giovedì 25 febbraio 2016

Servigliano (Fermo) incontra Loretta Emiri, amazzone in tempo reale


A distanza di due anni, eccoci di nuovo qua, cara amica Loretta Emiri, scrittrice e indigenista, madrina, non solo spirituale, degli Indios Yanomami che hai ben conosciuto nei quasi vent'anni trascorsi laggiù al confine tra Brasile e Venezuela.
Lunedì prossimo 29 febbraio, a partire dalle 16, dialogheremo infatti alla Casa della memoria di Servigliano, ed io, esattamente come la volta scorsa, cercherò di sparire dietro alle domande che ti porrò per lasciare spazio al tuo libro Amazzone in tempo reale, ma soprattutto a te, che meriti tutta l'attenzione del caso.

Preparandomi a riparlare della tua ultima fatica stampata, ho scoperto quanti altri tuoi testi circolino sul Web e non solo. Mi dirai, ci dirai, anzi, a noi che verremo ad ascoltarti, quali siano gli elettrizzanti nuovi progetti in cui ti sei lanciata. 

Sei davvero unica, lasciatelo dire: mai conosciuto una donna con una forza e una sensibilità come le tue. Continuo, a tratti, a provare nei tuoi confronti una certa soggezione, perché invece io continuo grandemente a svicolare. 
Hai scritto della paura provata in altre fasi della tua vita per gli eventuali successi che avresti potuto raccogliere, buttandoti. Alla fine, il carattere ha avuto la meglio e l'hai fatto: ed è una gran fortuna per noi che ti abbiamo conosciuto e per chi lo farà in futuro.

Non conosco direttamente le terre degli indigeni d'America da te narrate nei brani che compongono il libro dalla copertina verde riprodotto nella locandina che vedete sopra, ma la tua scrittura vivace e insieme sorprendentemente carsica me le hanno fatte amare.

Sono, devo dirtelo, piuttosto pessimista sul destino della battaglia per la conservazione di quel che resta di territorio, costumi e tradizioni originarie di tutta l'America del Sud (quanto è successo nell'omologa del Nord non lascia ben sperare), ma, al contempo, credo che si debba continuare a lottare, come fai tu anche a distanza, qui in questo enorme e contraddittorio vecchio mondo, scosso dal suo interno da altrettante giustissime rivendicazioni di nuova vita e spazi da parte di altrettanti esodati da casa loro. 

Dici bene: dare voce a chi non ce l'ha è un impegno morale, difficile da mantenere, certo, presi come siamo più o meno tutti dal nostro privato, ma a tratti, pure brevissimi, noi occidentali ce la dobbiamo fare.

Il mio piccolo contributo è, dunque, proprio questo: il post che sto scrivendo e la conversazione che avremo insieme lunedì. E tutte quelle che seguiranno ogni volta che vorrai e si potrà.

A voi che mi leggete, se siete in zona, una preghiera: partecipate numerosi.

Agli amici lontani, se volete scoprire bellezze e tristezze di sconosciuti popoli d'Oltreoceano, nonché la donna eccezionale che ne ha scritto, comprate il libro di Loretta. 
E allargate, come è successo a me, gli orizzonti. 

Grazie all'Università del tempo ritrovato e dell'educazione permanente di Grottazzolina per aver organizzato l'incontro come due anni fa.
Grazie a voi che verrete ad ascoltarci.
Grazie a Loretta, ancora di più.

giovedì 18 febbraio 2016

Stancarsi fisicamente è bello... a Venezia ancora di più!



Negli ultimi mesi ho deciso di essere più diretta in ciò che scrivo, essenzialmente perché ne ho bisogno io, ma anche perché mi sono convinta che per le chiacchiere da bar ci sono altri spazi.
Poi però succede che tocchi un tema sensibile come il lavoro, come mi è successo nel penultimo post, e ti ritrovi a doverti calare nella parte di quella che non crede nella lezione dei nostri padri e nonni.

Non ho mai pensato che il lavoro manuale sia di serie B: semmai, l'hanno pensato proprio i nostri avi che hanno fatto il possibile, con sacrifici immani che io non ho mai sperimentato, per liberare le nuove generazioni dal giogo della fatica fisica tout court.

