Tre anni fa, più o meno a quest'ora, mia mamma se n'è andata. Ho sempre il timore (e il terrore) di scadere nella retorica, per cui perdonatemi se non scriverò molto di più su quel momento.
Erano però vari giorni che pensavo di buttare giù qualche riga, partendo dal presente.
In tre anni la mia vita è cambiata quasi totalmente.
Ho la sensazione che mi si sia seccato il cuore, da una parte; dall'altra, di aver sgombrato la mia pur sempre confusionaria e velleitaria testa da un mucchio di ciarpame.
Come vorrei dirlo a lei, che pure, se lo sapesse, mi guarderebbe ancora con un misto di amore e scetticismo.
Quante volte ci siamo ritrovate in cucina, io seduta nella sedia di lato alla credenza, lei su quella che ora uso sempre io quando resto lì a guardare la tv la sera, spesso anche quando papà se ne va a letto.
Prima non vedevo l'ora che quest'ultimo sgomberasse per potermi piazzare sul divano a fare zapping sul mega-schermo (pure negli anni Ottanta il salotto era il luogo deputato all'apparecchio più grande).
Di ritorno dall'università mi fermavo a lungo, di solito dopo pranzo, a raccontarle i fatti rilevanti dei giorni passati lontano da lei. Qualche volta scendevo pure più sul personale, come quella volta - ce l'ho davanti ancora chiaramente - in cui le ho svelato di essermi fidanzata.
Conoscendola, doveva impazzire di gelosia e di rabbia: "chi sarà mai quest'ennesimo scansafatiche?" Di certo si augurava solo che non facessi qualche leggerezza, anche se, sul fronte sesso, in verità, sapeva essere piuttosto esplicita. "Guai a voi se fate la pizza". O qualcosa del genere, di solito riferito a qualche figlia di sedicente amica di collega, che, per l'appunto, l'aveva fatta e addio scuola e altri progetti.
Voleva proteggermi dall'amore, una parola così abusata la maggior parte delle volte in cui la si associa al rapporto sentimentale.
Lo sapete: non sono madre, per cui quella roba strappa-budella che ti succhia sangue ed energia da dentro la conosco solo per sentito dire.
So però che in molti casi aveva ragione lei: non c'è quasi nessun legame che duri per sempre, ma quando ne incontri qualcuno che vale la pena alimentare e far fiorire non c'è genitore che ti possa trattenere.
Mi dispiace di averlo capito troppo tardi, cioè di non averglielo potuto dire. Ma forse non avrei dovuto usare le parole: mi avrebbe sgamata guardandomi in faccia.
Per amare bisogna avere rispetto di sé, curarsi profondamente, ascoltarsi davvero.
Tu hai saputo amare me e Linda perché ci hai saputo parlare a volte con brutalità elefantiaca, ma insieme con rispetto.
"Sembri proprio una giornalista", commentavi leggendo qualche boiata che vi costringevo a sciropparvi. Mi è sempre piaciuto questo sano ridimensionamento del narcisismo da prima della classe e anche se faccio tuttora quotidianamente i conti la mia scarsa soddisfazione professionale, so che quella è l'unica strada per diventare persone equilibrate.
E' insomma come se, perdendoti, tu ti fossi installata stabilmente dentro di me aiutandomi quasi minuto per minuto a non sprecare energie in operazioni fallimentari, in relazioni inutili e altre cretinerie.
Non ho ancora la forza che hai dimostrato tu nell'ultima fase della tua vita né so nulla di quasi nulla su perché diavolo di ragione io sia piombata sulla terra.
So di più sulla fragilità umana, anche sulla tua e, se possibile, mi manchi ancora di più anche per questo. So pure che le lacrime non vanno sparse al vento come gocce di caligine.
Quando piangerò di nuovo, sul serio, sarò da sola: quelle lacrimucce di commozione che facevo fatica a mostrare da adolescente e che, invece, ogni tanto spuntano fuori adesso che mi avvio ai cinquanta, non sono altro che piccole melensaggini.
Dentro, sono un gigante, cara mamma, ma sto ancora crescendo, le articolazioni scricchiolano per questo (sì, come no).
Mi sono accorta di essere passata dalla terza persona al tu, parlando di lei. Parlando di te.
Perdonami per non aver capito tutto il dolore che provavi mentre te ne andavi. Per aver avuto così tanta paura della vita per lunghi, lunghissimi anni, da seguire alla lettera le tue raccomandazioni maternamente rigide anche quando non sarebbe stato necessario.
La verità è che io non ero in grado di amarti come tu hai fatto con me, ora lo so.
L'amore non si sceglie, l'amore arriva e basta, come io (e mia sorella) siamo arrivate da te.
Non so come chiudere: la banalità chiama.
Ti aspetto nei miei sogni.
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mercoledì 7 giugno 2017
mercoledì 27 aprile 2016
La cucina di mia madre e i cambiamenti
Nello spogliatoio della mia amata palestra, si parlava di fritto di qualità. Una mia simpatica omonima, in particolare, diceva che per Pasqua voleva assolutamente il menu tradizionale e che se non fosse stato possibile a casa di non so quale parente, ci avrebbe pensato lei.
Parlava di "agnello fritto" (eh, lo so, per i miei eventuali amici vegetariani e vegani è un bel colpo), ma soprattutto di zucchine fritte.
Mi sono tornate in mente, altro che Proust, le zucchine impanate a fili di mia madre. E le sue alicette pastellate e spruzzate di limone.
Qualche giorno fa mi è successo qualcosa di simile mentre cucinavamo, mia sorella ed io, i carciofi ripieni. Essendoci avanzato parecchio impasto a base di pane sbriciolato, preparato da una eccezionale infermiera cuoca che aiuta mio padre, ma rafforzato da mia sorella con prezzemolo, aglio e olio, ho avuto l'idea di aggiungere qualche patata, debitamente scavata e riempita.
L'accostamento del tubero all'ortaggio era abituale per mia madre: me l'aveva ricordato qualche settimana prima una zia, nel mostrarmi i suoi ottimi carciofi cotti come i nostri in padella.
