lunedì 28 aprile 2014

#Fermoattivo e la magia di vivere il presente



E poi, quando meno te l'aspetti, ricevi doni inaspettati.
Ho scattato la foto che vedete sopra da un balcone di una vera casa fermana.
In che cosa si sostanzia quest'ultima, vi starete chiedendo.
Tentando una non facile sintesi, direi che nelle case dei veri nativi di questo luogo aleggia una mistura di antico e di moderno tutta speciale.

Solcando la moquette verde che ricopriva pure le scale, si accedeva in ambienti arredati nei modi più disparati. Ho intravisto poltrone marroni di pelle, sedie e letti inizio Novecento e poi stanze stile b&b anni Duemila. Non ho potuto memorizzarli bene, data la velocità della nostra invasione, ma oltre all'imbarazzo di trovarmi a casa d'altri senza essere stata invitata, provavo anche altre sensazioni.

L'estraneità di cui vi ho parlato un paio di post fa è ancora tutta lì, ma devo ammettere che essere accolti in quella maniera, percepire l'orgoglio delle radici di chi ti mostra il proprio luogo del cuore e sentirsi pure proporre un caffè per cercare di farti restare ancora un po' è stato molto bello.

Ringrazio perciò intimamente gli organizzatori di #Fermoattivo, la tre giorni di passeggiate artistiche per il centro storico della cittadina marchigiana, e, se c'è qualcuno lassù che mi ascolta, grazie a lui/lei/neutro anche per il sole che ha generosamente protetto le persone che hanno esposto en plein air le proprie opere e quelle che si sono soffermate a guardarle, incuriosite anche dai cortili, le piazze e altri angoli finalmente animati di vita.

Su Minime Storie proporrò a breve una cronaca più dettagliata (ho scattato abbastanza foto da ricavarne una galleria, un'attività che mi piace tanto tanto), ma qui volevo solo aggiungere che per una volta ho vissuto pienamente il posto in cui abito ed è stato importante. Per molti motivi.

E anche se adesso sembra di nuovo novembre, non importa.
Ho vissuto e ho condiviso la pienezza del presente con altre persone.
La magia è ancora possibile.

giovedì 24 aprile 2014

Yasmina Reza e Andrea Bajani, due autori da leggere. E rileggere

Lo scrittore Andrea Bajani (e la sottoscritta) alla Biblioteca Romolo Spezioli di Fermo,
foto di Ennio Brilli


Comincio questo post con una domanda autoreferenziale: chissà chi mi mette subito il secondo + su quasi tutti i post, con l'eccezione dello scorso (oggettivamente molto tetro) e di pochi altri. Vedremo che cosa succederà stavolta che ho invece intenzione di parlare degli ultimi due libri che ho letto.

Mi riferisco, in rigoroso ordine cronologico, a Felici i felici, di Yasmina Reza, e a La vita non è in ordine alfabetico, di Andrea Bajani.
Sono molto diversi, non c'è dubbio, ma accomunati, almeno a mio avviso, da un elemento: parlano entrambi di privato, volendo anche di intimità, e di disvelamenti.

Nel caso della scrittrice francese, si tratta, in molti casi di veri e propri smascheramenti: chi ha visto il film ispirato a Il dio del massacro, quello con le due fenomenali Jodie Foster e Kate Winslet che a un certo punto si tirano quasi i capelli, sa che le storie della Reza girano più o meno tutte intorno alle ipocrisie dei comportamenti umani, raccontate però con una feroce ironia e una classe che solo talenti straordinari come lei riescono a esibire con tanta nonchalance.

Nel caso di Andrea Bajani, o per lo meno del libro che ho appena finito, invece, il disvelamento entra puntualmente nei brevissimi racconti che si aprono ciascuno con una lettera dell'alfabeto, in quasi tutti i capitoli ripetuta una seconda volta.
Si tratta, cioè, di un artificio stilistico molto raffinato, che però, sarò sincera, non mi convince sempre.

