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domenica 9 maggio 2021

Risvegliarsi e tornare, rinascendo ancora. Tanti auguri, mamma

 


Alla fine ne ho avvistato uno. Era nero, grigio e rosso, con un bel corpaccione. 
Nonostante i lunghi giorni di maltempo e l'impalcatura invadente, quando l'ho notato stava saltando sul ramo di uno degli alberi su cui, immagino per anni, lui e i suoi simili hanno continuato a costruire le loro tane.
Ho scoperto come sia fatto un picchio qui a Vienna. Prima, non ne avevo mai visto uno così da vicino. 
Ricordo di averne parlato su Facebook, una volta. Anzi: devo averlo fatto 
direttamente poche ore dopo la scoperta, conoscendomi. In fondo, mi piace condividere le belle notizie, come si dice in gergo social #cosebelle. Chissà se esiste davvero quest'hashtag o se me lo sono solo sognato.

Ho vissuto come in un sogno per quasi tre anni
Potrei dire in una specie di incubo, ma, sforzandomi di restare social (#thinkpositive), diciamo che qui a Vienna ho passato mesi più pesanti e altri più leggeri. 

Ricordo con piacere i primi giorni in hotel e le gite sul lago con i miei giovani colleghi. Nonostante le delusioni successive, professionali soprattutto, capisco solo adesso, al risveglio da questo lungo sonno agitato, che, di meglio, loro, per me, non potevano fare. 

Sarà per questo che ogni tanto ne sogno uno o me li vedo lì tutti insieme, garruli e felici. 
Solo su quelli più adulti tra loro faccio sogni meno lusinghieri, ad eccezione dello speaker di mezza età risposato con un'affascinante coetanea di origine moldava che non mi appare mai. Evidentemente, nonostante tutto il tempo passato dall'ultima volta che li ho visti, non riesco a farci del tutto pace.

Un giorno non lontano ci riuscirò, però. Adesso ne sono sicura.
Mi basterà chiudere per l'ultima volta la porta di casa, con i gatti (urlanti) al seguito e riprendere la via del mare.

Stavo per scrivere "vita" anziché "via". Un bel lapsus, degno dei concittadini di Sigmund. A proposito di Freud, mi sovviene in questo istante un ricordo cretino, di quelli che tiro fuori dal cilindro quando voglio sdrammatizzare. 

Le mie coinquiline dell'università avevano scritto un biglietto con una frase firmata "S. Freud". Non rammento assolutamente se fosse indirizzato a me o se me l'avessero solo mostrato. Fatto sta che io ne ho letto il contenuto a voce alta finché, arrivata alla firma, non avendo idea che cosa fosse quella S puntata, ho detto: "San Freud". Giù risate. 

Santo Freud mi sta proteggendo anche adesso, credo.
La madre è causa e origine di ogni cosa, anche se per le femmine dovrebbe valere di più il complesso di Elettra. E infatti, molto presto, dal padre, almeno in visita, tornerò.

Dalla madre, invece, mi sono dovuta separare ormai quasi sette anni fa, il 7 giugno di una giornata di quasi estate, dopo la strana invasione di vespe sul balcone di casa e altri presagi meno divini, successi più o meno un mese prima.

Al dolore per il distacco, all'epoca non so quanto davvero percepito come imminente, si mischiava anche una grande energia vitale, mia, di mia sorella, di mio marito e mio padre.
Tutti insieme l'avevamo accompagnata all'ospedale di Terni, per un intervento che ci avevano presentato, o forse eravamo noi che ci eravamo convinti che lo fosse, come risolutore.

La sera abbiamo mangiato in una pizzeria piuttosto anonima, di quelle che, probabilmente, avremmo scelto durante una vacanza di famiglia. Bisognava mantenersi calmi e, per riuscirci, probabilmente abbiamo parlato di inezie per tutto il tempo. L'animo meridionale sa essere anche molto compassato, quando vuole. O almeno: nella mia famiglia siamo melodrammatici solo in brevi, topici, momenti. Tutto il resto del tempo, dissimuliamo, sorridendo anche un po'.

Il sole al ritorno picchiava parecchio e la vecchia Micra nera di mio marito di certo non lo schermava. Con la mano attaccata alla maniglia in alto dello sportello, la mamma non ha detto neanche una parola. Era seduta davanti, io vedevo la sua schiena incassata nel giaccone scuro. Non so come facesse a resistere. 

Accanto a me doveva esserci papà, ma io non lo vedo, in questo momento. Anche lui, evidentemente, stava zitto. Parlava per noi il rumore del motore.
Di certo temevamo che quella vecchia macchina potesse lasciarci a piedi, forse evitavamo quasi di respirare perché ci portasse a destinazione.