La mamma, in verità, non usava quasi mai l'aglio né cucinava i carciofi sui fornelli, bensì in forno, ma è stato comunque, almeno inconsciamente, un mio tentativo per celebrarla.
Quello stesso giorno, nella nostra casa di Francavilla, abbiamo fatto pulizia di oggetti e vestiti non più utilizzabili. Tra questi ultimi, ahimè, c'erano anche i suoi costumi. Alcuni mai messi: almeno, io non glieli ho mai visti.
Ma lei era così: comprava un sacco di roba anche per il mare, ma poi, non si sa bene per quale processo psicologico (a noi figlie ci sembra ogni tanto che volesse punirsi di qualche colpa immaginaria), metteva sempre gli stessi costumi, le stesse vestagliette. Una di queste è finita nel mio bagaglio e ora è nel cassetto. So già che difficilmente la indosserò: mia madre aveva tipo una quarta di reggiseno e un paio di taglie in più di me, ma non ce l'ho fatta. E poi chissà, magari me la metto lo stesso.
Non so che cosa mi sta succedendo, ma ogni tanto mi pare che sia tutta colpa dei cambiamenti che sto vivendo in questi giorni se, all'improvviso, senza un motivo apparente, mi tornano alla memoria questi micro-flash del passato. Non mi riferisco solo a mia madre, ma anche ai profumi ritrovati della mia adolescenza, in un primo pomeriggio di giorni fa sul balcone della casa dei miei, e ad altri ricordi più recenti (dieci, quindici anni fa) di quella che ero e non sono più.
Mi stupisco, a tratti, della mia età attuale e in altri mi sento la stessa energia e la stessa voglia di fuggire che avevo da ragazza. Quella nutrita da giovane adulta, voglio dire, prima che il dolore si abbattesse sulla nostra famiglia. Prima che arrivassero le malattie e i doveri di una figlia di padre anziano.
Fuggire, ho detto. Forse non è esatto.
Vorrei solo che davvero la fase che sto vivendo sia la mia occasione per ricominciare daccapo.
Qualcuno con più fede di me direbbe che già solo desiderarlo fortemente è un buon segno. Sinceramente, la mia testarda razionalità (quella che spesso mi frena più del necessario, lo so) mi impedisce di crederlo fino in fondo. Ma comunque io ci sto: afferro quello che sta arrivando e cerco nel tempo libero di lasciarmi scivolare ciò che viaggia in senso opposto, miei scetticismi compresi.
Sono incuriosita dalle persone con cui ho cominciato a lavorare ed è obiettivamente una gran cosa.
Ieri mi si è rotto il gancio del laccio porta ciondolo con la fotografia di mia mamma.
Qualche settimana fa ho perso il suo portachiavi (e le relative chiavi, mannaggia a me).
Il mio lato animistico-abruzzese mi suggerisce che siano tutti segni delle energie che circolano intorno e forse anche dentro di me.
Questo corpo che non è riuscito ad accogliere una nuova vita, probabilmente, vuole comunque essere vitale e fecondo. Lo sento. E stavolta la testa non c'entra.
Speriamo davvero di poter dimostrare chi sono e cosa posso diventare quando mi sento nell'ambiente giusto. Non solo agli altri, ma soprattutto a me stessa.
Chi vivrà vedrà.
Alla prossima, cari amici.
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sabato 6 giugno 2015
Un anno dopo
Ho pubblicato la foto della grigia su Facebook, per cui, miei fidati sparuti lettori, perdonatemi per la ripetizione.
Sono così stanca da non riuscire a connettere, ma volevo farvi comunque sapere, restando in tema di connessione, che da oggi (lo dico a voce bassissima, più di me) la linea Adsl pare funzionare e pure discretamente.
Risolta la questione della tv che andava in una stanza sì e tre no (non chiedetemi perché: non sono riuscita a capirlo), superato l'allagamento della cucina per via del tubo di scarico della lavatrice mal fissato (o non fissato tout court, temo), recuperato l'uso dei fornelli e dell'acqua corrente in cucina, sgombrata da cartoni e oggetti sparsi la mia scrivania da scuola primaria, direi che siamo entrati già nella fase 2 dell'ambientamento.
Originariamente volevo offrirvi la seconda puntata di "mondo operaio", ma ahimè, non ce la faccio proprio.
Vi butto lì giusto un dialogo dell'assurdo tra la sottoscritta e l'elettricista, avvenuto stamattina (si era scordato di attaccare il forno e l'accensione elettrica. Non chiedetemi come mai, perché, di nuovo, non l'ho capito).
"Ma... vi piaceva proprio questa zona?".
"Sì, certo".
"No, perché ci stanno tande case noe, qui li fili sò tutti sthretti".
E il bello è che io gli ho pure risposto seriamente.
Solo dopo ci ho ripensato.
La realtà supera sempre la fantasia.
Dopo un po' mi ha chiesto se conoscevo qualcuno che voleva un appartamento (evidentemente suo) a Porto Potenza, vicino al centro riabilitativo.
Ah ecco. Se aspettavo un altro po' potevo comprare quello. Come no.
Quando mi sarò ripresa del tutto (quando?), aggiungerò altri dettagli.
Sperando che nel frattempo non mi facciano altri "sbuci" di troppo.
Chissà se mia mamma se la ride, dovunque sia adesso.
Forse doveva andare esattamente così: dovevo trovare casa dove volevo (caro il mio elettricista, a Porto Potenza ci vada qualcun altro) esattamente in questo periodo.
Se non fosse successo così, questi giorni sarebbero stati davvero duri da affrontare.
Invece, certo, sono stanca morta, ma molto proiettata nel presente.
Ringrazio ancora una volta i miei, per tutto l'amore che mi hanno dato.
A domani, cara mamma.
martedì 19 maggio 2015
La vita che cambia e le questioni dirimenti
Tra le questioni dirimenti (poi torno sull'aggettivo che ho appena utilizzato) del mio appartamento sangiorgese c'è la posizione degli attacchi dell'acqua (a sinistra, nella foto) e del gas (a destra, ibidem).
