Visualizzazione post con etichetta morte. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta morte. Mostra tutti i post

sabato 23 agosto 2014

Le foto di famiglia e l'amore che non muore


Per fortuna non era andata persa. Per fortuna ci passiamo quasi sempre le fotografie che scattiamo.
L'avevo cercata tanto nei giorni in cui volevamo scegliere l'immagine ricordo, ma niente, era sparita dall'hard-disc esterno. Sul pc, ovviamente, non c'era: quello precedente all'attuale ha smesso di funzionare di punto in bianco, senza preavviso.

E invece eccola qui. Bellissima. L'ho scattata io, ma non conta, in fondo. Anche se, naturalmente, sono orgogliosa di aver documentato moltissimi momenti felici.
Forse è diventata un poster, forse lo diventerà presto. In ogni caso, guardarla m'immalinconisce e insieme mi fa sorridere.

Quei due piccini oggi sono così diversi e uguali. Non sembra possibile che siano stati tanto minuscoli. Da poco ho provato l'esperienza di zia ospitante: era la prima volta che i nipoti passavano più giorni senza entrambi i genitori. E' stato impegnativo, certo, ma così coinvolgente da lasciare un vuoto disorientante.
Pure i gatti ne hanno risentito: il pomeriggio dopo la partenza erano distrutti. Felici anche, probabilmente, al contrario degli zii.

Ho finito da sola il numero delle Cipolline che hanno dimenticato: mi ero talmente compenetrata nella parte della voce narrante che non mi andava di lasciare la storia a metà. Ieri, però, il nipote piccolo mi ha intimato di riportargli il libro. Certo che lo farò, così almeno posso finire di leggerglielo.

Ho fatto, molto parzialmente, le veci della nonna.
Il piccino, quello che all'apparenza sembra già un ultrà, mi ha parlato delle letterine che quando era ancora più piccino gli scriveva la nonna. Gli ho risposto che le scriveva pure a me, anche adesso che sono più che grande. Mi è sembrato che si sia stupito, ma forse non lo era.
La nonna era speciale.

Non riesco ad aggiungere molte altre parole, se non l'ennesimo grazie per tutto l'amore che ho ricevuto e che malamente cerco di dare a mia volta. Non a tutti, ovvio, ma a una buona parte di persone sì. Sono fatta così, del resto, non posso sempre vergognarmi di come sono.

Aggiungo solo un ps per mia sorella: La gita di mezzanotte di Roddy Doyle è stato davvero un bel regalo. Per chi non lo conoscesse, parla di quattro generazioni di donne che si incontrano: una di loro è un fantasma. Sarebbe una storia per ragazzi, ma va benissimo anche per ex-ragazzi come me e come tutte quelle persone che non sanno (ancora o mai) spiegarsi perché si debba morire.

Grazie, Linda. Ti voglio bene. Anzi: LE voglio bene (lei sa perché scrivo così).
E adesso basta smancerie.
Tsk.

venerdì 20 giugno 2014

Le donne della mia famiglia e il cambiamento che verrà. Per forza


Non so se si capisce, ma questa donna anziana mi era parente. Anzi: mi è parente, benché se ne sia andata quasi un anno fa. 
Non avrei mai immaginato di ritrovarmi orfana di nonna e di mamma in meno di un anno. Si può essere razionali quanto si vuole, ma la morte ti spiazza sempre.

Non sono particolarmente triste, solo molto malinconica. E stanca. Quissù (sulla torre-casa) è tutto troppo distante e ovattato e io, invece, ho bisogno di vita. Sento gli uccellini cinguettare, mi rinfranco alla vista dei nostri mici che passano sotto la mia scrivania, ma non mi basta.
Non mi bastava prima, non mi basta adesso.

Quella donna lassù ha avuto una vita lunga, non sempre facile.
Da ragazza era secca secca, molto più di quanto io non sia mai stata. Nella foto del suo matrimonio con il mio nonno omonimo (quello ipocondriaco, una vita assai infelice dalla pensione in poi, purtroppo) aveva uno sguardo vispo, da teppa. La nostra gatta Bice, forse, nella sua precedente vita era un tipetto come lei. 

Mi mancano le sue battute fulminanti, ma sapevamo che poteva succedere che ci lasciasse.
Non riesco invece ancora a pensare all'altra, enorme perdita come a qualcosa di atteso. 
E' troppo presto, ma il buco che verrà mi spaventa.
Scrivo, probabilmente, anche per non sentire il silenzio che è in me, non tanto quello esterno, che non è mai del tutto privo di suoni.