Molti anni prima i miei avevano percorso quel valico appenninico, quel bellissimo valico tra l'Umbria e le Marche che avevo fatto molte volte pure io a bordo del pullman che mi portava a Firenze, per venire alla mia laurea. Nevicava. Papà l'aveva presa piuttosto male.

Come primo regalo, mia mamma mi aveva portato un bongo africano. Ce l'ho ancora adesso: l'ho usato nella mia casa di Porto San Giorgio come porta - lampada. Ora è in soffitta, in mezzo ai mobili da rimettere al loro posto, non appena torniamo.

Il sogno, a tratti più simile a un incubo, dicevo, sta infatti per chiudersi.
Con lui, anche le lacrime versate pregando per il meglio, stanno per esaurirsi. Finalmente.

Mi manca moltissimo mia madre, mi è mancata da pazzi la mia casa, i miei ricordi, la mia famiglia. Poco fa mi ha chiamato papà per farmi gli auguri per la festa della mamma.
Caro, tenerissimo papà, io non sono una mamma, ma ti ringrazio per gli auguri. Ho avuto una mamma speciale, che forse un po' mi ha reso comunque madre, creatrice di parole, almeno.

Dentro di me lei vive sicuramente e a mia volta io penso di essere rimasta in parte nel suo utero, per proteggermi da un mondo che, senza confessarmelo mai apertamente, mi è sembrato spesso troppo grande e ostile.

Eppure ho vissuto, come tutti. Con me porto la sua forza e il suo amore, quando mi ha spinta ad andare a laurearmi, per esempio, o quando, viceversa, mi ha rimproverato con asprezza per qualche mio comportamento che trovava sbagliato. 

Non sono perfetta, cara mamma, non lo eri anche tu, ed è meraviglioso sentirti ancora più vicina proprio per questo.

A te dedico queste parole, nel giorno della tua festa.

A me non resta che tornare. 
E ricominciare da dove ero rimasta. 
Ridendo anche un po'. 

sabato 20 marzo 2021

Stop scrauso, un round dopo l'altro, fino alla vittoria finale

 


Ci siamo portati dietro dalla casa di Fermo questa lavagnetta. Non ricordo più dove l'avevamo comprata. Forse nel negozio di casalinghi economici dove siamo tornati qualche giorno fa.

Pensavo, pensavamo tutti e due, che l'avessero chiuso. Sono anni che tappezzano la grande vetrina dell'ingresso con avvisi di svendite finali. Accorrete, gente, diamo tutto via a meno di niente.

E invece no. Era ancora là, con quegli articoli mezzo cinesi mezzo sovietici, tra i quali ogni tanto si nasconde qualche perla preziosa.

La lavagnetta era comprensiva di gessetti. Di questi, nell'appartamento marino, il nostro amato appartamento marino, non c'era più traccia.

Scomparso anche l'orologio a muro della cucina, comprato, questo sì, in un negozio di casalinghi più grazioso, pieno anch'esso, naturalmente, di articoli economici, ma almeno dal design più accattivante.

Molto probabilmente gessetti & orologio sono volati via verso qualche altra abitazione oppure, molto semplicemente, sono finiti nella spazzatura. 

Mi domando però che persone abbiano, davvero, vissuto a casa nostra. Chissà che cosa passava per la testa del bambino che ha scritto i nomi di tutti i membri della famiglia con uno dei gessetti svaniti nel nulla. Chissà da quando era lì, quella scritta, se addirittura da febbraio dell'anno scorso, quando sono entrati, felici, credo, almeno all'inizio, di aver trovato un nuovo alloggio.

Nel tempo, le cose devono essere peggiorate, e pure parecchio. L'unico a non aver troppo risentito della crisi portata dal Covid, è stato, credo, il cane, un pitbull pare. Chissà quanto si deve essere divertito a grattare una delle porte, da entrambi i lati, poi. 

E dire che i precedenti proprietari ci tenevano assai, a quelle porte: ricordo con quale orgoglio il vecchio postino, famoso in tutta la piccola cittadina adriatica, me le aveva mostrate, con quei vetri smerigliati e le decorazioni in rilievo colorate. 

Ho fatto del mio meglio per pulirle. In generale, ho fatto del mio meglio per ridare alla casa un aspetto dignitoso

Mi sforzo di trovare i lati positivi, l'ho sempre fatto, praticamente. Amavo molto la storia di Pollyanna, la piccola orfanella che aveva imparato a sorridere della vita, facendo il suo "gioco della felicità".

A pensarci adesso, mi sono spesso piaciute storie così, sono cresciuta, come molte altre bambine della mia generazione, con storie così. Amavo molto anche Il giardino segreto, forse, anzi, mi piaceva anche di più di Pollyanna. Trovavo bellissimo che questo ragazzino rifiorisse alla vita curando il "suo" giardino.

Avevo trovato anch'io, il mio giardino.