I giovani traslocatori cui abbiamo affidato l'incarico di incollarsi tutta la nostra roba (non poca, ahimè) sostengono che sia un problema risolvibile.
Voglio davvero augurarmelo, perché diversamente saremmo costretti a smembrare la linea della nostra economica ma funzionale cucina e detto sinceramente, in questo momento, non è proprio opportuno.
Tolti i logici problemi di ricollocazione di mobilia e oggettistica varia (la cyclette, per dire, dove la piazziamo?), non riesco ancora a credere del prossimo cambiamento che mi aspetta.
Stamattina raccontavo su Facebook (un luogo perfetto per lo sputtanamento-mascheramento di massa) della punta d'orgoglio provata ieri davanti all'impiegato dell'Enel, che nell'attivare il contratto, mi ha chiesto se fossi affittuaria o proprietaria.
Ebbene sì: ho scandito la parola pro-prie-ta-ria, prestando attenzione al suono della medesima.
Data la positività della sensazione provata, ho capito (se ce ne fosse stato ancora bisogno) che io alla proprietà privata ci tengo. Quindi che con il comunismo, Lenin, Trotskjj etc etc, io non ho niente a che spartire.
Il che, naturalmente, non significa che non presti attenzione ai bisogni/diritti altrui, ma è un semplice dato di fatto, per nulla dirimente: ho bisogno di mettere radici e di sentire che almeno un piccolo posto mi appartiene. E anche il contrario: che io appartengo al primo.
Solo con il tempo capirò se scatterà la seconda parte della faccenda, ma già solo per la prima valeva la pena spendere una certa quantità di denaro.
Come vivrò e di cosa vivrò nei prossimi anni, probabilmente avrò voglia di raccontarlo sempre su questo spazio. E perché ciò non diventi l'ennesima questione dirimente, mi basterà soltanto continuare a comportarmi come in quest'ultimo anno: sgombrando la testa da pensieri e attività inutili e concentrandomi più o meno solo su ciò che mi preme davvero.
Se non avessi fatto così, ora ne sono certa, non sarei mai riuscita a comprare casa.
E' stata dura e lo è ancora, ma accidenti come ci si sente meglio quando si vedono i risultati.
Veniamo all'aggettivo dirimente.
La prima volta che l'ho sentito usare è stato da una mia (amatissima) cugina. Non specifico volutamente chi sia. Mi limito al contesto.
Si stava parlando della tomba dei miei nonni materni che adesso ospita anche mia mamma. Era una crudele giornata d'estate, si trattava di firmare alcune autorizzazioni.
Morire costa un casino, sappiatelo.
Poi l'ho risentito su un tg e ho capito che è di moda (la cugina di cui sopra sta sul pezzo molto più di me, sempre ammesso che si usi ancora quest'orribile espressione gergale).
Da quel momento non me lo sono più scordato e ogni tanto mi torna in mente: quante sono le questioni dirimenti che ci capitano tutti i giorni?
Togliere o tenere le canaline, eliminare o meno i rosoni, dove piazzare i divani graffiati dai mici e il mitico divano letto di Francavilla sono altrettante, dannatissime, questioni dirimenti.
La sera crollo come un operaio dopo otto ore di cantiere. Però, a tratti, come adesso, sento il bisogno di scribacchiare e anche di leggere: inscatolando i libri, ho deciso di lasciare fuori Bel Ami di Maupassant. Mi butto su un classico, o almeno ci proverò, mi sono detta.
Sto cercando anche di non abbandonare l'inglese e la lettura di David Randall per un post semi-professionale che vorrei scrivere prima di non avere più la connessione.
E insomma: è la mia stessa natura a essere dirimente.
Da una parte vorrei (con tutta me stessa, ve l'assicuro) campare del lavoro per cui mi sono preparata (o di qualcosa di simile), dall'altra desidererei cambiare completamente vita, imparando a usare le mani (e il fisico, per i pochi anni che mi restano prima della decadenza) per fare qualcosa di pratico.
Sono convinta proprio che gli esseri umani siano fatti per alternare l'uso di cervello e corpo, mescolando, se possibile, le funzioni dell'uno e dell'altro.
Sono altrettanto convinta che non sia facile usare entrambi nel nostro mondo del lavoro, ma chi è dotato di una buona dose di materia grigia (di cultura, anche) e di salute, in qualche maniera dovrebbe sfangarla. O per lo meno me lo auguro.
Per anni sono stata condizionata dall'ansia: sono abbastanza convinta che se non ne fossi stata così preda ai tempi del mio anno solitario a Milano, la mia vita di oggi sarebbe molto diversa.
E' altrettanto certo che guardarsi indietro non serve a nulla. E anzi, a proposito di corpo, il mio stomaco che gorgoglia mi ricorda che è il caso che lo riempia un pochino.
Con tutte le frustrazioni e i nei del presente, per farla breve, sono contenta di stare dove sto.
Però se vi serve un correttore di bozze, uno (una) scorticatore (trice) di ruggine, una stiratrice abbastanza capace e una specie di coacher motivazionale de noantri, io ci sto.
Come si dice negli annunci, però: AAA astenersi perditempo.
;-)
Alla prossima cronachetta (mutuando il titolo dai libri di Giacomo Nanni).
giovedì 23 ottobre 2014
Affidarsi alla vita, oltre il dolore: parola di Simona Atzori
A un certo punto bisogna lasciarsi andare alla vita, che racchiude anche la morte, inevitabilmente.
Sono certa che mia mamma sarebbe stata d'accordo.
Spero un giorno di riuscire ad andare oltre la rabbia che ancora, a tratti, mi fa vibrare.
Conoscere, seppur solo virtualmente, Simona Atzori è stato in ogni caso un bel dono.
Prima di parlarci era un po' sospettosa: come si fa a condividere una perdita così, mi domandavo.