Mi citava giustamente mio padre l'altro giorno un vecchio proverbio abruzzese sui pastori che pascolano le proprie pecore: solo in quel caso il peso del sudore, della sporcizia e della lunga solitudine passata sui monti non era percepito come tale. Lo stesso pastore, costretto a pascere il bestiame di qualcun altro, di certo sarebbe stato meno contento. E oltretutto, quanti abruzzesi hanno spinto i loro figli e nipoti ad abbandonare i prati montani pur di non vederli gemere di patimento?

Detto ciò, a me spiace, sul serio, di non aver imparato alcun mestiere pratico. Negli anni, certo, ho capito più o meno come si fanno le pulizie, come si stira, volendo, sarei in grado pure di fare biscotti e pane se avessi una famiglia numerosa da crescere e ho un certo talento per il bricolage (salvo bucare pareti con chiodini non adeguati a sorreggere suppellettili eccessivamente gravose).

Se posso dare una mano a spostare oggetti, sollevare pesi, etc etc, sono sempre felice.
Mi piace massacrarmi fisicamente. Il punto è solo uno: quando lo faccio, è per una mia libera scelta.
Chiediamolo ai ragazzini siriani costretti a raccogliere la frutta per i padroni libanesi di cui leggevo stamattina su Internazionale quanto sono felici di alzarsi alle cinque al gelo, un pomodoro ripieno per pasto, e di svenire sotto il sole che brucia.
Trovo terribilmente ingiusto che ce ne siano così tanti nel mondo e che, da questa parte dell'Europa, invece, si stia tentando di affossare una legge giustissima come la Cirinnà solo per manovre elettorali.

Purtroppo, però, qui vivo e qui, salvo improvvisi colpi di testa, resterò tutta la vita.
Come dare sfogo al legittimo bisogno di sentirsi utili per la società con o senza compenso, usando, magari, pure quel poco di fisico che mi è ancora rimasto?

Andando a Venezia al premio Arte Laguna a fare la "assistant" per l'allestimento di uno spazio espositivo all'Arsenale. Oggi ho partecipato a una faticosa riunione telefonica (ah, le tecnologie) organizzativa. Il messaggio che mi è arrivato forte e chiaro dalle organizzatrici è che sarà un "lavoro faticoso". Molto bene: è proprio quello che volevo. Tra le compagne d'avventura (manco a dirlo, siamo in stragrande maggioranza donne), due almeno potrebbero essere mie figlie, ma anche questo è bene. Ho bisogno di confrontarmi con gente in carne e ossa ed eventualmente cambiare di nuovo opinione su qualcosa.

In questo periodo di nullafacenza totale, infatti, quello che più mi spaventa è l'immobilità fisica più che mentale.
Non so come mi sia arrivata la mail che mi segnalava il bando per curare il backstage di questo premio: fatto sta che una mattina me la sono ritrovata lì tra altre newsletter.

Sarà il segnale dei Numi che stavo aspettando?
E chi può dirlo.
Io, comunque, ci sto: ben coperta (pare che all'Arsenale ci sia un notevole freddo-umido) e il più possibile equipaggiata psicologicamente, tra un mese esatto sarò già lì dentro a farmi "schiavizzare" dagli artisti che ne avranno bisogno.

In fondo, ho già fatto una cosa simile, in piccolissimo, a Fermo in quell'ambiente sicuramente freddo-umido (l'ex mercato coperto che vedete sopra in foto) che ho continuato a frequentare negli anni anche dopo il primo da pseudo-assistant.

Una parola inglese, a proposito, che sta all'incirca per custode-assistente allestitore.
Non vedo l'ora, non posso negarlo.

Numi, avanti, continuate così.

lunedì 15 febbraio 2016

Non lavoro ma non crollo: forza numi, fatevi sentire

Tyne Daly, la grandissima Maxine Gray nel "Giudice Amy", da oggi di nuovo su Giallo

Non ho ancora capito bene il funzionamento di google +, principalmente per pigrizia. Ringrazio, in ogni caso, quell'anima buona che spesso aggiunge un secondo "più" al mio, cliccato da me medesima abitualmente per rilanciare le sciocchezzuole che vado digitando.

Oggi è una giornata uggiosissima: speriamo che le mie piantine non se ne abbiano a male, visto che proprio ieri, per ansiogeno scrupolo di coscienza, le avevo annaffiate. Mi sento un po' come Moretti in Bianca che alla fine ne butta una di sotto dal terrazzo, dopo essersene uscito con "vuoi più acqua, meno acqua?", preso dal tipico sconforto di noi pollici grigi.