Era la mia casa marina, in un paese tanto anonimo quanto prezioso. Per me, solo per me. Mi sono innamorata di quel posto, Porto San Giorgio, ancora prima di andarci a vivere. Non so spiegare bene il perché, ne parlavo con un'amica con cui ho camminato con grande piacere sul lungomare, comunque solo lì, tolta la casa dei miei genitori, mi sento davvero bene.

Per questo, e non solo per questo, mi ha fatto molto male vedere l'appartamento in quelle condizioni, le lampadine fulminate o assenti, piena di rozze scarpe tacco 12 che però non ho avuto il coraggio di gettare direttamente in discarica (le ho infilate in quei contenitori per i poveri: chissà chi finirà per indossarle. Forse è meglio non saperlo).

Non ho buttato neanche i "Diari di una schiappa" del ragazzino che ha giocato sulla mia scrivania da bambino, macchiandola di colla o qualche altro materiale che non se ne va più. La prossima volta che torno li porto alla scuola elementare vicina: almeno potranno rivivere, come il giardino del romanzo.

Rivivere, ecco, ai mobili di mia nonna avevo dato questa possibilità, portandoli prima nella casa-torre, in cima alla collina del Girfalco, e poi nel mio appartamento, comprato con tanta fatica e gioia.

Al posto del letto in legno chiaro, l'inquilina mi aveva lasciato il suo, laccato bianco. Le avevo dato il permesso io, ignara del fatto che mi sarebbe toccato smaltire diversi pezzi di mobili smontati, più una rete matrimoniale e un'altra singola richiudibile. 

Praticamente un magazzino. Un magazzino malmesso, le tapparelle lasciate su, alcuni vestiti e una vecchia gomma da masticare (non ancora mangiata, per fortuna) giù, sulla coperta del mio letto. E dire che nella telefonata di commiato la giovane non so quanto inconsapevole distruttrice mi ha detto che ci teneva a restituirmi la casa come gliel'avevo consegnata, piuttosto trepidante, tredici mesi fa.

A pensarci bene ora, solo il tavolo da sei di legno scuro, solido e indistruttibile, mi ha trasmesso un segno di speranza. Da quel tavolo bisognava ripartire. Lì abbiamo fatto colazione, contrariamente alle nostre abitudini di un tempo, per diversi giorni.

Andarsene via è stato triste, ma mi sentivo carica, ricaricata, e pronta ad affrontare una nuova fase, non so quanto lunga, qui in terra asburgica, dove ci aspettavano i gatti. Il gioco della felicità mi diceva che, sì, ero, sono stata fortunata, perché almeno adesso ho riavuto il mio luogo del cuore, chiuso e sbarrato in attesa del nostro rientro. Ma la mia vita, la nostra vita, al momento, è in questa fredda città del Nord Europa. Fredda, meteorologicamente parlando soprattutto, e non solo.

Amici e parenti (alcuni) ci dicono di resistere e il loro sostegno mi aiuta. Persino il mio dolce padre mi manda messaggi d'incoraggiamento, a dirla tutta un po' formali, ma teneri come solo un vecchio schivo come lui potrebbe scrivere.

Durante le quattordici di ore di viaggio, però, ho avvertito una fastidiosa incrinatura.

Mentre ascoltavo Mark Knopfler, e i suoi vecchi album dei vecchissimi tempi, mi è comparso sul cellulare il nome della mia proprietaria. Tuffo al cuore. Oddio, è successo qualcosa ai gatti. A lei ne avevo affidato la cura, ben sapendo che sarebbe stata in grado di occuparsene, vivendo al piano sopra il nostro e avendone anche lei due.

Kein Problem mit den Katzen, nein.

Il problema era un altro. Anzi, è un altro. 

Caldaien rotten, ja. Fino a mercoledì prossimo (si spera non oltre) no acqua calda no riscaldamento. 

Queste cose succedono, lo so. Anche a Milano rimasi due settimane nelle medesime condizioni. 

La proprietaria, peraltro, ci ha anche procurato una stufa, un madonno pesantissimo, come piace tanto ai popoli nordici, che però la sua sporca funzione la fa.

Il problema è un altro, dicevo.

Il problema è lo scrauso.

Was ist scrauso?, mi ha chiesto un'amica austriaca che parla bene l'italiano.

Parafrasarlo significa togliergli la scorza onomatopeica, così essenziale in tutte le lingue del mondo, persino in tedesco. Sì, sì, amici, è così: non faccio ironia in questo momento.

Tornando allo scrauso, insomma, è una parola che incarna alla perfezione il fantasma, molto materiale, contro cui ho ingaggiato la mia personale battaglia.

Di più: lo scrauso è il nemico da sconfiggere assolutamente e in maniera definitiva. Non di battaglia si tratta, allora, ma di guerra.