Lentamente, molto lentamente, sto tornando alla mia "anormalità normale", come mia mamma chiamava la sua condizione dopo aver scoperto il male che ce l'ha rubata.
Non mi piaceva quel che le stava capitando e non mi piace affatto il mio presente.

Lo so, qualcosa cambierà, tanto tutto cambia sempre. Per forza.
E la telefonata di stamattina della mia amica di liceo è di buon auspicio. Sai, Jessika, volevo dirle, ho comprato due racchette a venti euro giusto l'altro giorno.
Forse il mio cambiamento ricomincia dal tennis, abbandonato troppi anni fa.
Dovevate vedermi nel campetto sgarrupato sotto casa di mia zia a tirare la pallina contro il muro.
Non c'erano testimoni, ma quei minuti sottratti al pranzo malinconico mi hanno fatto bene.

Avrei voluto forarlo, quel muro, senza rabbia, solo con tutta l'energia che vorrei usare una volta buona, prima che sia troppo tardi.
Le donne della mia famiglia che vivono anche dentro di me, con un po' dei loro geni, della loro educazione, mi hanno lasciato chiari esempi di coraggio e azione.
Non credo che li tradirò, ma spero di non metterci troppo.
Non me lo posso più permettere.

venerdì 13 giugno 2014

Il passato in fumo, come le nuvole


Mi percorrono sentimenti contrastanti, per cui, a chi mi ha chiesto "come va?", non so davvero che cosa rispondere. Mi sembra solo incredibile che non sia passata neanche una settimana dal momento in cui, mia sorella ed io, abbiamo visto la trasformazione di nostra madre in qualcosa che non so definire.
E' come se fossero trascorsi secoli e, da un altro lato, è come se quel commiato non fosse mai avvenuto.

Stamattina con nostro padre è andato mio cognato (il tedesco-abruzzese, gentile d'animo e preciso, sulle cose tecniche, per lo meno). Un pochino me ne sento sollevata, perché, obiettivamente, la ditta di pompe funebri vicino a Iurino (per quelli che sono di Chieti, per gli altri sto parlando dello stradone anonimo e trafficato che porta verso Francavilla, il paese di mare noto pure all'estero come esempio di cattiva, anzi pessima, urbanizzazione) non è proprio un bel posto.

E d'altronde la morte produce pure incombenze di questo genere. A tratti, mentre eravamo all'obitorio, mi veniva persino da sorridere osservando gli orrendi paramenti sacri dietro la bara di mia madre e ascoltando il racconto raccolto da mia sorella dalla viva voce del cassamortaro anziano circa le nuove mode per le casse, oggi sempre più chiare e con rivestimenti pendant, niente più legno scuro per la bara né cremisi  per le fodere interne, oggi ritenuti troppo troppo funerei, insomma.

Pensavo anche a tutte le volte che abbiamo visto, anche con mia madre, i molti film di Totò in cui la morte viene spesso evocata in tono scherzoso. In particolare, mi veniva in mente la scena del film di Monicelli e Steno nella quale lo sfollato Antonio incontra l'ex custode del cimitero nell'abitazione che lui si è procurato di frodo. Il principe De Curtis aveva una grande paura della nostra ahimè comune fine ed è effettivamente vero che anche nei suoi film più riusciti c'è sempre una vena di malinconia che a tratti, a mio personale giudizio, può dare persino angoscia.

Da ragazzina mi capitava ogni tanto di provare degli strani pugni allo stomaco. Devo averne già parlato un po' di post fa, dicendo di averli risentiti.
In questi giorni così difficili, invece, quella morsa non c'è ed è un altro evidente segno di cambiamento, non so quanto definitivo.

Ho acquisito, almeno per il momento, una certa lucidità di pensiero.
Non voglio troppe rotture di balle, in termini più terra terra.
Ho ricevuto alcune mail molto belle e ne sono rimasta contenta. Un amico caro che ha subìto un forte stop, per fortuna in superamento, mi ha fatto leggere delle righe bellissime del filosofo Emanuele Severino.
Qualcuno, invece, non è stato capace neanche di dirmi un generico "mi dispiace".
Un paio di persone care non sono venute al funerale, ferendomi un bel po'.

So che non è facile confrontarsi con la morte, di sicuro anch'io, fino a qualche tempo fa, non avrei saputo come comportarmi. Penso tuttavia che basterebbe essere se stessi, anche riconoscendo la propria difficoltà in modo aperto.

