CIOE’
Cioè,
allucinante. Ero lì steso sul sedile, coll’mp3 e i chemical
sparati nelle
orecchie
(cioè, la mattina sono in uno stato, cioè, praticamente un vegetale
ammuffito)
quand’ecco che mi si piazza di fronte uno che una cloaca sarebbe
stata
più
odorosa.
Cioè,
praticamente ho dovuto aprire il finestrino, anche se fuori faceva un
freddo
maiale.
Giuro, non si respirava, avevo ancora il sapore del caffè e della
siga, le
uniche
cose che mi rimettono al mondo quando rotolo giù dal letto, che
adesso lì,
con
quello davanti, mi veniva da vomitare.
Sto’
tizio, invece, che fa? Blatera tra i denti qualcosa, anche se non
capisco cosa
perché
avevo ancora su la cuffietta, una sola però perché per aprire il
finestrino
l’altra
m’era caduta giù.
Poi
l’ho guardato meglio: giuro, cioè, aveva una faccia da film
dell’orrore, di
quelli
che se lo vedi in un angolo buio ti prendono e ti corcano di mazzate
così, a
mani
nude.
Sulla
capoccia, calcava un cappellino con la visiera. Dalla tesa alle
sopracciglia,
non
scherzo, oh, non si vedeva la differenza, erano troppo folte, cioè.
E forse, mi
sa
tanto, anche la fronte non doveva essere proprio spaziosa.
Praticamente un
ominide
di Cromagnon era più figo. Gli occhi, neri neri, rimandavano un
guizzo
pazzoide
che proseguiva nel ghigno satanico delle labbra. Intravedevo pure i
denti
stranamente
bianchi nonostante il fetore irraggiante da tutta la persona.
Aveva
su un giaccone scuro macchiettato dai pallini bianchi della forfora,
che
schifo.
Mi
sono guardato intorno per vedere se per caso c’era qualche altro
posto libero,
ma
nada de nada, gli altri sedili erano tutti occupati. Non potendo
spostarmi,
allora,
mi sono tirato fin sul naso la sciarpa, attento a respirare solo il
profumo del
mio
dopobarba (eh sì, mi sentivo un po’ femminiello, ma oggi mi vedo
con
Pamela:
almeno la barba corta, su, per non sembrare un talebano...ho pulito
persino
le orecchie con il cotton fioc, minchia che signorino sono
diventato).
Cioè,
insomma, figa, io non sono uno che ha fatto proprio pace con il
sapone,
però,
really, pure il mio cane sarebbe stato più profumato di sto’ tizio
qui.
Ho
pompato il volume cercando di distrarmi, ma col motore del pullman e
il vento
pure
i Subsonica sembravano la Pausini. Avevo da poco chiuso gli occhi,
quando
sento
un urlo disumano.
“CHIUDI
IL FINESTRINO, FA FREDDO, PORCA M...!”.
Cioè,
il tizio puzzolente aveva dato di matto: stava in piedi di fronte a
me e mi
incendiava
con i suoi occhiacci da pazzo.
Cioè,
mì, io non sono un cacasotto, ma il tipo m’ha fatto venire proprio
quella
voglia
di fare quella cosa lì che esce dal posteriore. Una fifa verde,
santo dio. Ok,
ok,
stai calmo, chiudo, non ti agitare. Poi mi giro e vedo che c’è una
vecchina che
mi
fa, quasi a giustificarsi: “Sono stata io a dire di chiudere: mi
arriva troppo
vento...”.
Cioè, penso io, d’accordo, signora mia, hai pure le tue ragioni,
cioè sei
anziana,
a un passo dal cimitero, però non potevi dirlo a me anziché farmi
rischiare
di seguirti subito dopo, con sto’ pazzo qui che mi alita
mefiticamente
urlando
come se mi volesse squartare?
Cioè,
ho chiuso il finestrino e mi sono rincalcato sul sedile a braccia
conserte e
metà
faccia nella sciarpa. Tanto, mi sono detto, mancavano poche fermate.
Per
riprendermi dallo choc, vado in fissa con il paesaggio, cioè ci
provo. Anche
perché
sto’ piattume campagnolo mi ha un po’ consumato i due gemelli.
Oh,
da non crederci. Fuori qualcosa era cambiato. Cioè, era praticamente
tutt’un’altra
cosa.
E
lì il sangue mi s’è ghiacciato: al posto delle risaie erano
spuntate dal nulla
colline
ricoperte di ulivi e campi pezzati di marrone e verdino. Vedevo pure
dei
tizi
in lontananza che stavano falciando delle lunghe piante gialle, le
donne
portavano
dei fazzoletti in testa e legati sotto il mento, le donne, gli uomini
dei
cappellacci
di paglia, larghi larghi. Qualcuno, m’è parso, ci ha pure salutato
come
facevo
io da poppante con il treno.
Cioè,
giuro, era tutto vero, mica stavo sbroccando.
Poi
mi sono girato per osservare le reazioni degli altri passeggeri. E
mica
facevano
nulla. La vecchina aveva allentato il bavero del cappotto e s’era
portata
un
fazzoletto sotto al naso; naturale, ora con il finestrino chiuso, le
arrivava tutto il
puzzo
del mio dirimpettaio.
Più
avanti, adesso me ne accorgevo, c’era la signora bionda, con la
pinza nei
capelli
tirati su a mezza nuca, che c’ha sempre l’orecchio incollato al
cellulare.
Sarebbe
pure abbastanza bona se non fosse che a me le russe (perché mi sa
che è
russa)
non m’attizzano. Pamela sì, la mia moracciona, mi fa pensare a una
pantera.
Ma
è meglio se non ci penso ora sennò m’accusano d’essere un
maniaco peggio
del
puzzolente qui.
Ci
fermiamo. Qui di solito salgono sempre dei vecchi bacucchi e nonnette
male in
arnese:
deve esserci una clinica geriatrica, mica lo so, però sarà così
sennò sto’
concentrato
di muffa non si giustificherebbe.
Eccolo,
di nuovo lui! Zaino sulle spalle, sale un vecchiaccio antipatico che
c’ha
sempre
qualcosa da dire, e prodi e berlusconi, e i politici tutti uguali, e
la vecchia
che
timbra il biglietto alla rovescia e la macchinetta glielo risputa e
lui che le dà
consigli
su come fare, manco fosse un professorone. Una volta mi ha talmente
fatto
girare le balle che ho preso e mi sono spostato piuttosto che stare
vicino a lui.
Cioè,
figa, m’ero seduto sul sedile riservato ai portatori di handicap,
ho capito,
cioè,
però non mi puoi smaronare se di disabili non ce n’è e io sono
stanco, ho
studiato,
mi sono massacrato di ripetute agli allenamenti, e minchia, ora quel
posto
me lo cucco io.
Con
i suoi occhiali a goccia, spessi e veramente orridi, dispensa pure
stavolta le
sue
perle di saggezza. Meno male che sta più avanti, però il puzzolente
qui, prima
impegnato
a leggere un libro alla rovescia (giuro, cioè, non scherzo!) si gira
verso
di
lui e ride, ride. Evidentemente tra i due c’è feeling.
Uh,
ci mancava pure Enzuccio. Ma sì, Enzuccio, quel povero scemotto che
dice
sempre
“ciao” a tutte le donne (possibilmente fighe, ma Enzuccio è
generoso,
saluta
pure le nonne). Era già su, solo che dormiva, perciò non l’avevo
notato
prima.
Come vede il professore, Enzuccio si rianima, fa “ciao” pure a
lui, e quello
platealmente
ricambia. Poi nota una bella signora con un culotto tondo alla
Jennifer
Lopez che sta per scendere e gli fa: “Enzuccio, ce la teniamo la
signora e
facciamo
scendere qualcun altro?”. Cioè, è un complimento, solo che culo
tondo
si
impettisce e si vede che se potesse non gliela manderebbe a dire. Poi
le porte si
aprono
e addio Jennifer.
Mancava
però la vera perla dei pendolari della bassa: “Scusi, va in
centro? Ah,
vabè
grazie”. La voce è chioccia e squillante, la corporatura robusta e
l’età
indefinita.
Sale sempre a ridosso dal centro con una signora piccina piccina,
probabilmente
la madre, tutta arruffata. Cioè tutte le sante volte che lo vedo,
giuro,
chiede sempre la stessa cosa: e dove vuoi che vada il pullman, penso
sempre
io? Il percorso è sempre quello.
E
però ora non c’ho il coraggio di guardare fuori dal finestrino.
Cioè, ormai siamo
arrivati
in città, tra poco toccherà a me scendere, due ora in biblioteca,
du’ palle, e
poi
la mia Pamela... speriamo che il tempo regga, sennò al parco ci
congeliamo,
cioè,
non c’abbiamo una casa, io c’ho solo il motorino. Insomma,
bisogna
aspettare
che la sua coinquilina smammi per ... stare un po’ con la panterina
mia.
Forse
tra noi la storia va avanti perché per vedergliela ogni volta
passano mesi. E
chissà.
Comunque,
dicevo, non ho il coraggio di guardare fuori. E se l’allucinazione
campestre
non fosse sparita? Cioè, figa, come nel film di troisi e benigni,
quello
che
si ritrovano in un’altra epoca di botto...
Guardo.
Figa.
E’
uguale.
Anzi,
peggio.
Vedo
che adesso accanto a noi passano dei carretti trainati da cavalli.
Due donne
in
corpetto e gonna lunga si sventagliano mentre chiacchierano sulla
via, poi si
fanno
indietro per paura di essere sporcate dalla polvere alzata dalle
ruote delle
carrozze.
Poco più avanti, un contadino si trascina sulle spalle un sacco a
forma di
cono
pieno di quelle piante gialle che poco prima aveva tagliato.
Sulla
corsia opposta al nostro pullman passano due militari a cavallo, con
il
copricapo
appuntito e la forma triangolare, come quelli che vedevo sul libro di
storia
al liceo.
Mì,
sto sbroccando. Sento salirmi un’ansia pazzesca. M’accorgo che
sto sudando,
ma
il sudore mi si fredda addosso, come quando corro d’inverno e poi
mi fermo
per
allacciarmi una scarpa.
Chiudo
gli occhi un attimo e li riapro lentamente. Magari adesso è tornata
la mia
bella
(ma quando mai l’avevo pensato?) città piatta e nebbiosa.