Stop scrauso, stop scrauso, stop scrauso... Me lo ripeto come un mantra tutti i giorni, per vari minuti di seguito. Davvero.

E che cosa succede? Sentendo di essere in pericolo, lo scrauso, come qualsiasi altra creatura viva, si ribella. E mena pugni, buttandomi giù.

Io però non ci sto a restare a terra, mentre parte il countdown, e, in genere, a - 8 sono già in piedi. A Porto San Giorgio credo di essermi rialzata un po' dopo, forse a - 5, ma ce l'ho fatta e ho ripreso a recitare la mia preghiera. Hop hop hop, stop scrauso, stop scrauso, STOP. Rieccomi qua, barcollante ma in piedi. Tiè.

Fine ennesimo round. 

Dopo il break, sono arrivata qui, consapevole di trovarmi all'inizio di un round ancora più duro. 

E infatti. Banghete. Con meno tre gradi nel luogo in cui si depositano i bisogni primari, obiettivamente, la botta mi ha lasciato senza fiato.

Dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro... Non ci provare. Non mi avrai, scrauso, NON MI AVRAI.

Prima del colloquio con la consulente del lavoro su skype, perciò, ho scaldato due pentole d'acqua e mi sono lavata pure i capelli. 

Non so come ho fatto, ma ho riso con la tizia e l'ho anche fatta ridere più di una volta. Mi sorprendo ancora quando capitano cose così, ma ormai dovrei saperlo: con gli sconosciuti riesco a simulare bene la fatica che faccio per respingere lo scrauso. Forse, anzi, la leggera agitazione che lascio trasparire fa anche personaggio. Mi dà quella spolverata buffoncella bastevole a dare l'impressione di essere una personcina a modo. 

Sarà il tempo a dire se il nuovo curriculum, preceduto da un Kurzprofil (un profilo in breve) in cui metto in luce il mio amore per la scrittura, la fotografia e la mia predisposizione a dare fiducia alle persone (anche a quelle che ti sfasciano casa) servirà davvero nel mondo del lavoro austriaco.

Mi ha fatto piacere, certo, che la consulente, alla fine della nostra chiacchierata, mentre in cucina il proprietario e lo spazzacamino pianificavano l'eutanasia per la caldaia, abbia detto che il mio curriculum farà sicuramente un'ottima impressione, adesso che l'abbiamo riscritto un'altra volta.

Ha usato anche una metafora lusinghiera su come le sono apparsa: una specie di fiore all'apparenza compatto, in verità composto di tanti petali, uno dentro l'altro. O qualcosa del genere.

Di là si combatteva per me, per qualche minuto almeno, contro lo scrauso, e di qua, dentro allo schermo, una donna pressoché sconosciuta faceva altrettanto, rassicurandomi. 

Da questi segnali capisco che non devo mollare. Lo so che è così.

E infatti non lo farò. Non è possibile che io molli. 

La guerra è fatta anche di momenti di riposo. Le ferite hanno bisogno di qualche giorno per risanarsi. Solo in casi di urgenza si compie lo sforzo estremo di rialzarsi per assestare qualche pugno come si può, pur di sopravvivere.

Oggi non è uno di quei giorni. Ne ho vissuto qualcuno così in diversi momenti dei miei quasi primi 50 anni. Ne vivrò anche altri, di sicuro.

Oggi è il giorno del silenzio. Domani, dopodomani, bisognerà gettare un nuovo piano d'azione, avendo però sempre chiara la strategia di fondo. 

Solo così lo scrauso sparirà.

A voi faccio quest'unica seguente preghiera, in vista degli imminenti Europei di lotta allo scrauso che mi accingo a combattere: credete in me, fate il tifo per me, fate la ola per me. E ripetete con me, se possibile a squarciagola, mentre assesto colpi definitivi: 

Stop scrauso, stop scrauso, stop scrauso...

martedì 15 maggio 2018

Cani, gatti e piccioni: evviva la ginnastica (e l'amicizia)


L'altro ieri me lo sono chiesto più volte, invano: a quante edizioni della Camminata Donna Rosa - l'iniziativa a sostegno dell'Associazione Noi per l'Oncologia Fermana, che lavora a stretto contatto con il reparto di oncologia dell'ospedale di Fermo - ho partecipato? 

A contare le magliette che ho nei cassetti della roba sportiva, dovrebbero essere quattro.
Il che significa che la prima volta è stata nel 2014, probabilmente ad aprile, meno di due mesi prima che mia madre se ne andasse.

Sì, deve essere così, ma d'altra parte ho rimosso quasi tutto quello che è successo prima degli ultimi quaranta giorni della sua vita. 

Diversamente, credo che non avrei voluto più prendervi parte.