Non sono nessuno per giudicare: anzi, i giudicanti in genere mi stanno pesantemente sulle scatole.
Al contempo, però, non sono dotata di spirito cristiano e il perdono a priori non riesco proprio a darlo.
La mia cara amica di liceo Valentina mi ha detto "non ti arrabbiare" e io le ho risposto, quasi con disperazione, "non sono arrabbiata, solo dispiaciuta".

Troppi dispiaceri insieme fanno male, per cui preferisco tacere avvolgendomi in questo silenzio così peculiare, senza tuffi allo stomaco e lacrime che vengono solo a tratti.
Sta tuonando, la mia pelle è bollente per via del sole che ho preso in acqua ieri, giocando con i miei nipoti. Ogni tanto anche loro vengono percorsi dalla malinconia, oggi, mi è parso, più dei giorni scorsi.

Sono proprio loro quelli da proteggere, di certo non io che mi avvio alla piena maturità della vita. Nè i miei amici troppe volte assenti durante questi due lunghi anni di malattia, vissuti, per fortuna, nella vicinanza della nostra bella e affettuosa famiglia allargata.
Non sono affatto contenta che ci abbiano visto discutere, noi adulti (io e mio padre ieri sera per la melanzana alla parmigiana che secondo me era andata a male, figuriamoci un po') né di non riuscire a essere la zia giocherellona che hanno conosciuto. So che capiscono, ma restano pur sempre bambini.

Non sarà facile neanche tornarmene a casa mia, che casa mia non è, ma è abitata dal mio uomo e i nostri mici adorati. Quei due, così asociali, non hanno conosciuto mia mamma, mentre lei ha spesso contribuito al loro sostentamento. Per analogia con i nipoti, sono pur sempre gatti, bisogna viziarli e coccolarli sperando che ci ricambino in qualche modo.

Il mio passato è, in definitiva, sfumato, come quelle nuvole sfilacciate che ho fotografato ieri mattina, uscendo dalla banca di mio padre. Un posto che da bambina e da ragazza frequentavo moltissimo. Che strano tornarci dopo così tanto tempo.

Non voglio dire che se ne sia andato via, solo che è nebuloso, lontano e vicino come quel cielo dal quale, forse, mia mamma ci sta osservando tutti.
Starai ridendo?
Lo spero, con tutto il cuore.

martedì 22 aprile 2014

I riti della Pasqua e la morsa allo stomaco che ritorna

Monti Sibillini, Pasqua 2013
Quest'anno, per la prima volta nella mia vita, non ho assistito alla Processione del Venerdì Santo di Chieti.
L'ho scritto l'altro giorno su Facebook. E invece mi sono appena accorta che non era vero. L'ho saltata anche lo scorso, dal momento che ero a Castelluccio di Norcia, in un'atmosfera degna della Passione di Cristo quasi quanto quella che alligna sulle vie centrali della mia città natale, durante il paio d'ore riservato alla teoria di uomini incappucciati e di simboli del Calvario di Gesù, culminanti nel Miserere di Saverio Selecchy, una musica che dà i brividi.

Personalmente sono giunta a una conclusione che sarà probabilmente considerata eretica tra i miei amici cattolici: i riti della Pasqua mi trasmettono un indicibile senso di morte. E una cupezza livorosa che mi morde lo stomaco.
So bene che dopo (dopo quando?) c'è la Resurrezione, che simboleggia il trionfo della vita (eterna) sulla mortalità dell'uomo. Ma, sinceramente, ciò non mi consola. Affatto.

Non posso negare che il suono dei violini, delle viole e dei flauti che ti sfilano davanti mentre tu sei lì sul marciapiede a congelarti e a orecchiare, non volendo, le ciarle spesso insignificanti degli altri astanti ti strappa al presente, spingendoti ad ascoltare quelle gravi voci maschili che cantano in latino (una lingua, manco a dirlo, morta pure quella). E che, in quel momento, la morsa allo stomaco sparisce e che, tutto sommato, senti che hai fatto bene a tornarci un'altra volta.

L'armonia con la folla adorante dura però solo pochi minuti, perché dopo ti senti ancora più triste. Solitario. E finalissimo.
Accidenti che fregatura la vita, pensi anche.
Perché tutta questa sofferenza, consideri ancora.
Non parlatemi di croce e di riscatto dai mali che ci hanno angustiato più o meno tutti dopo la fine dei nostri giorni, né tantomeno della fine dei tempi, un concetto che mi ha sempre dato un'angoscia immensa.
Da bambina, anzi, ricordo che una sera non riuscivo ad addormentarmi per aver all'improvviso preso coscienza dell'esistenza del nulla.