In alcuni racconti, voglio dire, il punto di svolta nella storia risulta davvero sorprendente e certe volte anche commovente. In altri, invece, l'ho trovato un po' forzato.
Anche nel libro della Reza, però, ho avvertito qualcosa di analogo in alcuni passaggi.
E' come se il desiderio, legittimo e condivisibile, di colpire a tutti i costi l'immaginario del lettore abbia preso un po' la mano a entrambi.

Se non mi fossero piaciuti, in ogni caso, non starei qui a parlarne: non sono obbligata a recensire proprio nulla, perciò, quando lo faccio, parlo in prevalenza di quel che mi piace.
E' solo che, forse, avrei voluto immedesimarmi di più e invece non ci sono riuscita, con tutti e due i libri, se non a tratti.

Mi ha per esempio incantato il punto in cui Bajani descrive la pallina espulsa dalla macchinetta con la chiave che si gira solo dopo che ci metti la monetina, la stessa anche oggi dai tempi della mia infanzia (e della sua: ha quattro anni meno di me, ricorderà anche lui le sedie impagliate con i fili di plastica colorata).

Mi è molto piaciuta la descrizione della lite coniugale della Reza che culmina con lei che si attacca alla schiena di lui come tutte le notti e la facilità con cui la scrittrice riesce a calarsi nei panni dei suoi singoli personaggi, maschi o femmine che siano.

Ho apprezzato molto la lingua di Bajani e la scelta della seconda persona singolare più tipica della poesia, come il medesimo ha spiegato nell'incontro che ha organizzato la biblioteca Romolo Spezioli di Fermo.
Concordo con lui anche sulla differenza tra i libri che si leggono tutti di un fiato, e poi si buttano nel cestino o si stipano in fondo alla libreria perché hanno esaurito la loro funzione riempi-vuoto del momento, e quelli che ti viene voglia di riaprire, accorgendoti che hanno ancora molto da dirti.

E infatti il suo l'ho letto e riletto, in certi punti, ma, lo ammetto, perché in qualche caso non capivo dove volesse andare a parare. Sarò tonta io, d'accordo, però un conto è la bellezza e la complessità della scrittura da leggere e rileggere, un altro è la sensazione dell'oscurità che non di rado mi davano i testi scolastici.

Con la Reza, invece, mi è successo che a un certo punto non mi ricordavo più chi era parente di chi, perché all'apparenza sembravano tutte storie staccate e invece erano tutte, eccome, collegate. Se lasci che passino troppi giorni tra un capitolo e l'altro, insomma, c'è il più che concreto rischio che non saprai più orientarti nella storia.
Si tratta, in definitiva, del tipico libro da leggere "tutto d'un fiato", ma se lo fai, è certo che poi non ci tornerai più.

E invece io l'ho riaperto e ne sono stata contenta, perché così ho notato altri dettagli.
Lo stesso ho fatto con La vita non è in ordine alfabetico ed è per questo che ne sto parlando.
Vorrei leggere qualcos'altro di Andrea Bajani, che mi ha colpito per la sua vispa intelligenza. Al pubblico che lo ascoltava direi più che attentamente (secondo me molte signore se lo mangiavano proprio con gli occhi. E' un discreto figliolo, bisogna ammetterlo), lo scrittore che vorrebbe essere marchigiano (ma chissà se non lo dice di ogni regione in cui lo ospitano) ha svelato di vivere a Berlino.

Mentre mi firmava l'autografo (non lo faccio mai, ma stavolta ho ceduto al rito pop), gli ho chiesto come mai questa scelta. Mi ha risposto che volevano fare una prova, lui e la sua compagna con figlia credo adolescente, ma che non è per forza come sembra da qui: non tutto costa meno, non tutte le strade professionali sono aperte. Io non so se credergli, però l'ha detto con un tono molto simpatico, tipico di una persona positiva.

Mi piacciono le persone positive, anche quando mettono alla berlina i difetti nostri e altrui come la Reza (che però non so se lo sia anche lei).
Ringrazio perciò entrambi di essere idealmente entrati a far parte della mia vita.
E aspetto di leggervi ancora.