Niente
da fare. Fuori dal vetro splende un sole di primavera, il cielo è
solcato dalle
rondini
e i ruscelletti sgorgano dalle colline sullo sfondo, come nei
disegnini delle
elementari.
Eppure,
mi dico, che figata. Sembra di essere entrati in film in costume,
troppo
tosto.
Cioè,
pure senza calarsi niente, farsi un cylum, figa, si possono provare
sensazioni
da
sballo.
Minchia,
grande.
Sento
che pure il sedile sotto il mio sedere sta cambiando consistenza.
Cioè, non è
più
di plastica, ma di legno, wow. E pure i miei compagni di autobus, la
vecchina,
per
dire, non ha più quel cappottaccio marrone, di lana infeltrita, ma
una gonna a
fiori,
uno scialle ricamato e un bel fazzoletto sul capo. Pure il professore
c’ha
degli
strani calzoni fermati sul polpaccio da stringhe rosse e sul testone
unticcio è
comparso
un cappellaccio di paglia che tiene fermo con una mano per non farlo
volare
via.
Non
siamo più sul pullman neanche noi, adesso, ma su un carretto come
gli altri.
La
bionda adesso ha un’acconciatura elaborata, alta e intrecciata, il
seno è
strizzato
in alto e sotto la gonna a pallone calza un paio di stivaletti con un
tacco a
rocchetto
veramente hard. Cioè, devo dire a Pamela se si veste così, mi sa
che
m’incastra
per sempre, cioè.
E
il puzzone? Il puzzone è sparito! Cioè, cos’è sta’ storia? Non
sarà che ci ha
trasformati
tutti e se n’è andato?
Sì,
ok, il gioco mi piace un casino, però adesso vorrei tornare nel
ventunesimo
secolo,
anche perché Pam mica c’è anche lei, e poi non so se le
piacerebbe
mettersi
il corpetto, tirarsi su i capelli a banana e sventolarsi come le
beghine.
Puzzone,
andiamo, dai, fammi tornare alla modernità.
Eddai,
avanti...
Non
dondoliamo più, pure i red hot mi hanno abbandonato.
“Uela,
giovanotto, finito il riposino? Mica possiamo stare qui a ninnarti
perché la
notte
stai col culo al fresco fino all’alba?”.
Cioè,
figa, m’ero addormentato. Cioè, stavo sognando. Cioè, lo vedi che
può
succedere
se manca l’ossigeno?
Mi
scuoto, vagamente mortificato e balzo giù dal pullman.
####################################################
ARIA
VIZIATA
Chissà
perché, i locali uso ufficio hanno sempre quell’aria un po’
stantìa, da
vecchio
film anni Settanta. Di più, in città come in provincia, al nord o
nel
centro
Italia, appena varcata la soglia delimitata dal pesante portone
blindato o da
una
più modesta in legno plasticato, si viene avvolti da un calore
malsano di
radiatori
misto agli aliti non proprio freschissimi degli occupanti.
Prima
ambientazione: una città del nord, anzi, la città del nord per
eccellenza,
Milano.
Il
titolare è un commercialista. Come in genere capita, è maschio,
ultrasessantenne,
la salute ormai compromessa ben mascherata da una postura
volitiva,
di chi non ci pensa proprio di mettersi a riposo. Men che meno manda
via
la
sua segretaria, femmina, poco più giovane di lui, che un giorno gli
aveva fatto
girare
la testa con le sue gonne appena sotto il ginocchio e le prime calze
di nylon
15
denari color carne, tenute salde intorno ai fianchi dai calzoncini
melange
proteggi-reni.
Oggi il taglio delle gonne è rimasto lo stesso, solo due (fai pure
quattro)
taglie in più, sui polpacci gonfi di ritenzione idrica contenuti da
calze più
spesse,
di quelle che si comprano in farmacia. Ma il commercialista non
assumerebbe
mai una segretaria più giovane: una volta ha provato ad
affiancargliene
una, con uno di quei contratti moderni, co.co. qualcosa, ma questa
non
voleva neanche preparargli il caffè, e poi dicono che vogliono
lavorare, questi
giovani.
In
piedi, al di qua del grosso scrittoio di legno marrò, non si sa se
sedersi, visto
che
il capo non invita neanche con un cenno a prendere posto sulle sedie
da
ufficio
con lo schienale imbottito e le ruote girevoli. Alla fine, facciamo
da noi:
restarsene
impalati e ritti come nella coda alle poste è troppo patetico.
Che
garanzie possiamo dare? Mah, vediamo: io collaboro saltuariamente
nell’editoria,
il mio “ragazzo” sta cercando lavoro… però abbiamo papà con
la
pensione
sicura che fa da garante. La casa? Beh, è un po’ fuori mano, però,
di
questi
tempi, 700 euro per 65 metri quadrati sono proprio un affare. La
testa del
capo
tremola mentre cerca di fissare lo sguardo sull’agenda, per
prendere appunti
su
di noi: traduco dal disprezzo con cui traccia “collabora” che sta
pensando in
realtà
“si arrangia, ma non c’ha una lira”, “cerca lavoro? Sì
vabbè, è nullatenente”.
Il
cranio dondolante lascia pensare che il vecchio abbia un principio di
Parkinson.
Sì,
c’è un figlio che fa il suo stesso lavoro, ma niente, non è
capace, perciò lui “è
costretto”
a restare al comando; lo studio l’ha creato lui, del resto, con
fatica e
sudore,
giorno e notte lì dentro senza il babbo che l’aiutava.
Insomma,
sfigati, senza soldi e pure smidollati. Ci stringiamo le mani con
poca
convinzione
e siamo fuori. L’aria è satura di smog, ma sembra incredibilmente
pura
rispetto a quella che abbiamo respirato fino a un attimo prima.
Altra
città, più piccola, al confine tra centro e sud, stesso copione:
stavolta
l’ambientazione
è un’agenzia immobiliare, al primo piano di un palazzo senza
identità,
costruito su una strada in un tempo neanche poi così lontano in cui
di
sicuro
era attraversata solo da carretti. Gli arredi sono meno pretenziosi,
ma l’aria
viziata
è la stessa. Ci accoglie un vecchio se possibile ancora più matusa
del
lombardo
commercialista, bassetto e tarchiato, occhi da rana.
Ci
fa strada in una stanza dal soffitto incredibilmente basso, con
un'ampia finestra
che
domina sulla via. Nell'attesa che il figlio si liberi dalla
telefonata, il vecchietto
ci
squadra da capo a piedi, mentre i miei occhi sono attratti dalla
macchina per scrivere che sta dietro di lui. Una poltroncina in simil
pelle amaranto, consumata
sui
braccioli che disegnano due angoli poco meno che acuti m'invita a
saggiarla: il
sedile
è sufficientemente morbido, si sgonfia con un sibilo sotto il mio
sedere, ma
mi
domando, mentre appoggio le braccia atteggiandole in un'angolazione
altrettanto
bizzarra quanto i braccioli e stringendomi leggermente nelle spalle,
quante
persone di dimensioni un po' meno ridotte delle mie (che già non
sono un
gigante)
ci si potrebbero accomodare senza restarne incastrati. Un'altra
macchina
per
scrivere nera spicca sul mobiletto di legno lucido; l'affianca un
vecchio
apparecchio
per i telex. Evidentemente il vecchio immobiliarista è un
nostalgico.
Passa
qualche altro minuto, finché si palesa il figlio. Se possibile, è
più
malinconico
del padre. Capelli neri diradati sul cranio squadrato, come sarebbe
evidente
se se ne facesse una sezione aerea, a occhio ha più o meno la nostra
età,
tra
i trenta e i quaranta, per usare una categoria statistica al posto
dell'osservazione
empirica.
Perché il figlio immobiliarista è di quel tipo difficilmente
catalogabile
all'anagrafe:
forse era già così a dieci anni. L'occhio tondo da triglia lascia
trasparire
un non eccelso QI. E però il ragazzone si sforza di darci una
speranza,
mentre
non ci fa neanche segno di accomodarci (aridagli) sulle sedie dello
studiolo
di poco più moderno dell'anticamera, affollato di agende bancarie in
pelle
(macché
pelle) nera e da registri lisi sui quali annota, come in un archivio
degli
anni
Cinquanta, le caratteristiche dell'appartamento che vogliamo. Quello
dei
sogni,
certo, ammobiliato o meno è uguale, purché non al di sopra dei
400-450
euro,
magari pure in centro e se possibile con contratto regolare. Poi
magari
vogliamo
pure un caffè e la pastarella, tutto compreso nella trattativa.
Facile come
bere
un bicchiere d'acqua, sì sì.
Ma
la proprietaria non vuole single, sapete, è di quelle donne di
chiesa... e beh,
certo.
Noi ci sposiamo prima di entrare nel suo economicissimo e senz'altro
confortevolissimo
appartamento sulla statale. Me l'immagino già la trafila: 740,
garanzie
di babbo.
Andiamo,
su. Meglio uscire all'aria.
Il
ritratto della bigotta che mai sarà la nostra nuova proprietaria è
il dejavu di
quella
che purtroppo padrona di casa lo è stata davvero.
Il
cappellino di lana, tondo, da nonnina, nascondeva una chioma
stopposa,
neanche
troppo imbiancata. Perché la megera, chiamiamola disneyanamente
Crudelia
Demon, non era poi così anziana, solo che se ne stava rannicchiata
sulla
sedia
di velluto rosso del tremolante commercialista adducendo una grave
influenza
a ragione del suo portamento monacale e dimesso.
E
invece le frullava ben altro nella testa. Cose tipo “questa qui mi
sembra una
buona
polla da spennare”, con quella faccia da Madonnina infilzata (è un
simpatico
complimento che mi è stato rivolto per davvero). Anche il mio
ragazzo,
del
resto, non aveva certo l’aria di un avanzo di galera, il che, in
certi casi, può
essere
un difetto. Due tipi che non fanno paura neanche a un cane
traumatizzato
dalle
bastonate (giuro, è successo davvero) non possono dare grane: sicuro
come
la
morte che pagano tutto fino all’ultimo centesimo e pure di più.