Se finisce la terra e l'universo, mi domandavo, che cosa resta?
Forse la prima morsa allo stomaco che ho risentito distintamente nelle "vacanze" appena passate l'ho provata proprio quella sera.
Non mi dà nessuna gioia narcisistica, ve l'assicuro, essere così disincantata, quanto a visione della vita e della morte.
A volte penso che quelle donnette che l'altra sera, alla Messa di Pasqua, invocavano Cristo con foga, le eredi di quelle che udivo sgraziatamente cantare quando ero piccola (o le stesse, oggi vecchie davvero, all'epoca vecchie per nascita), abbiano ragione.

Loro un significato alla vita l'hanno trovato.
Loro sono quasi quasi contente di soffrire, perché così si sentono più vicine all'Altissimo.
Io non potrò mai essere così, ne ho la certezza.

Sto anzi meditando da qualche tempo sulla necessità di firmare il testamento biologico.
Intanto lo scrivo qua, a futura memoria: se mi rincoglionisco o divento incapace di intendere e di volere in qualche altra forma che adesso non saprei dire, voglio che mi si dia pace. Va bene anche una martellata, l'importante è che nessuno sia costretto a occuparsi di me, un sacco vuoto ancora pulsante solo di grane per gli altri.

Sono allegra, eh?
Mi dispiace, ma stavolta gira così.
Sono convinta che ci siano molte ragioni per vivere e per vivere bene, comunque al meglio delle nostre possibilità, ma proprio per questo motivo non accetto una religione che mi dica che il senso del nostro passaggio (passaggio, appunto) sulla terra sia comprensibile solo dopo che non ci saremo più o proprio in ragione delle croci che dobbiamo portare nel tempo che ci è dato in sorte.

So anche (non mi fregate, amici preti) che anche per i credenti ci sono molte cose belle: la nascita di un figlio, l'amore per i propri genitori, per dire due valori che naturalmente condivido.
E' solo che non riesco ad arrendermi ai colpi della vita, pensando che, tanto, un domani saremo tutti polvere.

E poi lo ammetto: io alla gerarchia ecclesiastica non do molto credito, perché a mio avviso, salvo pochissime eccezioni, la spiritualità è una dote personale che o c'è o non c'è. Continuo, in poche parole, a vedere ancora troppi Don Abbondio e pochi Fra Cristoforo, intorno a me. Senza contare, tra l'altro, che non capisco perché i ministri di Dio debbano essere, per l'appunto, solo ministri e non anche ministre.

E tuttavia il mio scetticismo verso i culti è democratico: non mi convincono molto neanche le altre religioni. Quasi quasi, anzi, capisco di più quelli che temono l'ira della natura e delle tempeste che può scatenare.

Per poterne disquisire con fondamento, però, dovrei studiarle, cosa che avrei fatto volentieri anche a scuola, se non fosse che il nostro prof di religione ci parlava di dove aveva comprato l'auto nuova.

Con il passare degli anni ho finito per considerare la questione "che ci facciamo su questa terra" un po' sullo sfondo, com'è, tutto sommato, logico che accada a una persona che sta crescendo.
Adesso che mi sto approssimando alla mezza età, invece, ho ripreso a interrogarmi, con un'acredine tutta nuova, sul nonsenso che ci pervade, ma non so ancora dove mi porterà questo percorso. Sempre ammesso che si tratti di un percorso e non di un girare a vuoto.

So che la fede smuove altre corde (le donnette che cantavano sgraziatamente di cui sopra, intendo), ma io, per potermi emozionare davvero, devo anche capire. O lasciare spazio al mio io più profondo, che se ne sta lì, sepolto sotto un fitto cespuglio spinoso, troppo spesso indisponibile ad ascoltare persino la mia voce disperata.

Appoggiata alla parete della brutta chiesa della mia infanzia, mi sono messa a piangere (poche lacrime che ho tentato il più possibile di nascondere), ma non per la commozione.
Ero sfinita dalla lotta che sto conducendo su troppi livelli. La crepa emotiva deve essere stata stimolata anche dall'accento spagnolo del giovane missionario e da quel messaggio con il quale ha chiuso la funzione sulla morte che vince la vita, che, non avendomi affatto persuaso, mi ha dato la botta finale.