E voi?

martedì 22 aprile 2014

I riti della Pasqua e la morsa allo stomaco che ritorna

Monti Sibillini, Pasqua 2013
Quest'anno, per la prima volta nella mia vita, non ho assistito alla Processione del Venerdì Santo di Chieti.
L'ho scritto l'altro giorno su Facebook. E invece mi sono appena accorta che non era vero. L'ho saltata anche lo scorso, dal momento che ero a Castelluccio di Norcia, in un'atmosfera degna della Passione di Cristo quasi quanto quella che alligna sulle vie centrali della mia città natale, durante il paio d'ore riservato alla teoria di uomini incappucciati e di simboli del Calvario di Gesù, culminanti nel Miserere di Saverio Selecchy, una musica che dà i brividi.

Personalmente sono giunta a una conclusione che sarà probabilmente considerata eretica tra i miei amici cattolici: i riti della Pasqua mi trasmettono un indicibile senso di morte. E una cupezza livorosa che mi morde lo stomaco.
So bene che dopo (dopo quando?) c'è la Resurrezione, che simboleggia il trionfo della vita (eterna) sulla mortalità dell'uomo. Ma, sinceramente, ciò non mi consola. Affatto.

Non posso negare che il suono dei violini, delle viole e dei flauti che ti sfilano davanti mentre tu sei lì sul marciapiede a congelarti e a orecchiare, non volendo, le ciarle spesso insignificanti degli altri astanti ti strappa al presente, spingendoti ad ascoltare quelle gravi voci maschili che cantano in latino (una lingua, manco a dirlo, morta pure quella). E che, in quel momento, la morsa allo stomaco sparisce e che, tutto sommato, senti che hai fatto bene a tornarci un'altra volta.

L'armonia con la folla adorante dura però solo pochi minuti, perché dopo ti senti ancora più triste. Solitario. E finalissimo.
Accidenti che fregatura la vita, pensi anche.
Perché tutta questa sofferenza, consideri ancora.
Non parlatemi di croce e di riscatto dai mali che ci hanno angustiato più o meno tutti dopo la fine dei nostri giorni, né tantomeno della fine dei tempi, un concetto che mi ha sempre dato un'angoscia immensa.
Da bambina, anzi, ricordo che una sera non riuscivo ad addormentarmi per aver all'improvviso preso coscienza dell'esistenza del nulla.

Se finisce la terra e l'universo, mi domandavo, che cosa resta?
Forse la prima morsa allo stomaco che ho risentito distintamente nelle "vacanze" appena passate l'ho provata proprio quella sera.
Non mi dà nessuna gioia narcisistica, ve l'assicuro, essere così disincantata, quanto a visione della vita e della morte.
A volte penso che quelle donnette che l'altra sera, alla Messa di Pasqua, invocavano Cristo con foga, le eredi di quelle che udivo sgraziatamente cantare quando ero piccola (o le stesse, oggi vecchie davvero, all'epoca vecchie per nascita), abbiano ragione.

Loro un significato alla vita l'hanno trovato.
Loro sono quasi quasi contente di soffrire, perché così si sentono più vicine all'Altissimo.
Io non potrò mai essere così, ne ho la certezza.

Sto anzi meditando da qualche tempo sulla necessità di firmare il testamento biologico.
Intanto lo scrivo qua, a futura memoria: se mi rincoglionisco o divento incapace di intendere e di volere in qualche altra forma che adesso non saprei dire, voglio che mi si dia pace. Va bene anche una martellata, l'importante è che nessuno sia costretto a occuparsi di me, un sacco vuoto ancora pulsante solo di grane per gli altri.

Sono allegra, eh?
Mi dispiace, ma stavolta gira così.
Sono convinta che ci siano molte ragioni per vivere e per vivere bene, comunque al meglio delle nostre possibilità, ma proprio per questo motivo non accetto una religione che mi dica che il senso del nostro passaggio (passaggio, appunto) sulla terra sia comprensibile solo dopo che non ci saremo più o proprio in ragione delle croci che dobbiamo portare nel tempo che ci è dato in sorte.

So anche (non mi fregate, amici preti) che anche per i credenti ci sono molte cose belle: la nascita di un figlio, l'amore per i propri genitori, per dire due valori che naturalmente condivido.
E' solo che non riesco ad arrendermi ai colpi della vita, pensando che, tanto, un domani saremo tutti polvere.