Entrati
in possesso dell’abitazione, un bilocale al quarto piano senza
ascensore
sulla
sommità di un palazzo un tempo di un certo pregio, caduto in
disgrazia come
un
nobile durante la rivoluzione d’ottobre, capiamo abbastanza in
fretta di aver
commesso,
mi si passi l’eufemismo, un’imprudenza.
I
segnali del clamoroso errore di valutazione non si manifestano tutti
insieme, no,
però
alcuni sono lampanti già dal primo giorno di permanenza.
Punto
uno. La porta è vecchia, solcata da inquietanti crepe verticali che
lasciano
intuire
che basterebbe una spallata per buttarla giù.
Punto
due. I materassi ricondotti malauguratamente in casa dalla cantina
nel piano
interrato
emanano un inquietante odore di muffa. Per il momento pensiamo di
avvolgerli
in doppio, triplo lenzuolo, ma capiamo dopo pochi minuti che dormirvi
senza
rischiare di essere assaliti da qualche pantegana insinuatasi tra un
grumo di
lana
e l’altro (ma erano di lana? Chi può saperlo, tanto erano
consunti) non era
opportuno
per la nostra salute.
Quindi
decidiamo di aprire il divano letto, quello che Crudelia Demon diceva
che
avrebbe
potuto fungere da giaciglio per eventuali ospiti. E qui arriva il
doloroso,
quanto
prevedibile punto tre: il nuovissimo divano a due piazze nascondeva
al
proprio
interno una resistente, questo sì, rete matrimoniale, tuttavia priva
di
materasso,
neanche di quelli bassi bassi, di gommapiuma. Un moto di rabbia
s’impossessa di me: capisco come in un’illuminazione buddista di
essere stata gabbata.
Ma
le sorprese non erano finite.
Nel
giro di pochi giorni si manifesta il punto quattro, sotto forma di
orrendi insetti
schiacciati,
neri e traslucidi. Il trasloco nell’avita dimora, del resto, era
avvenuto
in
aprile, con l’esplodere della bella stagione, nel trionfo della
vita che rinasce.
Perché
mai dovevano essere esclusi dal moto creativo solo i simpatici
animaletti?
E
infatti, loro, sentono il calore di una casa di nuovo abitata, si
inebriano delle
briciole
lasciate nella spazzatura, dell’umido della vasca, delle cacche di
piccione
attaccate
sulle balaustre delle porte-finestra. Ridurli al silenzio, con
un’operazione
chirurgica
di quelle che piacciono tanto agli americani, ci è costata una certa
fatica
e
una discreta intossicazione da insetticida. Però alla fine, ce
l’abbiamo fatta.
Crudelia,
nel frattempo, ci aveva avvisato che quando avessimo lasciato la sua
impeccabile
proprietà avremmo dovuto restituirle i materassi. Sicuro, pensavamo,
mentre
li facevamo rotolare giù dalle scale fino all’ingresso della
cantina, dando
loro
calci non proprio eleganti, dopo averli avvolti in doppi strati di
cellofan, per
assicurarci
di non toccarli oltre, non certo per proteggerli meglio dalla
polvere.
E
arrivò anche il giorno che tornando a casa, infilando la chiave
nella saldissima
serratura,
mi sono accorta che qualcuno aveva provato a forzarla. Per fortuna,
il
tentativo
d’effrazione, in gergo poliziesco, non era andato a buon fine, ma
lo
spavento
mi spinse ad avvisare Crudelia. Lei, naturalmente, non poteva farci
nulla.
E figuriamoci, tanto se buttavano giù la porta le uniche cose di
valore erano
le
mie. A no, dimentico i ninnoli che la prima settimana avevo
provveduto a
riporre
negli angoli meno accessibili: una fruttiera di ceramica dalla foggia
settecentesca
(solo la foggia, s’intende) con tanto di frutta di plastica
coordinata.
Un
porta-foto con cornice d’argento spessa, di quelle che si regalano
alle
comunioni,
e all’interno il ritratto di una giovane donna in abiti ordinari
tendenti
al
triste, chissà, forse la precedente occupante o magari una tizia
morta
prematuramente
vent’anni prima e ricordata malinconicamente con quell’orribile
scatto,
pure un po’ sfocato. Una roba inquietante comunque, che faceva il
paio
con
gli arredi di legno plasticato, contornati da guide dorate, massicce,
un comò-scrittoio
con
le gambe convesse e ghirigori finto Luigi XIV e un comodino (uno
solo)
alto e stretto con il piano di marmo, molto casa della nonna anni
Quaranta.
Ogni
volta che passava un camion i vetri di tutta la casa tremavano da
paura. E poi
le
sirene del vicino ospedale che squarciavano la notte lacerando i
sogni.
Un
piccolo excursus per dire che dopo diversi mesi, al momento del
tentativo di
furto,
la casa di Crudelia aveva già rivelato in pieno tutte le proprie
potenzialità
mefitiche.
Di pagare a metà con i proprietari una porta blindata che poi
sarebbe
rimasta
a loro proprio non se ne parlava. Crudelia sembrava delusa quando al
telefono
sciogliemmo la riserva: la porta blindata te la paghi tu, ora però
fateci una
qualche
dannata riparazione, altrimenti un pochino ci arrabbiamo.
Una
mattina arrivano i “Demon”. Quanto s’era atteggiata a fine e
angelica
nonnina,
lei, tanto sembrava uscito da Bianco, rosso e verdone, lui. Per la
precisione,
era l’incarnazione del clichè del meridionale cafone, arrogante e
malmesso.
Panza prominente e manone grosse, mister Demon fortifica la già
provata
porta d’ingresso con una doppia serratura da soffitta, di quelle
che
basterebbe
un buon cacciavite per smontarla in cinque minuti. Non osiamo dire
nulla,
anche perché, se non vado errata, una parte della riparazione (tipo
cinque
euro)
l’abbiamo pagata noi.
Ma
tant’è Milan l’era Milan: per “laurar” va bene pure un
tugurio, né più né meno
degli
immigrati stranieri, esattamente (o quasi) come i nostri nonni solo
cinquant’anni
fa.
Ma
siccome la sociologia non m’è molto simpatica (fondamentalmente mi
sembrano
tutte chiacchiere, mi perdonino i seri professionisti che la
praticano) e
dal
momento che, del resto, anch’io vendo fumo come un sociologo, cioè
esercito
un
altrettanto inutile lavoro intellettuale, un po’ mi giravano le
balle di vivere
come
un prossimo candidato alla mensa della Caritas.
Arrivò
infatti l’inverno che la caldaia tirò le cuoia: la colpa,
poveretta, non era
tutta
sua ma, per transustanziazione (?), di Crudelia sì. Mi aveva detto
di fare
riferimento
al suo idraulico quando avessi dovuto metterle il nuovo bollino per i
fumi.
Dovevo immaginare che se era un suo amico non poteva essere a posto.
Il
tipo
era un ometto sui cinquanta, chiaramente un altro meridionale
milanese di
recente
acquisizione, tarchiato e visibilmente arrapato. Il suo intervento è
risolutore,
nel senso che sfascia la caldaia del tutto, poi alla meno peggio la
fa
ripartire
ma la cosa non dura. Io so solo che ho tirato fuori forse 50 euro e
che
dopo
poco ho realizzato che la cosa migliore era chiamare (ad averlo fatto
subito,
maledizione)
il call center della ditta produttrice della caldaia. Dopo quindici
giorni
di freddo e gelo arriva un ragazzetto con una ventiquattrore ricolma
di
strumenti
iper-professionali che in un’oretta ripara tutto e mi spiega perché
a un
certo
punto la caldaia avesse preso a perdere acqua in quantità
orrorifica.
L’idraulico
dall’occhio caprino non sapeva tararla, in pratica non ci capiva
una
cippa,
per usare un francesismo. Grazie idraulico, grazie Crudelia.
La
rottura del riscaldamento avviene per fortuna a solo un mese
dall’abbandono
definitivo
della elegante dimora nonché dell’addio alla metropoli. Un addio
sofferto,
certo, ma forse meno doloroso di quello potevo aspettarmi.
“Chi
volta il cul a Milan volta il cul al pan”, ebbe a dirmi un parente
del mio
fidanzato,
mettendomi a parte di un detto lumbard che non ha bisogno di
ulteriori
commenti.
Sarà
stato vero, lo sarà ancora per molta gente. Però quando mi sono
ritrovata di
nuovo
davanti al commercialista a restituirgli le chiavi immergendomi
ancora una
volta
nell’aria stantìa quasi tutta respirata, davanti alle sue pratiche
nelle cartelline
di
cartone e la sua testa tremolante non ho sentito altro che una strana
leggerezza.
Mai
più Crudelia, mi sono detta, che possa spendere i suoi fottuti soldi
solo per
medicine,
ho aggiunto.
Dietro
al commercialista mi pareva che una folata di vento avesse fatto
aprire
leggermente
la finestra: prima ancora di uscire in strada, le mie guance erano
stranamente
fresche. Era come se l’aria viziata fosse sparita nel momento
stesso in
cui
il commercialista aveva poggiato le chiavi di Crudelia facendole
tintinnare
sulla
sua scrivania di mogano, tra le agende di pelle e le scartoffie
polverose.
####################################################
E
DOPO
Camminavamo
fianco a fianco, nel cortile a larghe mattonelle. Erano già
trascorsi
i primi mesi del mio contratto a termine, l’indomani avrebbero
dovuto
dirmi se la mia esperienza di lavoro sarebbe proseguita o no. “E
dopo?”.
Istintivamente
avrei voluto rispondere: “E come faccio a saperlo?”, ma pensavo
già
che avrei rischiato di risultare acida e aggressiva. La persona che
mi poneva la
domanda
non lo meritava: la sua era una preoccupazione autentica, la stessa
che
probabilmente
avrebbero avuto i miei genitori.
Dopo
che cosa avrei fatto? In quel momento speravo che il dopo fosse
rimandato
al
“dopo-dopo”, come in effetti poi accadde. Il contratto mi venne
prolungato per
ben
tre volte, il che mi permise di accumulare undici mesi di lavoro ben
retribuiti.
Poi
il dopo arrivò.