Amico missionario, per me non è così.
La morte è morte e basta. E' assenza definitiva. E' buio.
E tu che sei tanto più giovane di me non dovresti consigliare di pensare al martirio dei santi quando una donna, credente, spaventata, ti confessa la sua fragilità.
A lei (e a me non ne parliamo) del martirio dei santi non può fregare di meno, in quel momento.
Ma tu fai il tuo mestiere, in fondo, ed è più facile essere empatici dal pulpito che non a tu per tu.

Però la faccia contrita della vicina che mi ha consigliato di non farmi vedere piangente (come se non lo sapessi da sola) e quella rassegnazione floscia al dolore no, quella proprio non posso digerirla.

Come concludere questo delirio?
Nei giorni passati avevo avuto l'istinto di entrare in qualche chiesa per tentare di fare (provarci, almeno) silenzio e mettermi in ascolto di quest'io inselvatichito.

Credo che passeranno molti giorni prima di riprovarci ancora.
Non me ne vogliano gli amici credenti.
L'ho detto: tolte le donnette che a forza di scriverlo mi stanno (quasi) diventando simpatiche, chi ha fede in qualcosa è più sereno.
Tenetevi strette le vostre fedi più profonde, quindi. Che si chiamino Dio, Allah, Budda, Manitù.

Il resto, in qualche maniera, si scriverà.

domenica 2 settembre 2012

Il fumetto dell'anno scorso e il senso severiniano della vita


Napoleone, Storia di Allegra

L'estate sta finendo e il mio povero computer sembra essersi avviato anch'esso sul viale del tramonto. Del resto, ha svolto il suo compito più che degnamente, considerata la mole di ciarpame vario con cui l'ho sovraccaricato.
E comunque, come stavo dicendo, tutto passa (provengo dalla scuola di Lapalisse), persino le serie a fumetti. E' successo per esempio a Napoleone Di Carlo, bizzarro portiere italiano di un hotel ginevrino (in un'altra vita faceva il poliziotto), amico di strani esserini fantasy visibili solo a chi, come lui, non ha tutte le rotelle a posto. Nella storia contenente le vignette sopra riportate, il protagonista del seriale chiuso dalla Bonelli una decina d'anni fa circa, condivide la sua capacità di andare oltre la realtà visibile a noi comuni mortali con un'adolescente rimasta orfana troppo presto. Perché ho deciso di scannerizzare (male) la pagina del fumetto, sottoponendo il mio povero strumento di simil-lavoro a ulteriore sforzo? Per due ragioni. Una piccola e l'altra grande.
Ho comprato il fumetto l'estate scorsa nel banco del mercatino di Fermo del giovedì che ne aveva a pacchi: quest'anno, invece, lo "svizzero" ha lasciato il posto ad altri seriali, compresi i simpatici Niko e Chico, in voga nei primi anni Settanta, che tanto mi hanno deliziato nelle serate più calde di questa lunga e crudelmente bella stagione.
Si trattava, in sostanza, di un avanzo che ho aspettato pazientemente di leggere nello stesso periodo dell'anno, sottoponendomi a una specie di inconscio (e segretamente infantile) rito di passaggio. E d'altra parte, con tutti i libri che non ho ancora letto, potevo ben dimenticarmi di Napoleone per aprirlo al momento giusto, ossia sdraiata sulla spiaggia, con il sole quasi allo zenit.
La verità sapete qual è? Dovevo leggerlo quest'anno. E qui passo alla seconda ragione che mi spinge a parlarne in questo spazio. In sogno Allegra, la protagonista del numero, ritrova la nonna, l'unica parente che le era rimasta fino a poco tempo prima. E' proprio lei a spingerla ad andare avanti, parlandole della vita e della morte in una maniera che mi ha fatto pensare al filosofo Emanuele Severino, di cui, pur sapendo pochissimo, ho cominciato ad apprezzare il valore grazie alle continue sollecitazioni del mio caro amico Paolo Ferrario.
Anche quando tutto sembra finire, in realtà non finisce davvero. Preferisco però trascrivere le parole della nonna di Allegra, a beneficio dei molti che non riusciranno a leggere direttamente dalla mia pessima scannerizzazione: "La vita si alterna alla morte e scorre in un tempo senza fine... è un trucco che le serve per giocare con le forme e costruire emozioni, desideri, sogni, rinnovando le cose continuamente... e quando anche il dolore sembra insopportabile, quando si muore, e sembra che tutto finisca, niente finisce veramente...".
Sì. Dovevo leggere questo numero di Napoleone quest'anno: lo scorso ero troppo concentrata sugli imminenti 40 anni e sui tristi bilanci dei traguardi mai raggiunti. Anche adesso sono sempre convinta di aver perso un sacco di tempo e di non aver messo a frutto quasi nulla dei miei forse solo potenziali talenti, ma guardando ieri tutte quelle persone in alcuni casi molto più vecchie di me disposte a mettersi in gioco con i loro lavori fotografici, ho capito che sì, i riti di passaggio servono, ma proprio per aiutarci a non sentirci (almeno non troppo) prigionieri dei nostri limiti. Dei nostri corpi e dei nostri pensieri necessariamente limitati.
Per fortuna, il mondo è molto più grande di noi.