E poi lo ammetto: io alla gerarchia ecclesiastica non do molto credito, perché a mio avviso, salvo pochissime eccezioni, la spiritualità è una dote personale che o c'è o non c'è. Continuo, in poche parole, a vedere ancora troppi Don Abbondio e pochi Fra Cristoforo, intorno a me. Senza contare, tra l'altro, che non capisco perché i ministri di Dio debbano essere, per l'appunto, solo ministri e non anche ministre.

E tuttavia il mio scetticismo verso i culti è democratico: non mi convincono molto neanche le altre religioni. Quasi quasi, anzi, capisco di più quelli che temono l'ira della natura e delle tempeste che può scatenare.

Per poterne disquisire con fondamento, però, dovrei studiarle, cosa che avrei fatto volentieri anche a scuola, se non fosse che il nostro prof di religione ci parlava di dove aveva comprato l'auto nuova.

Con il passare degli anni ho finito per considerare la questione "che ci facciamo su questa terra" un po' sullo sfondo, com'è, tutto sommato, logico che accada a una persona che sta crescendo.
Adesso che mi sto approssimando alla mezza età, invece, ho ripreso a interrogarmi, con un'acredine tutta nuova, sul nonsenso che ci pervade, ma non so ancora dove mi porterà questo percorso. Sempre ammesso che si tratti di un percorso e non di un girare a vuoto.

So che la fede smuove altre corde (le donnette che cantavano sgraziatamente di cui sopra, intendo), ma io, per potermi emozionare davvero, devo anche capire. O lasciare spazio al mio io più profondo, che se ne sta lì, sepolto sotto un fitto cespuglio spinoso, troppo spesso indisponibile ad ascoltare persino la mia voce disperata.

Appoggiata alla parete della brutta chiesa della mia infanzia, mi sono messa a piangere (poche lacrime che ho tentato il più possibile di nascondere), ma non per la commozione.
Ero sfinita dalla lotta che sto conducendo su troppi livelli. La crepa emotiva deve essere stata stimolata anche dall'accento spagnolo del giovane missionario e da quel messaggio con il quale ha chiuso la funzione sulla morte che vince la vita, che, non avendomi affatto persuaso, mi ha dato la botta finale.

Amico missionario, per me non è così.
La morte è morte e basta. E' assenza definitiva. E' buio.
E tu che sei tanto più giovane di me non dovresti consigliare di pensare al martirio dei santi quando una donna, credente, spaventata, ti confessa la sua fragilità.
A lei (e a me non ne parliamo) del martirio dei santi non può fregare di meno, in quel momento.
Ma tu fai il tuo mestiere, in fondo, ed è più facile essere empatici dal pulpito che non a tu per tu.

Però la faccia contrita della vicina che mi ha consigliato di non farmi vedere piangente (come se non lo sapessi da sola) e quella rassegnazione floscia al dolore no, quella proprio non posso digerirla.

Come concludere questo delirio?
Nei giorni passati avevo avuto l'istinto di entrare in qualche chiesa per tentare di fare (provarci, almeno) silenzio e mettermi in ascolto di quest'io inselvatichito.

Credo che passeranno molti giorni prima di riprovarci ancora.
Non me ne vogliano gli amici credenti.
L'ho detto: tolte le donnette che a forza di scriverlo mi stanno (quasi) diventando simpatiche, chi ha fede in qualcosa è più sereno.
Tenetevi strette le vostre fedi più profonde, quindi. Che si chiamino Dio, Allah, Budda, Manitù.

Il resto, in qualche maniera, si scriverà.

martedì 15 aprile 2014

Fermo e l'invincibile distanza


Ci ho pensato a lungo, ma la conclusione è rimasta la stessa cui ero approdata fin da subito. Desidero dedicare qualche riga alla chiusura di Alelà, il piccolo negozio di calze, canotte e costumi, nel quale sono entrata più di una volta, soprattutto quando ho avuto bisogno di fare qualche regalo un po' più di qualità.
Sono rimasta malissimo quando ho saputo la brutta notizia.