E invece, eccomi lì nella foto che vedete sopra, a farmi fintamente portare in trionfo da alcune delle mie amiche di palestra.

Mentre correvo mi ha affiancato un'auto: "Signora, mi scusi, potrebbe rallentare, altrimenti non riusciamo a riprenderla con le altre?", mi sono sentita dire da una giovane armata di videocamera appollaiata nell'abitacolo assieme ad altri ragazzi.

Ridicola soprattutto io, che ho pure risposto di no perché stavo cercando di "fare il tempo".

Ancora più scema mi sono sentita quando, dopo un po' che ero arrivata, lo speaker mi ha detto di avermi riconosciuta. L'anno scorso avevo biascicato qualcosa sulla colazione sbagliata che mi aveva impedito di arrivare tra le prime tre.
Quest'anno, per lo meno, ho rimediato, ringraziando pubblicamente l'Asd Fermo 85 di cui faccio parte credo a questo punto da una decina d'anni, o poco meno.

Ed è stato così molto simpatico che alcune delle mie compagne di ginnastica del lunedì, martedì e giovedì pomeriggio mi abbiano voluto festeggiare in quella maniera.

L'ho scritto più volte e lo confermo: mi hanno davvero aiutato a vivere con più leggerezza tutti questi anni non proprio facili.

Arrivati a metà maggio, ormai, manca davvero poco alla fine delle lezioni, che torneranno a settembre, in concomitanza con la riapertura delle scuole.

Deve mancarmi molto il clima sereno dei miei anni di liceo, evidentemente.
Una mia cugina acquisita dice spesso che vorrebbe avere i problemi di quel periodo (lei parla più spesso dell'università, però) e la testa di adesso.

Mi sto convincendo che abbia ragione lei, anche se ci ho messo un bel po' a capirlo, forse perché, inspiegabilmente, non di rado mi sento ancora come se davvero avessi quegli anni lì.

Quando mi succede in palestra, o mentre corro, tutto sommato mi piace (mi piaccio) perché mi libero, almeno per qualche tempo, di tutti i pessimi pensieri di fallimento.

In questo momento, ce li ho di nuovo molto forti, quindi mi conviene farla breve e arrivare al punto.

Frequentando la Fermo 85, ho scoperto che la ginnastica ha molto a che fare con... galline, gatti, cani e altri animali.

Pensate: tra gli esercizi di stretching che facciamo alla fine dell'ora, c'è persino un piccione, inteso come tale quel movimento che ci propone più spesso Rita Sacripanti, la super Rita, di quanto non faccia Tiziana Bastiani, la finta dolce, ossia le due istruttrici che mi hanno rimesso in sesto e sentimento ritardando (almeno un pochino...) il crollo inevitabile.

Come si esegue? Facile a farsi più che a dirsi.
Ci si mette nella posizione di plank, si piega una gamba e la si schiaccia a terra di taglio, dopodiché si scende un pochino con il corpo senza sedersi del tutto. Ed eccolo là, piccione fatto.

Gli animali più famosi, però, restano i gatti e cani, entrambi mutuati dallo yoga e in quanto tali utilizzati sempre nella fase finale, di stiratura.

Il gatto prevede di mettersi a quattro zampe e di inarcare la schiena, mentre si inspira (mi pare) e di rilasciarla mentre si espira. Ne esiste anche una versione più dinamica, detta da Rita del "gatto attivo", ma per come la vedo io, è una sorta di pleonasmo, visto che non esiste quadrupede più agitato del felino. Oltretutto, in questo momento, non mi ricordo come si fa. Stasera me lo faccio rispiegare.

Passiamo al cane, l'altro animale amatissimo pure dai politici. Bene, quando si arriva a questo punto ci si sta per rimettere in posizione verticale, ma prima bisogna distendere le gambe mantenendo le braccia tese con le mani a terra e simulare una specie di camminata. Dopodiché, sempre con la schiena all'ingiù, ci si abbraccia le ginocchia e, molto lentamente (tolta la nostra elastica Aurelia, una superdonna con sorriso da pubblicità) si ritorna su.

Lo zoo da palestra contempla però altre creature, dicevamo.
Ce n'è una che non rende giustizia alla grazia femminile, detta squat dell'orso. Sinceramente: mi sta sulle balle perché penso di farlo malissimo. In tutti i modi si tratta di passare dal plank allo squat tenendo le braccia tese con i palmi delle mani a terra. Nooo, brutta roba.

Pure la gallina, beh, non è proprio bellissima a vedersi, ma forse farebbe la felicità dell'universo maschile se si fermasse a guardare tutti questi lati B all'insù, mentre si eseguono i tricipiti detti, per l'appunto, a gallina.