E però, a proposito di grigi, l'erba gatta è cresciuta eccome, contro ogni mia previsione, e pare piaccia alla felina dalle cinquanta sfumature della polvere. Inutile: mi sta troppo simpatica quando esce tutta entusiasta sul balcone e si butta con il corpicino sui ciuffi verde brillante. Dicono che debbano mangiarne con moderazione, altrimenti si drogano, ma capire se sia o meno sotto stupefacenza erbivora è davvero difficile. Bice (la grigia) ha una personalità piuttosto bizzarra già di suo: non mi pare che l'aggiunta di erba gatta alla sua dieta ne abbia alterato il comportamento. Che poi che male c'è a stordirsi un po'? Ha parlato Madama la lisergica, proprio: a me basta un bicchierino di qualsiasi cosa per entrare in tachicardia per tutta la notte successiva. Farà bene?

Ieri, in verità, ho bevuto un po' di più di un bicchiere: ma quell'americano era così dolce che non credevo fosse roba alcolica. O sarà che c'ho un'età e che non esco praticamente mai (faceva un caldo in quel bar: per chi gira in genere con due maglioni e doppi calzini i locali alla moda sono i Tropici).

L'occasione, però, era davvero lieta: compiva gli anni una delle mie insegnanti della Fermo 85. Una compagna di corsi ha avuto la bella idea di organizzarle una festa a sorpresa. Riuscitissima.
Tiziana (questo il nome della festeggiata) non se l'aspettava assolutamente ed è stato davvero tenero vederla con le lacrime agli occhi dalla commozione, quando ci ha trovati tutti lì ad applaudirla.

Ho passato una serata molto piacevole, insomma, anche se, ahimè, non sono sufficientemente di buon umore, nonostante gli incontri e i sorrisi sinceri.

Ho bisogno di lavorare: oggi guardavo le prime due puntate dell'ennesima replica del Giudice Amy e mi sentivo esattamente come Maxine, neanche la figlia, direttamente la mamma anziana voglio dire, che si era costretta a stare a casa lasciando il lavoro per occuparsi di figlia e nipote, ma si capisce lontano un miglio che proprio non ce la fa. Per buona parte del telefilm, infatti, la si vedrà nelle vesti di assistente sociale, con tutta l'umanità e la grinta che ci vogliono per affrontare storie spesso tremende, raccontate, se posso dirlo, da questo telefilm, con una poesia dal gusto retro che trovo tuttora un antidoto prezioso contro lo squallore diffuso.

Vedendo lei e anche Amy nei rispettivi posti di lavoro, avresti voglia di fare come loro, di massacrarti come sembrano fare i due personaggi per tenere insieme tutto, spese, educazione della piccola di famiglia, affetti e amicizie.
Purtroppo nel mio presente c'è solo una piccola parte di ciò che vedo sullo schermo e a volte, francamente, tutto questo mi stanca. Non lavorare stanca, lavorare gratis pure, ma, davvero, meglio lavorare gratis per qualcosa che ci piace, che aspettare un cambiamento che non verrà.

In tutta onestà, non rimango mai troppo ad aspettare. Anzi: molto spesso riempio i vuoti con qualche azione. Vanno benissimo tutte quelle che riguardano la sistemazione della mia casa, ne sono convinta, però mi manca la vita, mi manca quella sensazione di non aver abbastanza tempo per tutto.
Continuo a leggere di gente che corre, che non si ferma neanche per mangiare in santa pace: a me non succede praticamente mai. Mi ritrovo qualche volta a prendermi un tazzone d'orzo a metà mattina con un libro o un giornale affianco, seduta al tavolino un po' sconnesso di mia nonna (uno di quegli arredi che meno mi convincono e che nel mio attivismo vorrei far sparire).

Anche adesso, per dire, scrivo per riempire un vuoto, "per passare il tempo", usando un'espressione abituale di mio padre che mi ha sempre terribilmente appesantito, non per colpa sua.

Non dovrebbe mai succedere, in nessuna fase della vita, ma meno che mai nel pieno dell'età adulta, di fare qualcosa tanto per ammazzare il tempo.
Sento di bambini iper-organizzati che non saprebbero sopravvivere ai momenti di noia, ai buchi nell'agenda. Posso dirlo? Se andiamo avanti così, impareranno molto presto a gestirli: chi lo dice a queste schiere di ragazzini che oggi vanno a ginnastica, a calcio, a musica etc etc, che a trent'anni potrebbero essere costretti a fare lo stesso pur di non restarsene a ciondolare con le mani in mano?