Pur non essendo una habituè dei negozi di piazza del Popolo, il magnifico cuore del centro storico di Fermo, mi piaceva infatti dare un'occhiata alle vetrine, come chiunque (non solo di sesso femminile) abbia un minimo di interesse per vestiti, scarpe e accessori vari.
Da quando sono arrivata quassù, però, lo shopping dei miei occhi si è di anno in anno sempre più ridotto, lasciandomi nel cuore la spiacevole sensazione di abitare in un paese fantasma.

So di dire qualcosa di scomodo per chi - giustamente - è molto attaccato alle proprie radici, ma, credetemi, se giorno dopo giorno Fermo mi è diventata sempre più estranea non è solo per colpa mia e del mio essermene restata chiusa nella "torre" troppo a lungo.

Ci ho provato, e continuo tuttora, in fondo, a tentare di sentirmi a casa, ma non ci sono riuscita. E, ahimè, ormai mi sono convinta che mai riuscirò.
Il che non vuol dire che in tutti questi anni non abbia conosciuto persone interessanti e fatto bellissime e indimenticabili esperienze.
E' solo che se non lavori sul posto, se non hai un legame non solo hobbistico con il luogo in cui abiti diventa obiettivamente più difficile.

E non che non abbia provato anche a cercarmi qualche lavoretto. Una volta ci sono anche riuscita ed è stato bello, ma del tutto inutile in prospettiva.
In questo caso, però, il problema è tutto mio e del percorso di studi e professionale troppo poco spendibile in una terra dedita al lavoro prevalentemente manuale (agricoltura+calzaturiero) come questa.

Mettici in più la crisi, mettici la tendenza non solo locale allo svuotamento progressivo dei centri storici a favore dei grandi centri commerciali, mettici le potenti lobby politico-ecclesiastiche contro le quali ho ampiamente sbattuto il muso quando lavoravo per il giornale diocesano. Fatto sta che la mia condizione di estraneità ha finito solo per rafforzarsi. E per aggravarsi ulteriormente per via di questo progressivo sgombero dalle vie che circondano la bella casa-torre nella quale soggiorno, dotata di questa vista mozzafiato che per lo meno ha lenito un po' lo sconforto dei momenti più bui.

Me ne dispiace. Tanto. Non sapete quanto.
Per scelta ho lasciato la grande città, alla ricerca di un luogo e di uno stile di vita più semplice.
E mi devo ritenere persino privilegiata per aver avuto la possibilità di fare almeno un po' il mio lavoro i primi tre anni passati qui con voi.

All'inizio della mia vita marchigiana, tra l'altro, abitavo sulla costa, dov'ero approdata in pieno inverno, accolta da una nevicata epocale che aveva imbiancato persino la spiaggia.
Ricordo ogni giorno, o quasi, passato alla Voce delle Marche, le risate e l'impegno che ci mettevamo, ogni settimana, per fare uscire quel piccolo giornale.
Quel giornalino, come lo chiamò una volta lo zio mantovano di mio marito, facendomi non poco scaldare, era una ragione più che valida per sentire davvero, o per illudersene, di aver trovato il proprio posto nel mondo.

Non è stato così, purtroppo, e anche ammesso che sia anche il mio carattere a indurmi a nutrire sempre un certo senso di distanza dagli ambienti troppo formati e strutturati (non ho mai fatto parte degli scout e agli sport di squadra preferisco di gran lunga quelli individuali), so anche stare con gli altri. So dare il mio contributo e fare un passo indietro a favore di qualcun altro più capace.
L'importante è avere l'occasione di dimostrarlo: il che significa essere accolti per quello che si è, senza preconcetti.

L'epilogo non felice dell'avventura commerciale della mia omonima commerciante di calzette di qualità mi ha amareggiato soprattutto per una ragione personale, insomma: se ha chiuso lei che a Fermo è nata, che per Fermo ha lasciato un posto di lavoro ai tempi stra-blindato in una grossa azienda, se oltre a lei hanno mollato le redini altri commercianti una volta molto gettonati del centro storico, compresa la mia ex edicolante, che oggi fa la fioraia (non so con quale successo) a Porto San Giorgio, perché mai avrei dovuto avere più chance io, che manco ci sono nata?