Abbiamo anche un cavallo, che consiste nel mettersi a cavalcioni dello step e salire e scendere da un lato e l'altro ripassando sempre dal centro, un esercizio piuttosto frequente nelle fasi aerobiche dell'allenamento, che non mi fa impazzire da quando sono caduta come una pera cotta con il fondoschiena proprio sull'attrezzo. 

Fantastica, forse perché molto infantile, è invece per me la lepre, che prevede di saltare con entrambe le gambe da un lato all'altro della panca lunga, appoggiandosi sulle braccia e scorrendo in avanti. Mi pare di volare quando la faccio.

Quali altri animali mancano? Uh, dimenticavo il cobra, già, sempre nella fase di stretching, che si usa per stirare gli addominali, stando pancia a terra e sollevando la schiena con l'aiuto delle braccia piegate. Quando si arriva a stenderle, invece, dal cobra si passa alla Sfinge. 
C'è anche il ragno o posizione a quattro di bastone (dovrebbero essere la stessa cosa), ma benché sia sicura che manchi all'appello qualche altro volatile o quattrozampe, il concetto mi pare chiaro: o no? 

La ginnastica ti riporta sulla terra, sia perché materialmente sei spesso in posizione orizzontale, sia perché, man mano, finisci per sentirti davvero pure tu un po' un cavallo o un gattaccio (come la mia grigia).

E poi ti riporta a terra anche da un altro punto di vista, quello più importante: siamo carne, sangue, ossa, muscoli e respiro e quella roba che sta lassù, sopra il collo (a proposito: sono molti anche gli esercizi di stretching per quest'ultimo), è poca cosa rispetto al resto.

Per curarla (intendo la testa) è essenziale partire proprio dal basso. Dalla punta dei piedi, salendo su su, fino al cuoio capelluto.

Se poi condividi il tutto con un gruppo coeso scacciapensieri, a fine ora ti sentirai comunque meglio.

E aspetterai di ritrasformarti in qualunque di quegli animali.

Dolori, ansie e fallimenti resteranno sempre lì in agguato, ma tu nel frattempo avrai perfezionato il ruggito (esisterà anche il leone? Chissà) e niente, davvero niente, sarà più come prima. 

Grazie, amiche. 
E coraggio a tutte noi, sempre.

venerdì 19 gennaio 2018

Omaggio a José Greco, il re italiano della danza spagnola

José Greco nel film "La nave dei folli", 1965


"Eccovi qua chi ero: un bambino italiano cresciuto a Brooklyn, diventato un ballerino di danza spagnola e dopo, per qualche bizzarria del destino, 'il brindisi della Scandinavia'. Nessun romanziere vi avrebbe mai consigliato una trama simile".

Le parole sopra riportate appartengono a Costanzo Greco, il nome vero del Principe del flamenco noto anche a Hollywood con il nome di José Greco, nato a Montorio dei Frentani, oggi in Molise, due giorni prima del Natale 1918.

La frase è tratta dall'autobiografia scritta dall'artista con Harvey Ardman nel 1977, intitolata The gypsy in my soul, letteralmente "lo zingaro nella mia anima". 
Se mai avesse potuto tradurla nella lingua madre, ho la sensazione che Mister Greco avrebbe scelto di puntare di più sul suono fortemente evocativo della nostra parola cuore, associandolo, certo, alla componente "zingara" dell'arte della sua vita, ma anche alla nostalgia per le radici lontane, ricercate probabilmente in tutte le donne che ha amato.

Peccadillos chiama il nostro eroe le storie multiple e le avventure passeggere intrecciate mentre mette su e porta al successo la compagnia di ballerini di origine prevalentemente ispanica e gypsy, con la quale sbarcherà nel giugno del 1949 in Scandinavia e Danimarca, le prime terre del Vecchio Continente, dopo la Spagna qualche anno prima, destinate a consacrarlo a sovrano della danza spagnola moderna, approdata in Europa e in Nord America negli anni Trenta dell'Ottocento.

Un po' di storia del flamenco e dintorni, tratta da giornali dell'epoca, è riportata nel libro nel punto in cui Greco parla della vigilia del debutto a Broadway, a pochi metri da dove ha fatto il "ticket runner", quando il suo futuro agente Jack Nonnebacher gli consiglia di lasciar perdere la danza e di fare piuttosto il camionista.

Chi avrebbe mai immaginato, invece, che un giorno il suo nome sarebbe comparso a caratteri cubitali e luminosi sulla facciata del Lee Shubert Theatre? Probabilmente non l'avrebbe mai detto nemmeno l'impresario che dava il nome a quest'ultimo se non l'avesse notato nel film "Manolete", visto per caso qualche anno dopo l'uscita in una sala di Parigi. 
E dire che il nostro Costanzo non ne parla benissimo nel libro: ricorda, sì, di aver ballato molto bene (altro che), ma le riprese durano molto più di quello che gli avevano promesso, in anni in cui lui si è già fatto conoscere e apprezzare direttamente a Siviglia, durante una tournée molto impegnativa che gli permette di accumulare sufficiente denaro per tornare in Italia per la prima volta dall'infanzia e portare una montagna di regali ai suoi compaesani.