E invece, parlandoci e vedendola negli incontri pubblici caricati in Rete (oltre che guardandola ballare), mi sono resa conto che la sua è un'energia autentica.
Ognuno ha la sua, come Simona sa perfettamente, ed è proprio il rispetto in se stessi che la ballerina-coreografa orfana della mamma che ha contribuito a renderla ancora più in gamba di quanto, forse, non sarebbe stata comunque, riesce a suscitare in chi la ascolta.
Non sapevo che cosa fosse il coaching motivazionale: quello che pratica lei, ad ogni modo, mi piace.
Il mio grazie è insomma sincero, più di quanto possa sembrare dall'intervista, per forza di cose dal tono un po' più istituzionale di quello che adopero qui.
Finché abbiamo sangue pulsante non rinunciamo a vivere. Chi se n'è già andato non ce lo perdonerebbe mai.
Supererò la rabbia.
O comunque la incanalerò in qualcosa di positivo.
Buoni giorni, amici.
lunedì 20 ottobre 2014
L'energia vitale di mia mamma e l'intelligenza di Cristina Donà
Mio padre non mi ha riconosciuta. L'ha guardata, piccina e scuretta tra le mie dita, e ha detto: "e chi è?". Ma come chi è?
A mia madre non sarebbe mai successo.
Ho ritrovato questa fotografia in un porta-gioie sepolto in fondo all'armadio, sotto i suoi vestiti che dovevo selezionare.
Confesso di aver provato più ansia che dolore: man mano che soppesavo fogge e modelli degli abiti più vecchi di mia mamma, mi sentivo quasi come un addetto qualunque del Mercatino, alla ricerca di eventuali falle nelle stoffe.
E poi c'è stato anche un momento divertente: accanto al porta-gioie bianco avorio, lavorato come un ciocco di legno intagliato, c'era una busta rossa rettangolare, di quelle che un tempo contenevano gli Lp. La prendo, convinta di trovarvi per l'appunto qualche vecchio 33 giri dei miei. E invece no.
Apro la scatola quadrata bassa, dalla copertina rigida, e chi ti rivedo? Juan Del Diablo, alias Palomo-qualcosa, l'attore della celebre soap opera Cuore Selvaggio, da mia madre amatissima. Raffigurato in pose vagamente sexy, una per ogni mese dell'anno 1995, il capelluto attore prematuramente scomparso mi ha strappato un sorriso.
La scatola conteneva anche un cd di sue canzoni, che il giorno dopo ho fatto partire dal computer di mio padre. Sentendo la musica, quest'ultimo è venuto a vedere: "che stai a fà"', mi ha chiesto.
Gliel'ho spiegato.
Ho buttato il calendario, ma non il cd.
Nel 1995 mia mamma aveva 53 anni: da come me la ricordo io, pensando almeno a una foto di tre anni prima che ho ritrovato per caso non rammento più dove negli ultimi mesi della sua vita, aveva pochissime rughe sul suo viso magro e allegro.
Forse proprio per questo motivo, chissà, ai tempi di Cuore Selvaggio sognava ancora l'amore romantico, forse pure la passione, nutrito anche da una grande attrazione per i paesaggi esotici e colorati.
Ricordo che quasi per giustificarsi della sua simpatia per Juan e per la storia con la sua amante fedifraga, mi diceva con foga che le piacevano moltissimo le ambientazioni: il Messico doveva apparirle una specie di Eden dei desideri perduti.
Forse proprio in quel periodo, ma non ne sono certa, le regalammo anche un dizionario di spagnolo o forse un manuale.
Molti anni dopo, dopo l'avvento del satellite, aveva preso l'abitudine di guardare le soap direttamente in spagnolo. Orgogliosa, mi diceva di aver imparato anche qualche "parolina".
Proprio gli ultimi mesi le ho dato in prestito il mio manuale di John Peter Sloan e insieme abbiamo fatto anche qualche esercizio.
Era malinconica, mia mamma, e anche un po' bambina.
E profondamente innamorata di noi figlie.
Rivedermi in quella foto-tessera così gelosamente conservata in fondo all'armadio, in mezzo a strani e disparati oggetti (la chiave di una camera, non so quale, un anello spezzato, dei bottoni spaiati), affianco al calendario di Palomo, mi ha intenerito profondamente.
Non ho pianto: le uniche lacrime che stavo cominciando a versare sono state ricacciate indietro dalla telefonata di mia zia. In quel momento stavo guardando un altro porta-gioie, quello sul comò nel quale io stessa ho depositato la sua fede e il suo orologio, accanto a un'altra foto-tessera, sempre vecchia, stavolta di mio padre, e bigiotteria varia.
Scavando, ho tirato fuori una strisciolina di carta di giornale su cui c'era scritto "Santurbano senza rivali". Ho sorriso pure lì. Non ho invece potuto trattenere la tristezza davanti all'aggiunta a pennarello di mia mamma sulla sua "intelligenza sopraffina". Scherzava spesso in questo modo con mio padre.
La telefonata è sopraggiunta proprio in quel momento, per cui niente pianto, giusto qualche lacrima sugli occhiali.
Stamattina ho riascoltato la mia telefonata con Simona Atzori, la ballerina dalle braccia rimaste in cielo, come aveva scritto Candido Cannavò, la quale ha dedicato il suo secondo libro, intitolato Dopo di te, alla mamma scomparsa quasi due anni fa.
Tra le cose intelligenti che mi ha detto c'è proprio la questione della durata del lutto, delle ondate che lo compongono, ciascuna con modalità e tempi differenti per ognuno di noi.
Oggi pomeriggio dovrò scriverla, ma prima di fissare sulla carta il suo percorso, verso cui provo grandissimo rispetto, ho sentito forte l'urgenza di ripassare di qua e fissare quel momento, uno dei tanti che stanno segnando il mio "dopo di te".
