabbiato con me nel vedermi a mia volta polemica e puntuta. A un certo punto, anzi, abbiamo pure un pochino discusso. "Ma insomma, dovevano pur mangiare!". Ma certo, ma figuriamoci. Non sia mai che mi svengano sulle scale (rallentando ulteriormente il lavoro), ma, forse, dico forse, una pausa pranzo di due ore circa è un po' troppo. O no?

Alle 15, infatti, quando tornano a Fermo dove ero rimasta in solitaria attesa da mezzogiorno in poi, praticamente me li sono mangiati (anche perché, al contrario loro, io ero quasi a stomaco vuoto).
Nell'attesa, naturalmente, avevo portato parecchie delle nostre cianfrusaglie sempre nell'androne del gentilizio palazzo fermano, mutatosi del tutto in un bazaar, con il risultato di procurarmi pure una infiammazione al ginocchio sinistro e varie vesciche ai piedi (le all stars sono le scarpe più anti-anatomiche del mondo).

Ma pazienza: sono una che sfacchina (la prossima volta mi faccio ingaggiare da loro, per la precisione voglio lavorare ai comandi di quello che s'impicciava dei fatti miei di cui sopra. Così se lo ammazzo è per legittima difesa).

Il giorno dopo, oltretutto, l'incazzatura mi era già passata.

Sapete chi nel frattempo è diventato nero nero? Il nostro Bipede, of course.
L'ira (iiirante come le balle) gli è scattata quando si è accorto di come avevano rimontato la cucina: cappa e fornelli da una parte, il forno dall'altra.

Non ci ha visto più.
Alle otto (eravamo svegli, facendoci largo tra i cartoni, tipo dalle sei) ha chiamato il capo-banda e gli ha fatto una lavata di testa che riesco solo a immaginare.
Sì, perché ha preferito uscire ben sapendo che sennò mi sarei ri-imbufalita nuovamente.

Il trasloco, sulla carta "fattibilissimo" (cit), alla fine è durato cinque giorni, intervallati, peraltro, da altre piccole disavventure, tipo il tubo della lavatrice attaccato male (leggi: non attaccato), del quale mi sono tristemente accorta solo quando, ovvio, avevo mandato un lavaggio a pieno carico.

Il buco in più nel bagno, che sta ancora lì, quando tentavano di montare (vrrrrrr....) i pensili della cucina.

Non torno sul capitolo elettricisti, ma giorno dopo giorno, ho notato che, ok le canaline, ma qualche presa in più me la potevano pure mettere.

E insomma.
La mia cronaca forse poteva essere più leggera di come non l'abbia buttata giù.
Ma sono ancora piuttosto stanca. E stavolta la casa non c'entra.

O meglio: c'entra, perché comprarla mi ha spinta a ritirare fuori il mio (scarso) super-ego, ossia a partecipare alla preselezione del concorso Rai, ribattezzato dai colleghi #ilconcorsone (c'era pure una domanda su che cosa sia l'hashtag, il che, tutto sommato, ha pure un senso).

Sono combattuta se scriverci su qualcosa. Se lo facessi adesso, sarebbe di una cupezza sconfortante, quindi lascio correre. Vi linko giusto Luca Fazzo, infiltrato (per sua fortuna) per il Giornale.

Vi dico solo che, come il trasloco, che ormai mi sembra già un ricordo lontanissimo, pure l'esperienza umbra sarà presto un ricordo.

E d'altronde: vrrrrrrrr, 2.800 candidati per 100 posti a tempo determinato?
Nongebboccano.