Capisco bene quando mia sorella si augura che i suoi figli riescano un giorno a emigrare.
E però, davvero, non voglio fare la solita tirata sull'Italia che non va e sulle generazioni perdute etc etc. Oggi un africano che cerca l'elemosina davanti all'Eurospin mi ha chiesto un passaggio in auto per andare alla stazione: non aveva nemmeno i soldi per la tachipirina, sul suo viso ho letto una disperazione che io non ho mai provato. Certo: non mi posso sentire in colpa per questo, ci mancherebbe altro. E da un certo punto di vista, almeno stamattina il mio essere senza lavoro ha avuto un perché.

E' solo che ogni tanto è dura non saper cosa rispondere alla conoscente di turno che ti consiglia di dare ripetizioni, come se io non ci avessi già pensato da sola o, peggio, a quell'altra anziana, dotata per sua fortuna di pensione, in procinto di un soggiorno a Parigi di chissà quanti mesi, che non sto snobbando le ripetizioni (semmai sono le ripetizioni a snobbare me) e che farei ben più di quelle oggi stesso se mi si presentasse l'occasione.

Se mi si restituisse la possibilità di avere delle occasioni. Che è ben diverso.

Che fare? Continuare a cercare, a incontrare, a dire anche stupidaggini se succede (con i quasi estranei dovrei evitare di lasciarmi andare, lo so, ma non sempre ci riesco), a leggere, a scrivere, a pensare. E a sperare che quei piccoli segnali di cambiamento che intravedo oltre il grigio di oggi, siano davvero tali.

Mi auguro solo, quello sì, di avere abbastanza coraggio. A volte non ce l'ho avuto. E ne sto pagando le conseguenze ancora adesso.
Forse è proprio qui il punto, ma visto che l'ho vergato, adesso bisogna davvero che vada accapo.

Santi numi di qualsiasi natura, please, siate con me. E con chi sta vivendo analoghe turbolenze.
In bocca al lupo a noi.

mercoledì 10 febbraio 2016

Henry Miller e gli anti-eroi: un po' più di speranza no?



Oggi sono decisamente acciaccata, per cui potrei essere nello stato perfetto per lasciarmi andare al flusso sconnesso di parole che ho trovato in Tropico del cancro di Henry Miller.
Sto (ovviamente) facendo dell'ironia: resta però il fatto che nel complesso il libro scelto dal gruppo lettura della libreria Mingus de Lu Portu non mi abbia fatto impazzire.

Ci sono pagine, indubbiamente, interessanti, ma ho capito che a me l'eroe-antieroe maledetto, stringi stringi, mi sta sulle balle.
Vero che è stato scritto tra gli anni Venti e Trenta da un americano talentuoso nonché pieno di denaro (rispetto al grosso degli europei dei tempi, intendo) che poteva permettersi anche il lusso di vivere da pezzente. Vero anche che quegli anni sono assai diversi dai quasi Venti del XXI secolo, almeno in Occidente.

Resta però il fatto che io personalmente ho bisogno di storie con un principio, uno svolgimento e una fine, altrimenti m'annoio o mi arrabbio, il secondo stato d'animo migliore del primo sicuramente.

Del libro, mi piace molto l'ambientazione parigina: vi ho trovato delle analogie con Bel Ami, il bel romanzo di Guy De Maupassant citato - non a caso - dallo stesso Miller.
Non mi scandalizzano, non più di tanto almeno, le scene di sesso e la misoginia di fondo di tutti gli scoppiati amici del protagonista nonché di quest'ultimo. Non mi piacciono, d'altronde, neanche le figure femminili della storia, più o meno tutte prostitute vere o aspiranti tali.

C'è una solitudine assoluta e disperata in tutti i personaggi che lascia sgomenti.
Leggendolo, mi veniva da pensare: che diavolo ci fate tutti quanti a Parigi, in Europa, se poi dovete vivere così sballati? Non era meglio se ve ne stavate nelle tanto disprezzate campagne no limits della vostra patria lontana?

Davvero: che gusto c'è a rovinarsi se poi non si ha abbastanza talento e fortuna per sfondare nella letteratura, nell'arte in genere?