Ieri sera ho assistito al bellissimo concerto di Cristina Donà e Saverio Lanza nel teatro comunale di San Ginesio, e la mia mente è corsa a lei, che ha fatto in tempo a vedere la sintesi dello spettacolo di Massimo dedicato a Enzo Tortora, tenutosi la scorsa primavera nel medesimo luogo. Il suo entusiasmo commosso mi aveva, adesso posso ammetterlo, un po' sorpreso, conoscendo la sua scarsa propensione a lasciarsi andare alle emozioni più forti.
Eppure, nel suo intimo, amava eccome il coinvolgimento forte: altrimenti non avrebbe conservato per così tanti anni Juan Del Diablo. E anche me, in quella fotina bellissima, come possono essere solo i bambini.
Era dolce, mia mamma, oltre che molto aspra, quando voleva esserlo.
Era viva, era generosa, e attraversata da forti, fortissimi sentimenti.
Possedeva un'energia vitale che penso di aver ricevuto in eredità.
L'energia di cui parla Cristina nelle sue canzoni, quella che ci mette nell'interpretarle, donandosi (letteralmente) al pubblico con grande intelligenza.
Solo chi ha molto sale in zucca e forti ideali, voglio dire, è in grado di svelarsi nascondendosi.
Ed è forse questo il segreto del fascino vero, di quello che vince il tempo, molto più di una buona crema anti-rughe.
Ringrazio molto la vita per avermi dato una madre così e un gusto, posso dirlo, non facile da accontentare.
Ringrazio Cristina e il suo partner musicale per avermi mostrato concretamente che cosa significhi fare bene, molto bene, quello per cui si è nati.
Anche mia mamma è stata un'ottima maestra. Ed è una gran cosa essere sua figlia.
Ciao, mamma.
mercoledì 15 ottobre 2014
Paolo Conte e la magia che si rinnova. Crescendo ancora
Gli anticorpi non collaborano, ma cerco di non pensarci concentrandomi piuttosto su ciò che di bello mi è successo non meno di ventiquattr'ore fa.
Sotto il piatto rovesciato della cena ho trovato Snob, l'ultimo album del Maestro Paolo Conte.
A regalarmelo, naturalmente, il suo omonimo fumatore di pipa, che ha così facendo anticipato l'acquisto che già aveva in mente di fare per me. E' riuscito a sorprendermi: anzi, sono riusciti a sorprendermi entrambi.
Perché se è vero che nel nuovo disco dell'avvocato astigiano si trova, inevitabilmente, l'eco di sue canzoni e pezzi del passato (le parentesi mi contraddistinguono: non potrei smettere di usarle neanche volendo, come Conte con il kazoo e le sue note sgangherate alla Duke Ellington), in Snob ho trovato anche una freschezza tutta nuova, che per esempio non c'era in Nelson, uscito a troppa pochissima distanza dalla scomparsa di Renzo Fantini, grande amico e mentore del Nostro.
Molto originale è per dire l'impostazione del brano che dà il titolo all'intero album, che vola via in soli 49 minuti e una manciata di secondi: la melodia è malinconica, francese come solo un italiano savoiardo (all'incirca!) può essere, ma le parole sono sottilmente, sfacciatamente, ironiche.
Quanto si deve essere divertito a giocare con i suoi stilemi più conosciuti: l'amore che muore, il tinello marron e l'italiano che non parla il tedesco, tornano potenti in questa canzone così apparentemente semplice, poche note cucite con una classe e una sapienza da capo indiano che mi hanno davvero scaldato il cuore.
Seduta sul divano rattoppato che tanti momenti ha visto del mio più antico e recente passato, mi sono lasciata andare all'ascolto in cuffia dei quindici pezzi che compongono il nuovo lavoro contiano, alternando brividi, sorrisi interni, sorrisi aperti, battere di piedi e qualche lieto aggrottare di sopracciglia, come solo con lui mi succede.
Avevo quasi scordato che effetto mi fa ascoltarlo.
Sono successe troppe cose negli ultimi mesi, troppo dolore, troppa rabbia, troppa poca buona vita.
Ieri sera, dopo tanto tempo, mi sono re-innamorata di lui e della sua musica, come nel brano (tra quelli che mi ha richiesto un ascolto più attento) che ha chiamato Gente, che ha per sottotitolo un acronimo che per l'appunto significa "che si innamora di noi".
Mi sono immaginata, leggendone le parole, che sia stato scritto per parlare dei fan, di noi fan, stregati e avvinti come bambini davanti ai cartoon.
Non mi ha richiesto nessuno sforzo, invece, innamorarmi di Fandango, nella sua commovente perfezione. Sono anzi sicura che sarà successo lo stesso a chi segue il Maestro praticamente da sempre.
Mio cognato Massimo Del Papa ha giustamente ricordato che sono ormai quarant'anni che l'avvocato con i baffi da gatto si è trasformato in un cantautore: mi sto sempre più convincendo che la mia nascita giusto agli esordi del decennio più difficile della storia italiana recente (tolto il momento presente, che però non riesco, ovviamente, a comprendere appieno) abbia segnato per sempre anche i miei futuri gusti non solo musicali.
Dovevo incontrare, un giorno, il Maestro astigiano: era scritto nel mio Dna, nelle nebbie abruzzesi così diverse da quelle della pianura padana, ma così simili per il romanticismo sottotraccia che mi si è appiccicato addosso.
Come Conte, sono una provinciale anch'io, abituata a cibi "sostanziosi", come scrive sempre in Snob, a canti "che van bene per soldati e muli", alla presa in giro di chi, di più nobile lignaggio vero o presunto, se la tira, l'unica arma di difesa possibile contro chi sarà sempre più educato e colto di noi.
E chissà se quella nostalgia per anni che non abbiamo mai vissuto non sia stata provocata dall'essere cresciuti in luoghi appartati, eternamente vintage nonostante la globalizzazione, in mezzo a quegli odori di campagna che ogni tanto si fanno largo pure nella piazza principale della città, protetti da quei maglioni blu dei papà ragionieri e le gonne a metà ginocchio delle mamme maestre, coccolati dagli zuccheri saturi dei diplomatici della domenica e delle patatine consumate lungo la strada del ritorno dalla messa con l'amichetta del cuore.