Nei
giorni precedenti dormii pochissimo. Con l’avvicinarsi della
scadenza che
sapevo
sarebbe stata definitiva, mi sentivo ogni giorno più smembrata, come
se il
corpo
e la testa navigassero in direzioni contrarie. Eppure, non attribuivo
la
tensione
direttamente alla causa: anzi, pensavo piuttosto di avere qualche
male
fisico,
che so, la pressione alta o una forma di nevrosi incurabile. Anni
prima la
mia
emotività aveva raggiunto livelli pericolosi, come una diga per mesi
ingrossata
dalla pioggia. Da allora avevo vissuto nell’attesa che
l’inondazione
potesse
verificarsi per davvero e anche se non era mai successo, finivo per
mettermi
sul chi vive molto prima di arrivare al travaso.
Il
primo giorno pulii freneticamente tutta casa. Ricordo di aver
ricevuto un sms
dalla
persona che mi aveva chiesto premurosamente che cosa avrei fatto
dopo,
quel
giorno in cui il dopo era ancora lontano. “Com’è andato il primo
giorno fuori
di
qui?”. Ebbe la cortesia di non scrivere “da disoccupata”, un
gesto che apprezzai
molto.
Probabilmente il mio amico voleva chiedermi come mi sentissi
psicologicamente,
ma io per natura tendo a prendere le parole in senso letterale,
attaccandomi
a loro come se le stessi traducendo da una lingua straniera. Risposi
all’sms
elencando tutte le attività domestiche che avevo svolto fino a quel
momento.
E niente altro, anche se nello scrivere e inviare quel resoconto
dalla
cambusa
mi accorsi che forse avrei dovuto parlare d’altro. Di come mi ero
sentita
senza
il vincolo della sveglia, del tragitto faticoso fino al lavoro e
delle
incombenze
che quel lavoro mi richiedeva, comprese le relazioni con i colleghi
che
durante quell’anno non sempre erano filate tranquille.
Ero
nel dopo, ma facevo finta di non esserci.
Del
resto, bisognava che mi ci abituassi. Pian piano presi coscienza del
mio nuovo
status.
Decisi persino di sottopormi a un check-up per verificare se
l’insonnia
prolungata
non avesse cause fisiche. Accantonati i dubbi, passai un mese fiorito
e
profumato
nella mia città natale. Un pomeriggio mi ritrovai a battere il piede
ritmicamente
in una piazza del centro: un gruppo di musicisti di canti
tradizionali
recuperati
dal passato contadino mi fece dimenticare per due ore che solo trenta
giorni
prima ero da tutt’altra parte, probabilmente con la testa china
sulle bozze
che
dovevo correggere con molta attenzione.
Stavo
bene. L’insonnia era sparita, il viso cominciava a distendersi. I
rimpianti
sarebbero
venuti più avanti, quando la temperatura divenne più calda e i
conflitti
con
i miei dai quali mi ero rifugiata per qualche tempo, mi fecero capire
con
chiarezza
che dovevo trovare un nuovo inizio.
Un
nuovo lavoro, sì, ma più che altro una collocazione nel mondo. Una
qualsiasi,
almeno
per cominciare. E le due cose, il lavoro e la collocazione nel mondo,
purtroppo
coincidono per quelli che non hanno pedigree nobiliari.
Solo
che non sempre gli inizi arrivano. Più spesso ci si aggrappa a
quello che c’è,
ripartendo,
nel mio caso, dalla formula “Pap”, cioè pagata a pezzo, che nel
gergo
del
giornalismo vuol dire articolo. Dall’elemosina, insomma.
Ricordo
il novembre freddissimo nella mia vecchia casa del nord, con la
vestaglia
sopra
il maglione e la coperta sulle gambe. Si era rotta la caldaia, ma
nonostante i
termosifoni
gelati io dovevo starmene al computer perché avevo un lavoro da
consegnare.
Probabilmente si trattava dell’intervista a un riccone svizzero
produttore
di orologi. Per fortuna mi aveva chiamato lui direttamente sul
telefono
fisso,
poggiato sulla tristemente pretenziosa tavola da pranzo di legno
beige
plasticato
con i bordi dorati che usavo come scrivania. Più avanti fui anche
capace
di
ironizzarci su, perché in effetti la situazione era davvero
paradossale. Io
ghiacciavo,
mentre dall’altro capo del filo una voce bassa e suadente mi
intratteneva
sul concetto di moto perenne e sincronico. Se non altro almeno una
parte
del corpo mi s’era scaldata, anzi due: l’orecchio e la spalla con
cui reggevo
la
cornetta, mentre prendevo appunti direttamente al computer.
Per
ironizzare occorre tempo, però. Quando sei nel mezzo del “dopo”,
non sempre
hai
l’energia necessaria per giocare con gli scherzi della sorte.
E’
proprio quello che mi sta capitando adesso. Oggi mi sento alla
vigilia di un
nuovo
“dopo”. Rispetto all’altra volta, certo, ci sono delle
differenze. Intanto,
spartisco
questa condizione con altre persone. Mi specchio nei loro occhi e vi
intuisco
lo stesso senso di smarrimento che sicuramente loro leggono nei miei.
Spesso,
poi, ci confrontiamo, o forse sarebbe più esatto dire che sfoghiamo
ciascuno,
secondo binari paralleli, il senso di frustrazione che ci provoca non
sapere
come sarà il dopo. A volte le nostre ansie convergono: quando capita
ci
sembrano
più sopportabili e crediamo anche di essere in grado di dominarle.
Poi
però
ci separiamo, passiamo lunghi fine settimana nell’inattività
forzata,
sacrosanto
diritto di qualsiasi lavoratore che si trasforma in un incubo per chi
il
lavoro
non l’ha più. E anche per chi teme di perderlo da un momento
all’altro,
secondo
un copione vecchio e banale.
Eppure,
ribadisco, non tutto è uguale. L’altra volta, per dire, non
riuscivo a
dormire
mentre ora sono più le mattine che spengo la sveglia e mi
riaddormento
che
quelle in cui cedo al latrare molesto dei cani dei vicini. L’insonnia
è la bestia
peggiore
del “dopo”. Le giornate sono già lunghe, almeno la notte si
vorrebbero
riposare
i nervi logorati dall’ossessione del tirare a sera, per lo sforzo
di aver
tenuto
la schiena dritta pur di non cedere all’angoscia di non sapere come
riuscirci.
Si
dice che i depressi dormano a lungo. Chissà se è il mio caso. A me,
a dirla tutta,
non
pare di essere depressa. Forse sono anch’io “platonica”, come
raccontava una
conoscente
incontrata in spiaggia l’altro giorno, anche se forse sarebbe stato
più
esatto
dire epicurea: ripeto, per me che prendo le parole alla lettera un
termine
sbagliato
è fastidioso quanto un gessetto nuovo strisciato sulla lavagna.
Forse
sono semplicemente preparata all’idea del dopo.
Il
dopo non è cosa che passa in un giorno, né si può evitarlo finché
abbiamo vita.
E’
il vuoto che arriva dopo il pieno, in attesa che la natura o la
storia lo riempia di
nuovo.
Quante
volte l’ho cercato io stessa come atto di sfida contro la mia
pigrizia?
La
pagina bianca è il vuoto, ma lo è anche quella piena. Dopo che cosa
aggiungo?
Come
vado avanti?
La
paura di non sapersi rispondere c’è, ma finora è stato sempre più
forte l’istinto
di
buttare qualche ipotesi, ulteriori percorsi di esistenza.
Forse
sarei una buona giocatrice d’azzardo, chi lo sa.
Mi
è venuto questo dubbio tutte le volte che la domanda “e dopo?”
mi veniva
rivolta
così, pour
parlez,
da persone che in fondo non si preoccupavano davvero
del
mio futuro. Da quelli che il sedere sulla sedia ce l’avevano e
nessuno
gliel’avrebbe
sottratta. Non nascondo di essermi anche arrabbiata, ma con gli anni
ho
imparato che non era colpa loro. Il vuoto spaventa, lo vedo da come
ho reagito
sull’aereo,
sospesa in mezzo alle nuvole, quando ne ho incontrato qualcuno.
Che
poi, stavolta, non c’è quasi più nessuno che me lo chiede.
Pagherei anzi per
sentirmelo
dire di nuovo. Oggi sono circondata da troppa gente che vive più o
meno
alla giornata, che del “dopo” ha imparato a fare una realtà
ormai
incontrovertibile.
Un contratto a tre mesi per farsi la stagione estiva in uno
stabilimento
balneare è già una buona notizia. Tremila visite giornaliere al
proprio
blog
sono già un successo, un dono all’ego che è riuscito a rendersi
visibile senza
bisogno
di dichiararlo al fisco. Ogni tanto qualcuno dei miei nuovi
conoscenti alza
la
testa e prova a cercare un’alternativa, un’altra strada che possa
portare a un
nuovo
“dopo”. C’è chi al termine di una dura giornata in fabbrica si
butta in un
corso
di formazione per diventare vigile urbano (ma una volta non era uno
dei
mestieri
nominati più di frequente nelle barzellette, poco sotto quello del
carabiniere?
I sogni si adeguano ai tempi, evidentemente). Si sa già che i posti
saranno
pochissimi e contesi tra una pletora di candidati sudati e sfiniti da
codici e
leggine,
sempre più simili ai questuanti che in epoche antiche cercavano di
accaparrarsi
i favori di qualche parruccone inginocchiandosi a baciargli l’orlo
della
veste. C’è poi chi spera nel contrattino a tempo determinato, però
di un anno,
che
è già una gran cosa, e poi in Comune, che una volta era il sogno di
ogni
genitore
per il proprio figlio; e c’è anche chi sarebbe disposto a
rinunciare al
tempo
indeterminato, accontentandosi di un incarico a termine secondo i
dettami
imposti
dalla famigerata legge Biagi, pur di trovare un lavoro più simile al
proprio
percorso
di studi, alle proprie inclinazioni, a se stesso insomma.
Nella
maggior parte dei casi, cambiare è impossibile. Ma non ci avevano
detto che
dovevamo
abituarci alla flessibilità? Chi è flessibile, infatti, gestisce
meglio i
“dopo”.
E c’è che ci si sta allenando da anni: perché non dare una chance
dopo
tanto
training?
Forse
hanno ragione i gufi (ma in realtà fior di studiosi) che
preconizzano da anni
la
fine del lavoro. Se i posti diminuiscono non c’è “dopo” che
tenga: o ci si
accontenta
di dividere in dodici la torta che prima si mangiava in quattro,
naturalmente
godendo di porzioni più piccole, o si prova a dividere un’altra
torta
con
qualcun altro. Magari si tratterà di un dolce secco, non con la
panna come il
primo,
ma ci si accontenterà perché quest’ultimo lo vogliono meno
persone.