Ancora oggi, dalle parti di Montorio, si rievocano di tanto in tanto i bauli carichi di vestiti (e molto, troppo pepe!) collocati dal danzatore italo-americano in mezzo alla piazza perché ognuno potesse scegliere quello che voleva. 
Divertente l'aneddoto-postilla che di sicuro avrà prodotto analoga reazione anche sullo scrittore che l'ha aiutato a buttare giù i suoi ricordi. Gli dice infatti lo zio: "Sei stato così generoso con noi, Costanzo, ma la prossima volta...". "La prossima volta cosa?", gli risponde la nostra star. "Beh, il denaro sarebbe più utile. Con il denaro potremmo comprarci da soli le cose, magari più economiche di quelle che ci hai comprato tu".

Della serie: evviva la gratitudine.

Da migrante transitato per l'Oceano Atlantico a bordo di una nave come tanti prima e dopo di lui, Greco però capisce il senso della richiesta del suo parente, perché conosce, eccome, il valore del denaro, un tema che percorre tutta la sua autobiografia e che, credo, lo avrà preoccupato fino alla fine dei suoi giorni.

Perché il successo non ti regala necessariamente anche la stabilità economica, ribadisce a più riprese: pagine e pagine, anzi, sono dedicate proprio all'analisi delle spese affrontate per organizzare le tournée, altre alle trattative con gli artisti, non tutti descritti come il massimo dell'affidabilità. Più di qualcuno, anzi, l'abbandona nel mezzo dei preparativi di un nuovo spettacolo, per altri Greco è costretto a fare da mediatore per via di intrecci amorosi piuttosto complicati. 

A volte si sente la fatica che gli costava tenere tutto in piedi, considerando anche i suoi, di intrecci amorosi, un aspetto di cui parla piuttosto diffusamente.

Al di là di tutto, a me sembra vero solo questo: Greco doveva danzare e diventare la star che tutti gli appassionati di danza spagnola conoscono e ammirano ancora oggi.

Se non l'avesse fatto, la storia dell'umanità lo avrebbe rimpianto per sempre.

Per capire di che cosa sto parlando, basta vederlo atterrare con il ginocchio piegato con quel "mix di eleganza e forza" che gli attribuiscono i critici all'indomani del debutto a Broadway. Le repliche dovevano essere una quindicina, ma Mister Shubert le allunga a un paio di mesi. Nel frattempo, Greco va anche in tv e riceve altre proposte cinematografiche. 

Nel '52 esce il film "Sombrero", un rifacimento di Don Chisciotte in salsa messicana, racconta, girato da Norman Foster. Nel film è costretto a dare uno schiaffo alla protagonista (Chyd Charisse) che interpreta la parte di sua sorella, mentre lui è un discendente di una famiglia di zingari spagnoli, oltre che un torero.  La pellicola non lo convince, o forse è più esatto dire che è lui a non essere convinto di se stesso, perché un conto è danzare, un altro è essere pronti ai ripetuti ciak chiesti dal cinema.

Sia come sia, noi profani non ce ne accorgiamo e ogni scena in cui l'hanno immortalato mentre accompagna l'aria con il suo corpo è un puro piacere per gli occhi. E l'anima. O il cuore, se preferite.

Lo sapeva persino Simone Signoret, sua compagna di cast nel film La nave dei folli, accanto a molti altri famosissimi attori, che un giorno gli dice: "Sai, José, non avrei mai potuto avere una storia con te". "E perché?", le risponde lui sorpreso. "Beh, sei troppo simile a mio marito, Yves Montand. Se avessimo avuto una storia mi sarebbe sembrato di fare l'amore con lui. E quello posso averlo di tanto in tanto".

Simpatica e intelligente la Signoret, non c'è che dire, come riconosce Mister Greco, che apprezza molto anche Vivien Leigh, David Niven, suo compagno di cast nel "Giro del mondo in 80 giorni" e svariati altri Vip.

Tra i più famosi c'è sicuramente Frank Sinatra, che gli regala un mucchio di soldi salvandolo dai guai in un casinò di Las Vegas. E poi ci sono gli incontri ufficiali, come quello che Charles De Gaulle, che si vede stringergli la mano durante una cerimonia di gala. Prestigiosissima è la Croce di Cavaliere al merito civile di Spagna ricevuta in ambasciata a Washington l'8 aprile 1962.

Proprio quell'anno è nato José jr, uno dei figli di Lola DeRonda, un'altrettanto indimenticabile regina della danza spagnola, che sarà celebrata con l'immortale papà in una serata omaggio prevista a Porto San Giorgio il prossimo 2 febbraio nel teatro della cittadina marchigiana a partire dalle 21.15. 