A differenza sua, però, a casa mia non circolava musica jazz, ma molta (non sempre buona) musica italiana. L'omonimo con la pipa mi ha preso in giro per anni per una musicassetta (un nastro, come diceva sempre mio zio Gigi) di Fausto Papetti. Ovviamente, non era mia, ma ne rammento vagamente la copertina, così simile a una delle peggiori, anche per lo stesso Conte, della sua produzione anni Settanta.
Volente o non nolente, insomma, anche sul Maestro sono rimasti attaccati quegli anni là, quelli del suo esordio: ai colori acidi delle Polaroid delle ricorrenze di famiglia, mi riportano diversi brani del nuovo disco, in particolare Glamour, con quel tedesco veramente improbabile e perciò simpatico, poi, almeno in parte, Incontro e soprattutto L'uomo specchio, con quella costruzione del testo presa pari pari dalla Settimana enigmistica.
Non sono in grado di cogliere la maggior parte dei giochi linguistici del Nostro, vista la mia totale imperizia con sciarade e rebus (mentre sono praticamente un asso con i crittografici), ma ho la certezza assoluta che i suoi momenti di relax siano spesso impiegati nella costruzione di calembour e boutade di varia natura.
Me lo figuro mentre ride da solo per qualche invenzione un po' demenziale, mentre si arrotola i baffi ghignando contento.
Immagino che abbia una fantasia immensa e meravigliosa, direi, finalmente, cinematografica.
Ve lo confesso: finora non avevo mai completamente capito perché più di qualcuno abbia attribuito questo aggettivo alla musica di Conte.
Posso dirlo di averlo compreso pienamente solo adesso, con Snob, ascoltando in particolare, tra i pezzi di sapore sudamericano, Argentina e Manuale di conversazione, più che Tropical, la canzone che ha anticipato l'uscita dell'album, e Maracas.
Perché mi sembrano cinematografici? Semplice: perché ho proprio visto, chiaramente, davanti a me, l'autista peruviano di camion che carica l'autostoppista italiana e che alla fine è contento che scenda, non essendo in grado di imbastire neanche la più banale delle conversazioni, e gli italiani emigrati che frustano le scarpe dei ricchi fazenderos, sotto un cielo bianco che fa star male per la nostalgia.
Ha giocato più volte, Paolo Conte, con i ritmi e le suggestioni dell'altro capo dell'Oceano Atlantico, ma soprattutto nella produzione più matura, penso in maniera particolare all'album Elegia, la freschezza di brani come Messico e Nuvole e Sudamerica avevano lasciato il posto alla fatica del vecchio proprietario del Mokambo, che non si rassegna al tempo che non torna più.
Cinematografici anche quei brani, sì, ma in modo triste, quasi tragico, direi.
In Snob, invece, la leggerezza è tornata a spruzzare di amore per la musica tutti e quindici i pezzi, alcuni dei quali, c'è da scommetterci, appartengono a epoche passate, come il ritratto di copertina del Nostro, che pare arrivare direttamente dagli eterni Seventies.
Se non li aveva ancora tirati dal cassetto, evidentemente, non erano ancora maturi: potrà sembrare strano, ma sono assolutamente certa di ciò che sto per scrivere.
A settantasette anni suonati, Paolo Conte è cresciuto ancora, passato com'è da un lutto così serio come la morte del suo sodale Renzo e dalle morti, presumo altrettanto dolorose, di un sacco di persone fondamentali nella sua spero ancora lunghissima esistenza.
Sto parlando anche di me, è evidente, ma la grandezza di Paolo Conte è talmente universale da lasciare davvero disorientati tutti quelli che vorrebbero mettersi lì a cercare di capirlo, fingendo una gravità che il Nostro assolutamente non possiede.
Più invecchia, anzi, più prende in giro. Sé, innanzitutto, e gli altri.
Perché l'unica cosa da prendere sul serio è la musica.
Quella per cui è nato.
Basta solo assistere a un suo concerto, senza paraocchi e abiti sbagliati, per comprenderlo pienamente.
Non vedo l'ora di rivivere quella magia.
Grazie ai Paoli della mia vita.
E buon ascolto a tutti noi.
Sotto il piatto rovesciato della cena ho trovato Snob, l'ultimo album del Maestro Paolo Conte.
A regalarmelo, naturalmente, il suo omonimo fumatore di pipa, che ha così facendo anticipato l'acquisto che già aveva in mente di fare per me. E' riuscito a sorprendermi: anzi, sono riusciti a sorprendermi entrambi.
Perché se è vero che nel nuovo disco dell'avvocato astigiano si trova, inevitabilmente, l'eco di sue canzoni e pezzi del passato (le parentesi mi contraddistinguono: non potrei smettere di usarle neanche volendo, come Conte con il kazoo e le sue note sgangherate alla Duke Ellington), in Snob ho trovato anche una freschezza tutta nuova, che per esempio non c'era in Nelson, uscito a troppa pochissima distanza dalla scomparsa di Renzo Fantini, grande amico e mentore del Nostro.
Molto originale è per dire l'impostazione del brano che dà il titolo all'intero album, che vola via in soli 49 minuti e una manciata di secondi: la melodia è malinconica, francese come solo un italiano savoiardo (all'incirca!) può essere, ma le parole sono sottilmente, sfacciatamente, ironiche.
Quanto si deve essere divertito a giocare con i suoi stilemi più conosciuti: l'amore che muore, il tinello marron e l'italiano che non parla il tedesco, tornano potenti in questa canzone così apparentemente semplice, poche note cucite con una classe e una sapienza da capo indiano che mi hanno davvero scaldato il cuore.
Seduta sul divano rattoppato che tanti momenti ha visto del mio più antico e recente passato, mi sono lasciata andare all'ascolto in cuffia dei quindici pezzi che compongono il nuovo lavoro contiano, alternando brividi, sorrisi interni, sorrisi aperti, battere di piedi e qualche lieto aggrottare di sopracciglia, come solo con lui mi succede.