Faccio un'ultima considerazione, stavolta più politica: come può essere valutata una giunta comunale che ha lasciato andare verso il tracollo un centro così bello?
Che ha tolto i parcheggi ai residenti sulla strada che ospita il Municipio, sperando in questo modo di attrarre più gente, ovviamente automunita, senza pensare minimamente a potenziare altre vie di accesso al centro, altre forme di mobilità cosiddetta leggera che ormai dovrebbero essere un obbligo per qualunque centro che si dica civile?

Come si giudica un Comune che non ha ancora attivato la raccolta differenziata porta a porta, sempre nel medesimo centro storico?
Che cosa devo pensare della frana che si è staccata a pochi metri dalla nostra casa-torre, sembra per colpa della mancata manutenzione alla collina di tufo (o qualcosa del genere) sulla quale sorge il colle più alto della città?

In questo discorso il mio mal di vivere personale non c'entra. Però c'entra, come direbbe Nanni Moretti.
Perché se in questi anni avessi assistito a scelte illuminate, fatte per i cittadini (tutti: fermani di nascita e non) e non per favorire gli interessi di qualcuno; se avessi assistito non allo svuotamento, bensì alla rinascita del centro, alla faccia della tendenza nazionale, forse mi sarei convinta che comunque ho fatto bene a venire qua.

Mi resta sempre il dubbio che in una metropoli sarei stata ancora peggio, anche se nei grossi centri il senso di estraneità sarebbe passato inosservato, dal momento che tutti, più o meno, sono anonimi abitanti di non-luoghi.

Che dire? Ricorrendo a un'espressione che utilizzo spesso in modo ironico, ormai è andata.
E d'altra parte non mi sono del tutto arresa, visto che sto preparando una foto per una manifestazione collettiva di artisti (gli altri, non io), che esprime tutt'altro sentimento rispetto a quello che ho vergato qui.
Come me farebbe chiunque abbia ancora (molta) voglia di vivere. E di partecipare. A modo mio, naturalmente.

Vi saluto con un sogno: dopo anni passati in Germania o chissà dove in giro per il mondo, un giorno, d'inverno, i miei nipoti torneranno a Fermo e si ricorderanno di quando vi avevano venduto i loro giochi da bebè, felici dei guadagni realizzati e della festosa atmosfera che li circondava. E la riconosceranno perché, nonostante il freddo pungente che spesso alberga anche da queste parti, vi troveranno tanta gente di tutte le età, che passeggia circondata dal verde, costeggiando negozi di ogni genere, colorati ed eleganti.

E' un sogno di giovinezza, lo so, fuggevole come quella vera.
E tuttavia è l'unica visione sperabile, non tanto per me, ma per quelli che a Fermo verranno a vivere. Un giorno lontano.

martedì 8 aprile 2014

Di Maigret con Bruno Cremer e del mio animo vintage. Da sempre


 
 
Sono sempre stata un po' vintage, anche a sedici anni. 
Credo che c'entri l'educazione ricevuta, ma non solo. Ricordo perfettamente quando mi scrutavo la faccia a pochi millimetri di distanza dallo specchio alla ricerca dei primi segni del tempo.
Ho sempre provato un invincibile amarcord per il tempo andato, insomma.
 
Sarà per questo che poi, nei libri che leggo e nei film che guardo (i miei due passatempi preferiti) tendo sempre all'old style.
Prendete per esempio il Maigret di Gino Cervi, da me molto amato.
 
A farmelo conoscere, ovviamente, è stato il consorte, se possibile ancora più nostalgico dei bei tempi che furono della sottoscritta, ma non posso che essergliene grata.
 
E adesso l'ultima scoperta, si fa per dire, visto che sto parlando di un telefilm degli anni Novanta.
La7 (che anche quando si chiamava Tmc mandava una marea di repliche, esattamente come fa adesso) sta riproponendo i Maigret con Bruno Cremer, questo magnifico attore che mi somiglia vagamente ad Adolfo Celi, di cui ignoravo l'esistenza fino a qualche settimana fa.
 