Però
non si scappa.
Le
nostre aspirazioni, le mie, ma anche quelle dei miei amici e di chi
non conosco,
non
contano: noi, piccoli insignificanti bipedi, non decidiamo proprio un
bel
niente.
Se
solo fossimo capaci di accettare la crudezza di questa verità
probabilmente
smetteremmo
di oscillare tra il pieno e il vuoto inseguendo prima l’uno e poi
l’altro.
Degli
altri, però, non so dire. Sarebbe il segno di una tracotante
presunzione.
Di
me so che sono pronta al nuovo “micro-dopo” che potrebbe
risucchiarmi come
un
buco nero in una galassia sconosciuta nel giro di poche settimane.
Sarà
la storia a decidere da quale parte del cosmo riemergerò.
####################################################
DUE
COLPI
Sentì
i suoi denti sbriciolare il pezzetto di biscotto.
Fu
un attimo, ma tanto le bastò per immaginare i canini che lavoravano
per ridurre
in
poltiglia quella pallina marrone scuro, probabilmente di cioccolato.
Greta
non aveva voluto assaggiarne dalla ciotolina poggiata sul divano tra
lei e
Giacomo.
Giacomo
invece sembrò aver gradito il pensiero di sua madre, venuta nella
sala a
fare
gli onori di casa all’ospite improvviso.
Mentre
tornava dalla stazione, Greta aveva sperato di incontrarlo per caso,
per
strada,
ma niente, di Giacomo nessuna traccia né nell'isolato né sul
pianerottolo di
casa.
Eppure, sarebbe bastato che uno dei due parlasse a voce un pochino
più alta
per
rivelare all’altro la propria presenza, attraverso il muro che
divideva gli
appartamenti
dei rispettivi genitori.
Da
bambini lo facevano sempre: picchiavano sulla parete e aspettavano
che l’altro
reagisse.
A un certo punto, anzi, avevano ideato un vero e proprio codice di
comunicazione.
Due
colpi voleva dire “ci si vede giù in cortile”, tre colpi “vieni
a fare merenda a
casa
mia”, quattro “non posso uscire, devo fare i compiti”.
Erano
andati avanti così per anni. Un giorno Greta aveva bussato tre
volte, visto
che
sua madre aveva fatto la crostata. Dall’altra parte del muro, però,
non era
arrivata
alcuna risposta. Lì per lì Greta aveva pensato che Giacomo fosse
uscito,
oppure,
chissà, era in bagno, stava poco bene, aveva il walkman alle
orecchie.
Capì
solo più tardi che cosa era successo, anche se non grazie alla sua
spiegazione.
Giacomo
le disse che semplicemente si era stufato del gioco: avevano
diciott’anni
ormai,
non potevano andare avanti in questa maniera così infantile.
Greta
ci restò malissimo: per quanto la riguardava era del tutto naturale
continuare
a
chiamarsi attraverso il muro, che cosa c’era d’infantile?
La
verità giunse in un giorno d'inizio inverno. Stava studiando, quando
un vento
improvviso
fece tremare i vetri della finestra. Girò lo sguardo verso le foglie
irrequiete
della magnolia. Si alzò per osservarle meglio e per capire se stava
già
piovendo.
No, il cielo era solcato solo da enormi mobilissime nuvole bianche,
che
lasciavano
scoperti ampi tratti di cielo.
Istintivamente
abbassò gli occhi verso il cortile.
Giacomo
stava abbracciando una ragazza. Lassù dal terzo piano Greta riusciva
a
scorgere
il sorriso intimidito di entrambi, mentre si staccavano continuando a
fissarsi.
Si intuiva che dovevano essere già intimi dal modo in cui
Giacomo
le accarezzava il braccio, appena sotto la spalla. Pareva quasi che
dicessero:
qui in pubblico non possiamo lasciarci andare, troppi sguardi
indiscreti,
continueremo
da qualche altra parte...
Greta
rimase seduta sul letto nella stessa posizione istupidita per un
tempo che le
sembrò
lunghissimo.
Anche
ora, sul divano della sala, mentre Giacomo masticava, non riusciva a
muovere
neanche un arto.
Era
tornata poche ore prima per le vacanze di Natale. Per tutto il
viaggio si era
chiesta
se non fosse stato il caso di farlo sapere a Giacomo. In fondo, le
faceva
piacere
rivederlo. L’ultima volta che l’aveva incontrato stava per
riprendere le
lezioni
all’università e Giacomo le era sembrato molto contento di
chiacchierare
con
lei. Anche lui studiava, ma aveva deciso di frequentare nella loro
città per
restare
accanto alla sua ragazza, la stessa che Greta aveva visto dalla
finestra quel
pomeriggio
e che poi qualche tempo dopo Giacomo le aveva presentato. Greta le
aveva
sorriso con gentilezza, ma non era stata capace di farle neanche una
domanda.
Poi
era partita per l’università e le sue abitudini pian piano erano
cambiate.
Adesso
ballava il tango e conosceva parecchia gente. Per un periodo era
anche
uscita
con un ragazzo, un tipo carino che la faceva ridere. Aveva smesso di
pensare
a Giacomo, soprattutto di avvertirne la mancanza. Per questo, quando
era
tornata
la volta precedente si era meravigliata del calore con cui lui le
aveva
chiesto
di farsi sentire ogni tanto. S’erano trovati sul pianerottolo
rimanendo a
parlare
per un po’. Più che altro era Giacomo a parlare, mentre Greta
annuiva o
sorrideva
un po’ distaccata.
Aveva
la sensazione che Giacomo se ne fosse rimasto zitto per mesi e che
lì,
accanto
al portone di casa sua, volesse recuperare tutto il tempo perso. A un
certo
punto
le fece quasi promettere di chiamarlo quando fosse tornata di nuovo.
Poi si
era
interrotto e sorridendo con gli occhi le aveva detto: “Bussami dal
muro”.
Greta
era rimasta di stucco, poi l’aveva abbracciato con una certa
legnosità,
facendo
il gesto di avvicinare le guance alle sue senza sfiorarlo davvero.
Poi era
entrata
in casa.
Mentre
Giacomo afferrava un altro biscotto, Greta si guardò le mani, prima
il
dorso
poi il palmo. Erano screpolate per il freddo, sapeva che avrebbe
dovuto
curarsele
meglio se non voleva che invecchiassero precocemente, ma in genere
non
ne aveva mai voglia. In quel momento, invece, sarebbe corsa
volentieri in
bagno
per spalmarsele per bene di crema alla glicerina.
Non
riusciva ancora a credere che Giacomo fosse lì accanto, seduto sul
divano dei
suoi.
Tutte
le volte che tornava a casa dall'università, amava restarsene a
chiacchierare
con
i genitori in cucina, appena dopo pranzo. In genere si andava avanti
almeno
fino
a metà pomeriggio: oltre, era impossibile protrarre ulteriormente la
pulizia
della
cucina, dilatata a bella posta perché il rito della riunione
familiare si
compisse
del tutto. Suo padre, in verità, non si tratteneva molto dopo il
caffè,
sapeva
che mamma e figlia avevano da scambiarsi confidenze da donne. Una
volta
che andava via il papà, sua madre l’aggiornava sulle novità di
zii, cugini e
vicini
vari (spesso infilava nel discorso qualche lutto improvviso) e lei le
raccontava
delle lezioni, degli esami ai quali si stava preparando, anche se
percepiva
che in fondo non erano argomenti che la appassionavano, presa più
che
altro
dalla gioia di rivederla o, in alternativa, dall’osservarne
l’abbigliamento, le
tracce
di stanchezza o di eventuali inaspettate segrete novità (magari un
fidanzato).
Difficilmente Greta aveva da dare qualche notizia straordinaria, meno
che
mai stavolta. Era però piuttosto inquieta e lo fu ancora di più
quando si ritirò
in
camera sua, ufficialmente per riposare. La sua cameretta da
adolescente era
rimasta
immutata da quando era partita: sul comò c’era ancora il pupazzo
di
Minnie
che le aveva riportato da Disneyland la compagna del cuore. Non aveva
voglia
di leggere né di dormire, non aveva voglia neanche di distendersi.
A
un certo punto, come un robot allungò il braccio verso la parete e
bussò una
volta:
“ci sei?”
Riportò
il braccio sul ginocchio sorprendendosi che il suo stomaco
gorgogliasse
un
po’.
Silenzio.
Ok,
Giacomo non c’era, era meglio prendere un libro e mettersi a
leggere. Prima
però
doveva liberarsi delle scarpe. Prese a slacciarsi l'anfibio. In quel
momento
sentì
suonare il campanello.
Pensò
che doveva essere qualche amica di sua madre, così si abbassò di
nuovo per
allargare
meglio i lacci. Dall’ingresso la madre la chiamò a gran voce.
Con
lo stivaletto già mezzo sfilato, Greta si era precipitò
all’ingresso. Le occorse
qualche
istante per mettere a fuoco la sagoma di Giacomo che sorrideva a sua
madre
scusandosi per l’ora: magari, disse, qualcuno stava ancora
riposando.
Greta
si domandò come fosse possibile che un dolcetto piccino a quella
maniera
potesse
produrre un suono così forte sotto i denti di un essere umano.
Quindi
anche
quando lo mangio io, constatò, faccio davvero un gran casino. Le
affiorò un
lieve
sorriso.
“Perché
stai ridendo?”, le chiese Giacomo portandosi educatamente il dorso
della
mano
davanti alla bocca.
“Ma
no, niente, una stupidaggine”.
“Eddai,
dimmela”.
“Davvero,
non è il caso”.
“Su,
più non me la dici e più sono curioso”.
“Sicuro
che la vuoi sapere?”.
“O
Greta, eddai”.
Greta
non si aspettava di sentirsi chiamare per nome con quella
naturalezza. Una
cosa
così succedeva in altri tempi, per esempio quando giocavano a
briscola e lui
cercava
di strapparle con l’inganno la verità sui punti che aveva in mano.