Avevo quasi scordato che effetto mi fa ascoltarlo.
Sono successe troppe cose negli ultimi mesi, troppo dolore, troppa rabbia, troppa poca buona vita.
Ieri sera, dopo tanto tempo, mi sono re-innamorata di lui e della sua musica, come nel brano (tra quelli che mi ha richiesto un ascolto più attento) che ha chiamato Gente, che ha per sottotitolo un acronimo che per l'appunto significa "che si innamora di noi".
Mi sono immaginata, leggendone le parole, che sia stato scritto per parlare dei fan, di noi fan, stregati e avvinti come bambini davanti ai cartoon.
Non mi ha richiesto nessuno sforzo, invece, innamorarmi di Fandango, nella sua commovente perfezione. Sono anzi sicura che sarà successo lo stesso a chi segue il Maestro praticamente da sempre.
Mio cognato Massimo Del Papa ha giustamente ricordato che sono ormai quarant'anni che l'avvocato con i baffi da gatto si è trasformato in un cantautore: mi sto sempre più convincendo che la mia nascita giusto agli esordi del decennio più difficile della storia italiana recente (tolto il momento presente, che però non riesco, ovviamente, a comprendere appieno) abbia segnato per sempre anche i miei futuri gusti non solo musicali.
Dovevo incontrare, un giorno, il Maestro astigiano: era scritto nel mio Dna, nelle nebbie abruzzesi così diverse da quelle della pianura padana, ma così simili per il romanticismo sottotraccia che mi si è appiccicato addosso.
Come Conte, sono una provinciale anch'io, abituata a cibi "sostanziosi", come scrive sempre in Snob, a canti "che van bene per soldati e muli", alla presa in giro di chi, di più nobile lignaggio vero o presunto, se la tira, l'unica arma di difesa possibile contro chi sarà sempre più educato e colto di noi.
E chissà se quella nostalgia per anni che non abbiamo mai vissuto non sia stata provocata dall'essere cresciuti in luoghi appartati, eternamente vintage nonostante la globalizzazione, in mezzo a quegli odori di campagna che ogni tanto si fanno largo pure nella piazza principale della città, protetti da quei maglioni blu dei papà ragionieri e le gonne a metà ginocchio delle mamme maestre, coccolati dagli zuccheri saturi dei diplomatici della domenica e delle patatine consumate lungo la strada del ritorno dalla messa con l'amichetta del cuore.
A differenza sua, però, a casa mia non circolava musica jazz, ma molta (non sempre buona) musica italiana. L'omonimo con la pipa mi ha preso in giro per anni per una musicassetta (un nastro, come diceva sempre mio zio Gigi) di Fausto Papetti. Ovviamente, non era mia, ma ne rammento vagamente la copertina, così simile a una delle peggiori, anche per lo stesso Conte, della sua produzione anni Settanta.
Volente o non nolente, insomma, anche sul Maestro sono rimasti attaccati quegli anni là, quelli del suo esordio: ai colori acidi delle Polaroid delle ricorrenze di famiglia, mi riportano diversi brani del nuovo disco, in particolare Glamour, con quel tedesco veramente improbabile e perciò simpatico, poi, almeno in parte, Incontro e soprattutto L'uomo specchio, con quella costruzione del testo presa pari pari dalla Settimana enigmistica.
Non sono in grado di cogliere la maggior parte dei giochi linguistici del Nostro, vista la mia totale imperizia con sciarade e rebus (mentre sono praticamente un asso con i crittografici), ma ho la certezza assoluta che i suoi momenti di relax siano spesso impiegati nella costruzione di calembour e boutade di varia natura.
Me lo figuro mentre ride da solo per qualche invenzione un po' demenziale, mentre si arrotola i baffi ghignando contento.
Immagino che abbia una fantasia immensa e meravigliosa, direi, finalmente, cinematografica.
Ve lo confesso: finora non avevo mai completamente capito perché più di qualcuno abbia attribuito questo aggettivo alla musica di Conte.
Posso dirlo di averlo compreso pienamente solo adesso, con Snob, ascoltando in particolare, tra i pezzi di sapore sudamericano, Argentina e Manuale di conversazione, più che Tropical, la canzone che ha anticipato l'uscita dell'album, e Maracas.
Perché mi sembrano cinematografici? Semplice: perché ho proprio visto, chiaramente, davanti a me, l'autista peruviano di camion che carica l'autostoppista italiana e che alla fine è contento che scenda, non essendo in grado di imbastire neanche la più banale delle conversazioni, e gli italiani emigrati che frustano le scarpe dei ricchi fazenderos, sotto un cielo bianco che fa star male per la nostalgia.
Ha giocato più volte, Paolo Conte, con i ritmi e le suggestioni dell'altro capo dell'Oceano Atlantico, ma soprattutto nella produzione più matura, penso in maniera particolare all'album Elegia, la freschezza di brani come Messico e Nuvole e Sudamerica avevano lasciato il posto alla fatica del vecchio proprietario del Mokambo, che non si rassegna al tempo che non torna più.
Cinematografici anche quei brani, sì, ma in modo triste, quasi tragico, direi.
In Snob, invece, la leggerezza è tornata a spruzzare di amore per la musica tutti e quindici i pezzi, alcuni dei quali, c'è da scommetterci, appartengono a epoche passate, come il ritratto di copertina del Nostro, che pare arrivare direttamente dagli eterni Seventies.
Se non li aveva ancora tirati dal cassetto, evidentemente, non erano ancora maturi: potrà sembrare strano, ma sono assolutamente certa di ciò che sto per scrivere.
A settantasette anni suonati, Paolo Conte è cresciuto ancora, passato com'è da un lutto così serio come la morte del suo sodale Renzo e dalle morti, presumo altrettanto dolorose, di un sacco di persone fondamentali nella sua spero ancora lunghissima esistenza.
Sto parlando anche di me, è evidente, ma la grandezza di Paolo Conte è talmente universale da lasciare davvero disorientati tutti quelli che vorrebbero mettersi lì a cercare di capirlo, fingendo una gravità che il Nostro assolutamente non possiede.