Adoro, letteralmente, la fotografia del telefilm volutamente passatista e sono davvero impressionata dalla qualità della recitazione di Cremer, che niente ha da invidiare al nostro Cervi.
 
Mio marito, anzi, mi ha detto che gli sceneggiati (un'altra bella parola antica, da tempo sostituita con l'anglofona fiction) francesi sono assai più fedeli ai libri di Georges Simenon dai quali sono tratti.
Confesso, con grande contrizione, di non averne ancora letto neanche uno, ma prima o poi lo farò, ne sono convinta.
 
Che cos'altro aggiungere?
Guardate anche solo qualche scena di una delle molte puntate che il provvidenziale Youtube offre in versione integrale.
 
Se resisterete ai ritmi lenti, anzi, se ve ne innamorerete come me, allora vorrà dire solo una cosa: siete vintage anche voi. Ed è una bella cosa, ve lo dico io.
Alla faccia del tempo che corre via, rubandoci preziose perle come queste.
 
Buona visione e buona vita, amici.
 




martedì 1 aprile 2014

Harvey di James Stewart e lo spirito guida che vorrei incontrare


 
 
 
Tra i film che ho rivisto in lingua originale c'è anche Harvey, con James Stewart, uno dei miei preferiti. Debbo però precisare che in questo caso ho avuto bisogno dei sottotitoli (rigorosamente in inglese) per orientarmi un po' meglio nella lingua usata nella pellicola. I dialoghi sono molto ben costruiti, direi meglio letterari.
Erano, del resto, altri tempi e basta guardare qualsiasi film, anche italiano, di quegli anni per rendersene conto.
 
In poche parole, la storia di Harvey, che prima di essere un grande successo cinematografico, è stato per anni un vero e proprio sold out a teatro, è la seguente.
Il gigante (anche fisicamente) James Stewart interpreta il ruolo di Elwood P. Dowd, un ultraquarantenne scapolo e all'apparenza solo un po' svagato, che vive con la sorella e la figlia di quest'ultima.
 
La storia non lo dice apertamente, ma lo lascia solo intuire: alle origini del bizzarro comportamento di Dowd dev'esserci stato un trauma che l'ha spinto a rifugiarsi in un mondo tutto suo, fatto di sogni e di gentilezza.
 
Il segno tangibile della sua stranezza è però proprio Harvey, che Elwood descrive come un coniglio bianco alto due metri e che è in verità un Pooka, ossia uno spirito guida che lo consiglia e lo accompagna al bar.
Tutti sanno della sua "esistenza", al punto che perfino il barista amico del personaggio di Stewart finisce per preparargli il bicchierino quotidiano come se niente fosse.
 
Sembrerebbe un dramma e invece è una delle commedie più lievi e poetiche che io abbia mai visto.
Date un'occhiata al breve frammento che riporto sopra e forse capirete.
Per apprezzarlo pienamente, però, bisogna che vediate tutto il film.
 
Perché ne parlo oggi?
Un po' perché era un pezzo che ci pensavo. E un po' perché, ve lo confesso, vorrei tanto avere anch'io un Pooka che mi accompagna al bar.
Da ragazzina, l'ho scritto qualche post fa, avevo effettivamente un amico immaginario (con relativo cugino), ma rinverdirlo adesso non mi pare proprio il caso.
 
E tuttavia capisco forse molto più lucidamente di allora quanto abbiamo bisogno di sentirci protetti. E amati, incondizionatamente.
E non solo quello.
 
Harvey rende più simpatico l'altrimenti tragico Elwood: al suo Pooka, di cui il primo finisce per fare le veci, si rivolgono tutti per una parola di conforto, per un sorriso (pure lo psichiatra della clinica in cui vorrebbero rinchiudere il personaggio di Stewart finisce per crederlo reale).
Chi ha il proprio spirito-guida, insomma, sta meglio e fa stare meglio gli altri.
Sì, vorrei tanto incontrarne uno anch'io.
E voi?