Le
faceva
le smorfie, fingeva di allungare il collo verso le sue carte finché
Greta, a un
certo
punto, finiva per distrarsi e Giacomo vinceva la partita. Greta lo
insultava,
chiamandolo
baro, o peggio bastardo, ma poi ci ricascava allo stesso modo la
volta
seguente.
Stavolta
però non lo stava guardando: aveva i gomiti poggiati sulle ginocchia
e il
viso
diretto davanti a sé, verso il brutto quadro naif che i suoi
genitori molti anni
prima
avevano appeso sulla parete opposta al divano.
“E
su, perché non me lo vuoi dire? Che sarà mai?”, aggiunse Giacomo
con la voce
deformata
dal boccone finale.
Greta
si girò leggermente per scrutarlo. Aveva un’espressione che non
gli aveva
mai
visto.
Almeno,
non l’aveva mai rivolta a lei.
Sembrava
compiaciuto e insieme speranzoso. Negli occhi si era accesa una notte
stellata,
rasserenante come nelle giornate d’estate più limpide. Le labbra
erano un
po’
schiuse, ancora lievemente tese per il recente movimento. Il resto
del corpo
era
immobile, in completo ascolto di quello che lei avrebbe detto.
Giacomo
viveva in attesa di una sua frase, viveva in quell’istante solo per
lei.
Con
la coda dell’occhio Greta vide le punte dei suoi capelli biondi
sfiorarle la
parte
superiore delle spalle. Si sentiva sotto un riflettore bianco,
accecante, il resto
del
palcoscenico in ombra e il pubblico in ansiosa attesa. Ebbe
l’impressione che
anche
Giacomo stesse fissando le sue ciocche ondulate; poi Greta girò gli
occhi
verso
la credenza alla sua sinistra e le sembrò che lui facesse lo stesso.
“Erano
i denti... i tuoi denti.... O mamma, ho ancora la scarpa sciolta!”.
Greta
si abbassò per riallacciarsela, restando in quella posizione qualche
secondo.
Le
guance le bruciavano.
Ancora
china, sentì un tonfo sul muro, poi un altro ancora. Si risollevò
di scatto.
Giacomo
stava sorridendo, il gomito sollevato sullo schienale del divano, la
mano
a
pugno ancora appoggiata alla parete.
“D’accordo,
ci vediamo giù”, gli rispose illuminandosi.
Non
era mai stata così felice.
UNA DONNA
Mio caro,
ci siamo appena salutati. Ho visto il tuo sguardo accendersi, la tua voce abbassarsi mentre mi sfioravi delicatamente la spalla, e con la mano scivolavi giù, fino all’incavo dell’ascella, a toccarmi per un attimo la base del seno. Che meraviglia tornare adolescenti così, in un pomeriggio freddissimo di fine inverno, noi fermi in macchina sul ciglio di una squallida strada di periferia, tra i capannoni industriali semiabbandonati. Quante volte sarò andata a caccia di posti del genere, dove potermi appartare un po’, lasciandomi pervadere, non senza un certo senso di colpa, dai primi brividi lungo la schiena? Quello che è successo tra noi è magico. Io ai segni ci credo, carissimo, anche se fingo di essere d’accordo con te sul fatto che la vita sia tutta caso e razionalità. Agli adulti non sono concesse le smancerie. Eppure, in fondo al cuore sappiamo entrambi che non tutto è spiegabile con la logica. Meno che mai l’amore. E tra noi l’amore c’è già. Come te lo spieghi, in caso contrario, che il tuo orologio si sia fermato? Anche il tempo ci ha voluto regalare un’ora tutta per noi, evidentemente, tra i camion che sfrecciavano di lato, illuminando i nostri baci e le nostre carezze, molto più casti di quelli che mi scambiavo con il ragazzo quando adolescente lo ero davvero.
Non so come evolverà questo sentimento che ci lega. Non so neanche se mai ci sarà una storia per noi. Non m’importa. Lasciamo deciderlo al caso, se vuoi che lo chiami così, per non sentire quella predestinazione tipica che si avverte quando ci si innamora (ho letto Galimberti, Hillman, sono un’intellettuale, io, mica pizza e fichi). Però, prima che la storia si scriva da sé, ho bisogno di raccontarti alcune cose. Di raccontarmi. Perché, oggi, mentre un sole più deciso preannuncia pigramente la primavera che ravviverà presto le colline, so descriverti con parole nuove un episodio del mio passato che ha creato una cesura tra me ragazzina e me adulta. Se mai potremo amarci, ma anche se non sarà possibile, voglio che tu sappia tutto di me. Il caso (ok, il caso...) ci saprà dire se scriveremo mai un pezzo della nostra storia a quattro mani. Io però intanto butto nel calderone che vorrei mescolare con te, come preparassimo una pozione fatata che ci streghi l’uno per l’altra tutta la vita, un frammento della mia identità, per aiutarti a comprendermi, e, forse, per conquistarti ancora di più.
Grazie di esserci. Spero di non deluderti mai.
Con amore
Novella
Quando smette di battermi così forte? Ho paura, perché a me, perché doveva capitarmi una cosa così? Non riesco a stare in piedi, che vergogna, Adele ha dovuto portarmi il secchio. Ho pisciato lì dentro come i vecchi, come gli handicappati. E poi l’ho vista che si allontanava con il secchio tenuto con la punta delle dita, schifata dalla mia pipì. Quando arriva mia sorella? Che cosa succederà adesso? Non lasciatemi sola, no, vi prego. Sì, dammi Paolo Conte, sì, provo ad ascoltarlo, in genere mi calma. Bravo, grazie, meno male che ci sei tu. Scusami se ti ho rovinato il compleanno, non so che mi è successo, so solo che la testa mi girava. Ho paura. Anzi, sono terrorizzata.
Il ventisei febbraio 1997 la mia vita è cambiata. Da allora non sono più stata quella di prima e, credo, da quel giorno in avanti ho cominciato lentamente, rigirandomi spesso su me stessa, come una triste bambolina da carillon, a diventare un’adulta. Oggi posso dirlo con una certa sicurezza, sì, oggi che sono passati oltre nove anni, e tutto nella mia vita è cambiato. O quasi.
Se non altro adesso sono in grado di raccontarlo, e di farci i conti. O forse perché del passato bisogna liberarsene, a un certo punto, per favorire le novità che vogliamo. E per scacciare, come in un rito propiziatorio, tribale, quel deprimente senso di ripetitività che avverti quando ti sembra di ricadere in comportamenti logorati dal tempo. A quasi 35 anni, voglio evitare di sapere di muffa, insomma, un po’ come la sensazione che produceva in me quella mia professoressa del liceo che continuava a indossare gli abiti anni Settanta della sua giovinezza in un’epoca in cui trionfavano le spalline e le maniche a pipistrello. Ma alla fine, guarda un po’ tu, aveva ragione lei: dieci anni dopo era di nuovo tutto un fiorire di pantaloni a zampa di elefante e di scarpe di pezza.
Oggi, però, sarebbe ancora una volta fuori moda, attenzione.
Ero alla cassa, stavo per pagare l’Odissea, sì, volevo darla a Saverio quella sera, ma ho aperto il portafogli e l’ho quasi buttato lì, sul bancone, davanti alla cassiera della Feltrinelli, perché mi sono accorta che le gambe non mi reggevano. Mi sento male, ho detto, e poi mi sono accasciata su uno sgabellino di quelli che usano i commessi per tirare giù i libri che stanno in alto sugli scaffali. La titolare del negozio, una signora bionda, forse avrà avuto quarant’anni, chi lo sa, ha pensato bene di chiamare l’ambulanza. Io nel frattempo mi ero spostata sullo scalino esterno alla libreria che dava sul corso principale, tra i passanti che mi guardavano con curiosità e una certa inquietudine. Era d’altra parte difficile che non mi notassero, dal momento che l’ambulanza è arrivata a sirene spiegate facendosi largo tra i pedoni. Una commessa era rimasta lì con me, a cercare di tranquillizzarmi. “Non hai niente, hai avuto un attacco d’ansia”. Come ho visto i camici bianchi, ho detto: “No, grazie, io con voi non vengo”. Come vuole, signora, solo ci deve firmare questo foglio, magari l’accompagniamo nella farmacia qui affianco, si faccia almeno misurare la pressione. Un capannello di curiosi poco distante osservava la scena. Ricordo chiaramente che ho chiuso la mano a pugno sollevando il pollice in su, neanche fossi stata il presidente degli Stati Uniti. E forse ho proprio detto: “Non vi preoccupate, grazie, sto meglio, aspetto che venga a prendermi il mio ragazzo”. Un vecchietto a quel punto mi ha sorriso e mi detto: “Coraggio, passerà”. La piccola folla si è dispersa. Il farmacista ha provato a condurmi dentro, ma io niente, non ho voluto sentire ragioni. Poi mi sono alzata, la commessa gentile mi ha convinta a salire al piano di sopra della libreria, in maniera che potessi aspettare lì la sorella del mio ragazzo, lontana da occhi indiscreti, e forse per tenere buona la titolare. Saverio non era a casa, i cellulari non esistevano ancora: per tutta la giornata ha ignorato come stavo rovinandogli il compleanno. La proprietaria bionda era parecchio infastidita dalla mia presenza. Probabilmente, si diceva: “Se questa ci lascia le penne proprio qui, nel mio negozio? Per i miei affari sarebbe un disastro”. Mesi dopo sono riuscita a metterci di nuovo piede, lì dentro. La commessa, bruna, occhi chiari dolcissimi, mi ha guardata e con discrezione mi ha chiesto come stavo: “Meglio, grazie”. Non ho mai sentito così tanta riconoscenza per qualcuno. La bionda, probabilmente, non mi ha vista. Meglio così, magari mi avrebbe cacciata a pedate. Non ricordo più se sono tornata a comprare l’Odissea proprio lì. So che un giorno, la gola riarsa e le gambe tremolanti, sono riuscita ad acquistarla e a darla a Saverio. Ci avevo messo su una dedica, in cui, probabilmente, rievocavo le spiacevoli circostanze del primo tentativo fallito.
Non è invece scomparsa dalla mia memoria l’immagine di me seduta sullo scalino della libreria, lo sguardo fisso sui passanti alla ricerca di rassicurazioni. Ma l’ambulanza e poi il farmacista che scrutava nel fondo dei miei occhi per capire se ero una tossica in crisi d’astinenza hanno finito per scatenarmi un’agitazione che non mi ha lasciato più per giorni e giorni.