Da quel che ho capito, Miller è riuscito a cavarsela (cominciando anche a guadagnare bene) assai dopo essere ritornato in Usa e aver contratto diversi matrimoni più (presumo) una sfilza di malattie veneree che comunque non gli hanno impedito di campare fino a tarda età.
La consacrazione finale, tra l'altro, è arrivata nei mitici Sixties, quelli che hanno (per fortuna) modificato radicalmente i costumi dell'Occidente e che tuttavia hanno sdoganato gli scoppiati e gli sciroccati di ogni risma, che non sempre hanno fatto bene alle generazioni venute dopo.

In tutti i modi, non ho idea di come siano gli altri romanzi di Miller, per cui non posso giudicare. Ho però avuto la sensazione di leggere un Hemingway meno censurato e più decadente. Fiesta, ossia il romanzo del grande narratore americano che più si avvicina alla storia contenuta in Tropico del cancro, può indisporre quanto quello di Miller se lo si giudica circoscrivendo il campo di osservazione ai personaggi che vi sono tratteggiati.

Però quei tagli radicali alla prosa operati dall'autore del Vecchio e il Mare ne hanno reso la lingua più attraente, almeno per me che non amo le scritture troppo ridondanti.

Che altro dire? Se non ci fosse stato il gruppo lettura sangiorgese, dubito che sarei riuscita ad arrivare fino in fondo a Tropico del cancro, per cui va bene così.
E poi mi viene da fare anche un'altra considerazione: forse Miller voleva infondere il senso di disagio e disgusto che ho provato leggendone le descrizioni piene di puzzo e sporcizia esteriore e interiore.

Quindi chapeau allo scrittore che per campare ha fatto davvero il traduttore, il correttore di bozze e il giornalista.

Vorrei solo, infantilmente, un po' più di speranza. Peace and love, come nei già citati mitici Sixties (e Seventies), insomma, quelli che ho incarnato ieri (esponendomi al pubblico ludibrio, come vedete nella foto sopra) alla festa di carnevale del borgo marinaro.

Ma sono una donna, avrebbero detto lui e i suoi amici, che altro aspettarsi se non quella cosa lì.

Mi domando di quanto squallore, di quanta violenza e morte abbiamo ancora bisogno per deciderci a cambiare stile di vita.

La domanda è naturalmente retorica.

Al prossimo libro, amici.

lunedì 1 febbraio 2016

Aria nuova, aria diversa



Venerdì scorso ho ordinato il divano nuovo. Dovrebbe arrivare in cinquanta giorni e, devo dire, in tutta incoscienza, che non ne vedo l'ora.
La cosiddetta fase due della mia vita procede a una certa velocità.

Per la prima volta dopo anni ho smesso di "festeggiare" il mezzo compleanno (i primi sei mesi svoltati i quali piomberò dritta dritta nel 45esimo), perché ho fretta di compiere concreti passi in avanti. Prima che sia troppo tardi, probabilmente.

Sono terrorizzata (a tratti) dal timore che non riuscirò mai più a lavorare, ma al contempo so che agitarmi in questo mezzo bicchiere d'acqua non mi porterà da nessuna parte.

Così vado avanti con la sistemazione della casa, il primo posto (lo dico piano) dove, finalmente, mi sento davvero bene.

Pare che per noi cancerini (bleah) la casa sia importante: bella originalità.

In ogni caso, come immagino succeda a molti, mi piace provare questa sensazione.

Sto sognando spesso mia madre.
Non mi va di parlarne, non sono ancora pronta per scriverne nel modo giusto.

Faccio, in generale, sogni pazzeschi: sarà che sto leggendo Tropico del cancro di Henry Miller, una scrittura disordinata, a tratti fin troppo per i miei gusti autistici.

O sarà che non ci sto capendo granché, se non che voglio, fortissimamente voglio, aria nuova.

E l'avrò, ne sono convinta.
Ma sarà diversa, molto diversa, da quella che sognavo anni fa.

Lo intuisco dai sogni ricorrenti sul giornalismo e sui giornalisti (facce che non ho mai visto, chissà se esistono davvero) che si alternano a quelli con mia mamma mischiati a varie comparse reali (tipo la simpatica compagna di ginnastica che mi ha fatto i capelli l'ultima volta!) e irreali (i parrucchieri fermani, di cui uno handicappato e l'altro con la pipa...).

Staremo a vedere.

Voi pazientate con me.
Se vi fa, of course.