giovedì 5 luglio 2012

Coltivare l'anima, tutta la vita


Dev'essere la canicola di questi giorni, fatto sta che sono solo le 22.30 ma a me sembrano le quattro del mattino. Oggi, nella piccola città in cui sono venuta a vivere ormai oltre sette anni fa, è ricominciato il mercatino del giovedì, pieno di cianfrusaglie, vestitini, orecchini (ci sono anche le due belle ragazze da cui prendo qualcosa ogni anno: fanno collane di stoffa e perline davvero molto graziose) e fumetti.
E io, naturalmente, ho già comprato. Parlo di un Dago vecchio con i disegni di Alberto Salinas, il primo (vero) disegnatore del giannizzero nero, del rinnegato veneziano con il corpo scultoreo segnato da ferite non solo fisiche. E pure una pizza fritta (rigorosamente salata) accompagnata da una birretta.
Però ero disorientata: quest'anno è letteralmente volato: come dicono quasi tutti gli adulti e immagino ancora di più gli anziani, dopo una certa età gli anni accelerano. Non so perché, parlando con Teresa e Piergiorgio, il secondo incontrato per caso (ma chissà), è venuto fuori l'argomento morte e il nonsenso sotteso, soprattutto per atei/agnostici come me (e forse anche loro).
Teresa ricordava la rabbia della sua adorata figlia Lisetta, oggi più che adulta, quando realizzò che sì, accidenti, un giorno sarebbe diventata polvere anche lei come tutti gli altri, come i morti ammazzati dalla daga di Cesare Renzi, condannato a non trovare pace per la strage dei suoi cari e costretto per via della stessa a errare ramingo per tutto il mondo, con un grumo nero al posto del cuore.
Sentendola raccontare l'aneddoto, mi è tornato in mente quando è successo a me di prendere consapevolezza del nostro destino inevitabile, una sera tardi, guardando la tv. Atterrita, sono corsa da mia madre e ne ho cercato l'abbraccio con occhi persi: "Dobbiamo morire", le dissi. Non credo che potrò mai dimenticare la serietà della risposta, priva di retorica e di facile rassicurazione. Da quel momento in poi, credo, è finita definitivamente la mia fanciullezza.
Poi, certo, si ritorna a vivere giorno dopo giorno, dimenticandosi dell'orologio (pure di quello biologico nel mio caso), però da allora mi è rimasto da sempre un fondo di malinconia misto a irrequietezza per il non compiuto, il non risolto, il non pieno nelle mie giornate. Ed è anche un po' per questo che detesto perdere tempo. Ogni minuto, ogni incontro, ogni esperienza significativi vanno presi al volo. E non per un superomistico bisogno di superare se stessi, bensì per il motivo contrario: un giorno non potremo più farlo e allora a cosa è servito rinunciarvi in partenza?
Molte volte mi sono rimproverata di aver avuto paura della vita, del successo, della carriera. In parte lo credo tuttora, ma non m'importa più. Almeno, non quanto m'interessa essere in grado di riconoscermi nello specchio, nonostante il tempo e i segni che vanno sedimentandosi sul mio corpo.
Quel che conta di più, però, è la mia anima e la mia volontà di lasciarla libera di esprimersi. E mi conforta assai constatare che quasi allo scadere del quarantesimo, tolto il sonno che mi sta vincendo, mi sento addosso un'energia mai provata prima. Più matura, forse, più consapevole, meglio, comunque con un qualcosa che mai avrei immaginato in quei caldissimi giorni di inizio luglio di un anno fa, quando mi aggiravo con la Nikon sulle spiagge facendo finta di essere una reporter.
Ma ora è il caso di farla finita qui: prima di passare al delirio pre fase rem (?).
Buonanotte.