Tump tump tump tump. Una tachicardia così intensa non l’ho più provata. Neanche sull’aereo l’anno scorso.
Per costringermi a dormire un po’, Saverio mi aveva passato le sue gocce di lexotan. L’effetto su di me è stato un ottundente stordimento senza sonno, cui sono seguiti giorni e giorni di astenia.
Era come se le funzioni vitali mi si fossero congelate. Sulla pancia non avevo più reazioni muscolari, sulle gambe era scesa una pesantezza mista a un senso di dissanguamento che mi spingeva a starmene immobile e sdraiata. La sera stavo meglio, avevo la sensazione che le forze mi tornassero; così al risveglio, ma solo fino all’attimo prima di poggiare i piedi a terra. Il resto della giornata, un disastro. Ho il flash di me e mio padre che giochiamo a scacchi in sala. Lui, paziente, si sottoponeva a questa attività che probabilmente non gli piaceva un granché, pur di scuotermi dall’apatia. Una volta mi ha portato in un bosco bellissimo. Ho camminato sull’acciottolato, allontanandomi un pochino da lui. In quel momento mi sono sentita benissimo. Ho raccolto un legnetto con due braccia, come quello dei rabdomanti. Quell’oggetto ha avuto per me un significato magico per molto tempo. L’anno dopo, incredibilmente, quando stavo molto meglio, sono tornata proprio in quel bosco, e più volte anche, con un gruppo teatrale con cui facevo la comparsa. I posti fatati esistono, smettiamola con la iper-razionalità di sapore ottocentesco.
Il viaggio di ritorno a Roma con mia sorella lo ricordo come un sogno. Ero stordita, la testa mi ronzava, le sue frasi mi arrivavano ovattate. Prima di pranzo con mio padre e mia sorella, in una calda giornata di inizio marzo capitolino, avevo mandato giù un po’ di gocce calmanti, persuasa da mio padre. Il risultato era che camminavo ondeggiante come un rapper. Non sono mancati momenti comici, come quella volta che mia sorella, sul balcone di casa dei miei, dove mi rifugiavo a riposare con la musica nelle orecchie, sdraiata sulla sedia di plastica da mare, quatta quatta, da dietro, mi ha spostato la cuffia e mi ha fatto il verso del gabbiano, imitando le musiche new age che ascoltavo per cercare di rilassarmi. Io sono scoppiata a ridere, rendendomi conto già da sola che quella roba non serviva a nulla. Lucidamente, mi dicevo già da giorni, quelle musiche non mi facevano effetto alcuno, almeno non meglio di quanto facessero alcune canzoni di Conte. Non dimenticherò mai, ad esempio, che stavo ascoltando “Il nostro amico Angiolino”, sempre sulla sdraio piazzata a bella posta sul balcone, nel punto in cui si forma un piccolo slargo, proprio davanti allo studio condiviso da me e mia sorella negli anni della scuola, il giorno che mia madre mi ha telefonato per avvisarmi che mia nonna, sua madre, stava molto male. Avevo appena dato l’esame di maturità, ero sfinita da una giornata al mare, era l’inizio di un luglio caldissimo e a me sembrava che il tempo fosse eterno. Così m’ero messa sul balcone, all’ombra, il walkman e Paolo Conte con il suo Angiolino con gli occhi d’aquilotto. Sapevo che mia nonna stava male, aspettavo notizie da mia madre.
Quell’angolo di balcone sa molto di me. Sulla soglia della porta finestra ho preparato esami, letto libri e ho suonato il bongo, male e goffamente, nei lunghi mesi che hanno seguito l’incidente della libreria. Nel vetro della porta finestra mi sono specchiata mille volte, osservando il mio viso, la piega verticale sulle guance, dalla base del naso ai lati della bocca, e le mie gambe, odiate per la loro rotondità, amate per la loro forza.
Saverio non è più nella mia vita, ma lui sa quanto quell’episodio mi ha fatto soffrire. Saverio, anzi, ha creduto che una parte della mia ansia fosse dipesa proprio da lui, e dal suo stile di vita disordinato. Con Saverio convivevo in segreto, all’insaputa dei miei genitori. Certo era vero che la cosa non mi faceva stare del tutto serena. Odiavo quella casetta microscopica e soffocante nella quale ci eravamo ritrovati a vivere. Forse non ero pronta a una scelta del genere. Mi sentivo piccola, all’epoca, volevo vivere altre esperienze, benché la mia storia con Saverio fosse molto bella e intensa. Chi lo sa se aveva ragione. Non so dirlo. Io, in ogni caso, non ho mai pensato di incolparlo della mia crisi. La nostra storia si è esaurita molto tempo dopo, quando ho ripreso a cercare la mia strada che mi ha portato lontano da lui e dalla mia vecchia vita di studentessa universitaria. Quel mattino, lì, nell’atrio dell’università, se non ci fosse stato lui con la mia famiglia non so come avrei fatto. Saverio ha assistito con mia madre e mia sorella alla discussione della mia tesi. Mi ha sentita parlare con una proprietà di linguaggio che non immaginavo neanche di avere. La correlatrice si è complimentata per lo stile giornalistico della mia tesi. Strette di mano, applausi e 110 e lode, conquistati come in un incubo. Tanto che per molto tempo dopo quel giorno, ho continuato a sognare che dovevo ancora laurearmi. L’unico assente dall’aula magna, mio padre, che era più in ansia di me: anche a lui, la sera prima della mia tesi, tremavano le gambe. Ho sempre avuto il terrore di essere come lui, e come suo padre, mio omonimo, e mio zio, suo fratello, che per lungo tempo s’è fatto accompagnare alla fermata dell’autobus dai figli perché aveva paura di andarci da solo.
Odio gli ipocondriaci e gli ansiosi, odio la genetica. Ma ormai mi sono rassegnata: una parte dei difetti di famiglia ce li ho anch’io. Fortuna che però ci sono mia madre e mia sorella dotate di ironia e coraggio. Fortuna che sono una donna. Una donna adulta, ancora giovane, le prime vere rughe sulla fronte spaziosa e le zampe di gallina più decise ai lati degli occhi. Una donna che ha già vissuto un po’ e che cerca di capirci qualcosa in questo continuo rinnovarsi di albe e tramonti, inverni ed estati. O forse non c’è niente da capire, ma solo da vivere. E vivere intensamente ogni attimo. E lasciarsi andare alle giornate, così come arrivano. Perché, magari, un giorno torneranno ancora una volta di moda i pantaloni svasati in fondo, e di nuovo la mia professoressa sarà a la page.
####################################################
ANNI '90
IL SOGNO
Tornavo
dal viaggio e avvertivo un forte desiderio di solitudine, benché
immaginassi quanto potesse risultare difficoltoso esaudirlo in quella
casa sempre piena di gente.
Mi sentivo inquieta, ma non troppo.
Entrai nella mia stanza e lasciai
cadere la borsa a terra. Sollevai lo sguardo di fronte a me, verso la
finestra, quand’ecco che notai il primo fastidiosissimo
cambiamento. Il letto di mia sorella non era più accostato alla
parete, ma era stato spostato sotto la finestra. “Che sciocche! –
osservai – che scherzo stupido”. Ero convinta, infatti, che si
trattasse dell’ennesima burla delle mie coinquiline, principale
causa del mio malessere in quella casa.
Andai quindi in bagno perché avevo un
forte bisogno di orinare e lì notai il secondo mutamento: il water
era chiaramente inutilizzabile, poiché il tubo blu che lo collegava
al muro, giaceva sul pavimento.
Non me ne accorsi subito, a dire il
vero, dal momento che mi ero già appositamente seduta sulla
tavoletta, ma quando realizzai, scattai in piedi indispettita e,
tiratami su in fretta i pantaloni, mi diressi nell’altro bagno. Fu
qui che mi spaventai non poco allorché, cercando di strofinarmi con
la carta igienica, scoprii sulle parti intime non una, ma due
insenature nelle quali la stessa si infilava, rimanendovi impigliata.
Mi sembravano due grosse bocche sanguinolente, e, per la verità,
anche ciò di cui mi liberavo aveva il colore del sangue.
Uscii. Rientrai nella stanza chiudendo
la porta dietro di me.
Non potrei mai riprodurre fedelmente la
rabbia che provai quando mi accorsi del terzo cambiamento: le mie
simpatiche compagne avevano attaccato sulla parete una piccola
fotografia, o meglio, un ritaglio di giornale che ritraeva una
bambina, o forse una ragazza bionda, grassa, dalle sembianze di una
contadina.
Le futili donne forse pensavano di
offendermi paragonandomi a quella figura insulsa, così diversa da
me. Fatto sta che non potei fare a meno di staccarla, con un po' di
difficoltà, peraltro, perché le furbe l'avevano ben fissata con lo
scotch più adesivo; ma vi riuscii e con voluttà appallottolai il
pezzo di carta appiccicoso. La particolarità, anche questa volta, fu
che non subito mi resi conto di quello che avevo davanti. Il
ritaglio, infatti, si trovava in mezzo a tanti altri che non mi
ricordavo di aver mai appeso, ma che forse mi appartenevano.
A un secondo sguardo notai la figura in
bianco e nero della riccioluta contadinella. E qui, mentre mi
compiacevo del mio atto di rivalsa, mi apparve lei, bella fanciulla
bruna, dagli occhi vispi, che io non sopportavo e men che meno in
quel momento. Tentai di sprangare la porta, ma non potei infilare la
chiave nella serratura: tentando di inserirla delicatamente,
avvicinai l'occhio al buco e scorsi di nuovo lei, dall'altro lato,
che armeggiava con qualcosa per ostacolarmi nell'operazione.
Alla fine la ebbi vinta; chiusi a
chiave, ma l'odiosa, appoggiata contro lo stipite, le braccia
conserte, mi osservava da dietro il vetro. Anche in questo caso il
cambiamento mi colse di sorpresa. Fu un attimo, però, perché subito
afferrai l'avvolgibile e tirai giù la serranda, allontanando da me,
in tal modo, quegli occhietti diabolici che mi fissavano con scherno.
Mi passai le mani tra i capelli,
sperando che mi avrebbero lasciato in pace, ora che mi accingevo a
dormire.