Più invecchia, anzi, più prende in giro. Sé, innanzitutto, e gli altri.
Perché l'unica cosa da prendere sul serio è la musica.
Quella per cui è nato.
Basta solo assistere a un suo concerto, senza paraocchi e abiti sbagliati, per comprenderlo pienamente.
Non vedo l'ora di rivivere quella magia.
Grazie ai Paoli della mia vita.
E buon ascolto a tutti noi.
venerdì 13 giugno 2014
Il passato in fumo, come le nuvole
Mi percorrono sentimenti contrastanti, per cui, a chi mi ha chiesto "come va?", non so davvero che cosa rispondere. Mi sembra solo incredibile che non sia passata neanche una settimana dal momento in cui, mia sorella ed io, abbiamo visto la trasformazione di nostra madre in qualcosa che non so definire.
E' come se fossero trascorsi secoli e, da un altro lato, è come se quel commiato non fosse mai avvenuto.
Stamattina con nostro padre è andato mio cognato (il tedesco-abruzzese, gentile d'animo e preciso, sulle cose tecniche, per lo meno). Un pochino me ne sento sollevata, perché, obiettivamente, la ditta di pompe funebri vicino a Iurino (per quelli che sono di Chieti, per gli altri sto parlando dello stradone anonimo e trafficato che porta verso Francavilla, il paese di mare noto pure all'estero come esempio di cattiva, anzi pessima, urbanizzazione) non è proprio un bel posto.
E d'altronde la morte produce pure incombenze di questo genere. A tratti, mentre eravamo all'obitorio, mi veniva persino da sorridere osservando gli orrendi paramenti sacri dietro la bara di mia madre e ascoltando il racconto raccolto da mia sorella dalla viva voce del cassamortaro anziano circa le nuove mode per le casse, oggi sempre più chiare e con rivestimenti pendant, niente più legno scuro per la bara né cremisi per le fodere interne, oggi ritenuti troppo troppo funerei, insomma.
Pensavo anche a tutte le volte che abbiamo visto, anche con mia madre, i molti film di Totò in cui la morte viene spesso evocata in tono scherzoso. In particolare, mi veniva in mente la scena del film di Monicelli e Steno nella quale lo sfollato Antonio incontra l'ex custode del cimitero nell'abitazione che lui si è procurato di frodo. Il principe De Curtis aveva una grande paura della nostra ahimè comune fine ed è effettivamente vero che anche nei suoi film più riusciti c'è sempre una vena di malinconia che a tratti, a mio personale giudizio, può dare persino angoscia.
Da ragazzina mi capitava ogni tanto di provare degli strani pugni allo stomaco. Devo averne già parlato un po' di post fa, dicendo di averli risentiti.
In questi giorni così difficili, invece, quella morsa non c'è ed è un altro evidente segno di cambiamento, non so quanto definitivo.
Ho acquisito, almeno per il momento, una certa lucidità di pensiero.
Non voglio troppe rotture di balle, in termini più terra terra.
Ho ricevuto alcune mail molto belle e ne sono rimasta contenta. Un amico caro che ha subìto un forte stop, per fortuna in superamento, mi ha fatto leggere delle righe bellissime del filosofo Emanuele Severino.
Qualcuno, invece, non è stato capace neanche di dirmi un generico "mi dispiace".
Un paio di persone care non sono venute al funerale, ferendomi un bel po'.
So che non è facile confrontarsi con la morte, di sicuro anch'io, fino a qualche tempo fa, non avrei saputo come comportarmi. Penso tuttavia che basterebbe essere se stessi, anche riconoscendo la propria difficoltà in modo aperto.
Non sono nessuno per giudicare: anzi, i giudicanti in genere mi stanno pesantemente sulle scatole.
Al contempo, però, non sono dotata di spirito cristiano e il perdono a priori non riesco proprio a darlo.
La mia cara amica di liceo Valentina mi ha detto "non ti arrabbiare" e io le ho risposto, quasi con disperazione, "non sono arrabbiata, solo dispiaciuta".
Troppi dispiaceri insieme fanno male, per cui preferisco tacere avvolgendomi in questo silenzio così peculiare, senza tuffi allo stomaco e lacrime che vengono solo a tratti.
Sta tuonando, la mia pelle è bollente per via del sole che ho preso in acqua ieri, giocando con i miei nipoti. Ogni tanto anche loro vengono percorsi dalla malinconia, oggi, mi è parso, più dei giorni scorsi.
Sono proprio loro quelli da proteggere, di certo non io che mi avvio alla piena maturità della vita. Nè i miei amici troppe volte assenti durante questi due lunghi anni di malattia, vissuti, per fortuna, nella vicinanza della nostra bella e affettuosa famiglia allargata.
Non sono affatto contenta che ci abbiano visto discutere, noi adulti (io e mio padre ieri sera per la melanzana alla parmigiana che secondo me era andata a male, figuriamoci un po') né di non riuscire a essere la zia giocherellona che hanno conosciuto. So che capiscono, ma restano pur sempre bambini.
Non sarà facile neanche tornarmene a casa mia, che casa mia non è, ma è abitata dal mio uomo e i nostri mici adorati. Quei due, così asociali, non hanno conosciuto mia mamma, mentre lei ha spesso contribuito al loro sostentamento. Per analogia con i nipoti, sono pur sempre gatti, bisogna viziarli e coccolarli sperando che ci ricambino in qualche modo.
Il mio passato è, in definitiva, sfumato, come quelle nuvole sfilacciate che ho fotografato ieri mattina, uscendo dalla banca di mio padre. Un posto che da bambina e da ragazza frequentavo moltissimo. Che strano tornarci dopo così tanto tempo.
Non voglio dire che se ne sia andato via, solo che è nebuloso, lontano e vicino come quel cielo dal quale, forse, mia mamma ci sta osservando tutti.
Starai ridendo?
Lo spero, con tutto il cuore.
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