Non ricordo più quando, ma a un certo
punto quella porta si riaprì e io mi affacciai sulla soglia.
Trasalii alla vista di un'altra figura
di donna che non avevo mai visto prima. Quando mi si fece più vicina
la riconobbi: era un amico di lei, che per una ragione inspiegabile,
o forse, lampante, era vestito da donna, con una parrucca in testa, i
riccioli bruni troppo schiacciati sul viso. Lo salutai cordialmente
fingendo di stare allo scherzo, poi richiusi la porta: non sopportavo
il suo accento.
Mi avvicinai al letto con l'intenzione
di dormire, ma scorsi sotto quello di mia sorella una busta
rettangolare trasparente, piena d'acqua. Guardai allora sotto il mio
letto e vidi una seconda busta che mi affrettai a spostare sotto
l'altro. Sollevai la coperta e, per mia fortuna, non mi sedetti
subito; la tirai invece fino in fondo e fu allora che lo vidi. Uno
strano marchingegno campeggiava sul materasso che peraltro era stato
privato del lenzuolo e un filo, che mi sembrava elettrico, lo
attraversava diagonalmente, scendendo giù dietro la spalliera.
Sbottai. Non ressi più quella messinscena. Cominciai a urlare: “Mi
avete rotto i coglioni! Mi rotto i coglioni!”.
L'uomo vestito da donna apparve e mi
chiese, quasi premurosamente, che cosa mi fosse successo.
Anche a lui non rivolsi altro che
insulti e, afferrata una giacca di mia sorella, poi di mia madre, a
quadretti bianchi e grigi, corsi per il corridoio fino alla porta
d'ingresso.
Appena uscita, vidi una signora bionda
che incontravo spesso sull'autobus, forse ora inquilina del palazzo,
che bussava, mi parve, un po' concitata, dal mio dirimpettaio.
Capii che non badava affatto a me, che
pure uscivo alle 4 di notte, con un'aria non certo rassicurante.
Pensai che forse potevo aver disturbato il sonno degli altri
condomini e ciò m'infastidiva, perché io ero una studentessa
modello che mai avrebbe fatto rumore. Mi precipitai per le scale,
perché non volevo che il tipo mi fermasse e cercasse di
tranquillizzarmi. Feci le scale a due a due, tanto che non mi
sembrava di correre ma di volare. Sapevo che lui stava scendendo con
l'ascensore. Attraversato il cancello corsi via, qui forse meno
speditamente, perché notai un capannello di gente sotto il palazzo
che guardava verso l'alto. Erano le quattro di notte, pensavo cosa
mai ci facevano? Benché, in effetti, il cielo era già chiaro. Non
so se assistetti alla scena seguente, mentre di certo era presente il
mio inseguitore.
Al quinto piano, dove abitava la mia
amica d'infanzia, si trovava abbarbicato su una sporgenza
ornamentale, a forma di parallelepipedo, uno strano personaggio, con
le mani e le braccia aderenti contro il muro.
La gente si era radunata nel cortile e
si chiedeva non si sa se curiosa o spaventata, se mai si sarebbe
gettato. Anche l'inseguitore si fece la stessa domanda, proprio
quando questi si lanciò nel vuoto, cadendo a terra, piano, con un
tonfo sordo. La gente si fece più vicina. Qualcuno, forse una
ragazza, lo aiutò a sollevarsi e gli chiese il perché di questo
gesto. Fu allora che l'inseguitore riconobbe di avere di fronte un
nano, dalle fattezze un po' tozze, tipiche di chi è affetto da una
deformazione genetica, i capelli radi con la riga al lato e i grossi
occhiali dalla montatura ovoidale, metallica.
Il nano, un po' incerto ma sorridente,
disse di aver ripetuto una prova in cui altri prima di lui si erano
cimentati. Asserì di esserci riuscito visto che non sentiva alcun
effetto particolare per la caduta, anche se non poteva assicurare che
se ne sarebbero manifestate le conseguenze in seguito.
Nel frattempo io continuavo la mia
fuga. Riuscii a raggiungere la Standa. Entrai e afferrai in fretta e
furia alcuni vestiti, chiedendo alla commessa dove potessi provarli.
Avevo infatti intenzione di camuffarmi per impedire che l'inseguitore
o chi per lui potesse riconoscermi. Scelsi anche dei cosmetici. Mi
vestii con gli abiti nuovi, l'etichetta non ancora staccata.
Non so se lo feci davvero o se questa
era la mia intenzione. Fatto sta che il telefono squillò e io,
incredula, mi svegliai.
####################################################
ANNI '80
QUEL TRENO VIAGGIAVA
Quel
treno viaggiava. Portava dentro di sé mille volti sconosciuti. Mille
vite diverse, l'una dall'altra. Mille esperienze, dal manager di
successo al contadino ingenuo in cerca di fortuna nella città.
Le
frequenti gallerie oscuravano tutto. Anche le loro anime.
In
un vagone, due vite venivano a contatto: due vite legate
indissolubilmente.
Il
sig. X fece il suo ingresso nello scompartimento ansando e ripetendo
sempre la stessa parola: fine, fine, fine...
La
sig. Y lo squadrò da dietro i suoi occhiali di tartaruga, con
un'espressione di distacco e allo stesso tempo di curiosità.
“Oh,
mi scusi”, esordì Mr X, “non pensavo ci fosse qualcuno qui...”.
“Uhm”,
fu la risposta.
Mr
X finì per sedersi, dopo qualche esitazione dato il comportamento
della signora, di fronte a questa.
“Che
viaggio lungo! Non pensavo che andare a *** costituisse tanto
strapazzo...”.
Mr
X continuò a parlare ma la signora affondò i suoi occhi miopi nel
libro che aveva tra le mani.
L'uomo
tacque.
Lo
sferragliare del treno coprì il silenzio glaciale creatosi in quello
scompartimento, l'ultimo del treno.
La
sig. Y sembrava intenta nella sua lettura, ma in realtà osservava
attentamente ogni mossa, ogni atteggiamento dell'uomo che aveva di
fronte.
“No!
Non può essere – pensò – non può essere lui! Pensavo fosse
morto. E invece... No! No! Devo sapere! Devo sapere!”.
Il
naso appuntito della donna cominciò ad agitarsi: il cappellino che
circondava graziosamente la sua testa, le scivolò sulla fronte.
Mr
X, preso da un impulso, glielo raggiustò. La sig. Y scattò in
piedi, con gli occhi sbarrati per l'indignazione. Le mani le
tremavano, il viso era contratto.
Mr non capiva; confuso e avvilito, si profuse in scuse di ogni genere.
Non sapeva quello che aveva fatto.
Il
viaggio proseguì senza altri incidenti. La sig. Y sembrava essersi
tranquillizzata e ora cominciava a conversare con l'uomo che aveva di
fronte.
“Lei
da dove viene?”, chiese graziosamente, con uno strano sorriso
melenso.
“Io...
io sono di ***”, rispose stranamente turbato, poiché gli balenava
nella mente il ricordo di qualcuno o forse qualcosa che aveva
distrutto la sua vita o forse resa migliore in un tempo ormai remoto.
“No!
No! Tu menti! - pensava la donna – tu non vuoi, non puoi ricordare
da dove vieni!”.
Mr
X e Mrs Y continuarono a parlare per ore e ore; lui, sempre con
quella strana sensazione, lei, con un sentimento acceso e
appassionato che cresceva sempre di più.
Scese
la notte. Fuori, il cielo era sempre lo stesso: sereno, lontano,
pacato.
Dentro
quel treno, in quell'ultimo vagone, sembrava che dormissero.
Minuto
dopo minuto, attimo dopo attimo, un suono diventava sempre più
forte. Un potente fischio, no, non quello del treno! Un fischio
d'allarme!
“Aiuto!
Aiuto! Al fuoco! Al fuoco!”, si alzarono grida di paura. Un'enorme
massa di persone si riversò per i corridoi.
Si
spingevano, si calpestavano a vicenda. Nessuno si curava più di
nessuno; l'egoismo naturale si mostrava, finalmente, sulla
giornaliera ipocrisia.
“Pensano
a salvarsi”, commentò nell'oscurità la sig. Y, glaciale.
I
suoi occhi fissavano l'uomo che aveva di fronte. “Ma... ma... mi
sembra normale!”, Mr X si alzò e nervosamente cercò di aprire la
porta dello scompartimento. “E', è bloccata! Non funziona neanche
la luce!”.
“Lo
so”, gli occhi di Mrs Y si accesero.
“Come... lo sa?”, Mr X le si avventò contro, afferrandole le braccia e scotendola.
“Come... lo sa?”, Mr X le si avventò contro, afferrandole le braccia e scotendola.
“Sono
stata io”, e scoppiò a ridere sadicamente.
Il
sig. X rimase impietrito. Quindi cadde per terra, ancora incredulo, s'era reso conto di chi aveva davanti.
Sua
moglie, morta in un incidente aereo a cui egli era miracolosamente
scampato, voleva vendicarsi, perché era sempre stata una casalinga,
perché non era mai riuscita a trovare un lavoro; mentre il sig. X
aveva avuto molto successo in tutti i campi... anche con le altre
donne!
“Ora dovrai morire! Sì, morire! Mentre tutti quanti sono già scesi dal treno!”, i suoi occhi febbrili, il suo naso mobile, le sue mani frenetiche, si agitavano davanti a Mr X: si strinse la testa fra le mani. “No! No! Non è possibile! No!”, la scoteva e piangeva come un bambino.
“Ora dovrai morire! Sì, morire! Mentre tutti quanti sono già scesi dal treno!”, i suoi occhi febbrili, il suo naso mobile, le sue mani frenetiche, si agitavano davanti a Mr X: si strinse la testa fra le mani. “No! No! Non è possibile! No!”, la scoteva e piangeva come un bambino.
La
sig. Y continuava a ridere, ridere...
Quel
treno viaggiava. Portava dentro di sé mille volti diversi, mille
vite indifferenti.
Nell'ultimo
scompartimento un uomo si chinava su una donna di fronte a lui e le
sussurrava: “Svegliati, cara: stiamo per arrivare”.
Non male "Cioè"!
RispondiEliminaCioè resterà per sempre nel mio cuore! ;-)
Eliminagrazie, carissimo!