Come mai lì? Perché proprio a Lu Portu vive il quartogenito di Costanzo, José jr, ballerino e insegnante come poi è stato anche suo padre: a lui e all'attrice Elisa Ravanesi innanzitutto il merito di aver organizzato lo spettacolo al quale parteciperà anche la sorella minore Lola e altri artisti appassionati di musica e danza spagnola.

Molto disonorevolmente sono stata coinvolta anch'io nelle vesti, davvero poco abituali, di presentatrice.
Non vi nascondo l'ansia, ma insieme anche l'emozione, autentica, per questo viaggio alla scoperta di una vita davvero straordinaria.

Verso la fine del libro Costanzo cita una vecchia storiella vaudeville che gli racconta una volta il suo caro amico Nonnebacher, per risollevarsi reciprocamente di fronte agli ennesimi problemi economici.

"C'era un uomo che affermava di avere di un asino parlante, ma quest'ultimo non parlava mai". Greco non rammenta i passaggi intermedi, ma sa che a un certo punto c'è un impresario che aspettava e aspettava che l'asino finalmente parlasse che dice all'uomo: "Quando l'asino parlerà, diventerai ricco". Bene: per Jack un giorno o l'altro l'asino avrebbe parlato.

Proprio nelle ultime righe mister Greco si sofferma sulla sua grande ed estesa famiglia, dedicando parole a ciascuno dei suoi sei figli e a Nana Lorca, la penultima compagna di vita prima della giovanissima Anna, che si innamorerà di lui quando ha appena sedici anni e lui molti di più: e infine ad Argentinita, vera e propria sacerdotessa della danza spagnola, colei che gli dà il nome d'arte José oltre che l'anello simbolo dell'unione imperitura con l'arte. Quindi conclude: "In qualche modo, credo che il futuro si farà da solo. E chi lo sa: forse l'asino finalmente parlerà".

Speriamo abbia ragione. Ma sì che ce l'ha.

Nell'attesa, chi può, intanto, venga in teatro a vederci.





lunedì 8 gennaio 2018

Vitaliano Trevisan, il lavoro e il dolore che fa bene


Ero indecisa se scrivere qualche riga su Works, il libro di Vitaliano Trevisan che ho finito di leggere ieri mattina. Non vorrei che si confondesse la forte impressione che hanno prodotto su di me le oltre seicento pagine che lo scrittore vicentino ha dedicato ai suoi svariati e più lavori che l'hanno impegnato dai tempi della scuola al 2002 con il mio personale percorso professionale così disastrato.

Certo, se Trevisan mi ha colpito vuol dire che ha toccato qualche corda che mi riguarda molto direttamente, ma il rischio che corro, quando succede com'è effettivamente successo con lui, è di diventare barbosa oltre ogni misura.

Posso solo dirvi che consiglio la lettura di questo viaggio nella ricca provincia italiana del Nord Est, partito negli anni Settanta del secolo scorso e approdato nei primi due dell'attuale, a chi abbia voglia di immergersi in una scrittura cervellotica e sinuosa, ironica e amara. 

Ho letto qui e là paludatissime recensioni che ne coglierebbero citazioni più e meno esplicite da Thomas Bernhard, un autore a me del tutto sconosciuto. Niente di più facile, visto che Trevisan lo nomina nel libro a più riprese come uno dei suoi tre numi tutelari, letterariamente parlando, insieme con Samuel Beckett e Ludwig Wittgenstein. La mia crassa ignoranza mi ha preservato finora dalla lettura pure degli altri due, quindi figuriamoci se mi metto a negare l'esistenza di punti di contatto tra lui e loro.

Sia come sia, Trevisan mi ha fatto invece nascere proprio la curiosità di saperne di più, di Bernhard and co, e in generale ho apprezzato la generosità con la quale si è messo a nudo, o ha finto di farlo (restando però credibilissimo), probabilmente, più di quello che dichiari in corso d'opera.

Dev'essere, in ogni caso, un grande rompicoglioni proprio come si dipinge, dotato contemporaneamente di un istinto speculativo (alla Wittgenstein?) non comune.
Oggi dice di vivere in un paesino di collina lontano dal centro storico "che gli fa schifo" e di passare poche ore al giorno a scrivere, e il resto a camminare o a spaccare la legna.

A vederlo, non dà l'idea che voglia fare il guru e francamente spero di non sbagliarmi.

Mi toccherà a breve restituire al legittimo proprietario una delle migliori scoperte dell'anno passato: un sentito grazie va a lui, e in generale agli organizzatori del Premio Volponi per la letteratura e l'impegno di civile, tornato a Lu Portu dopo vari anni di migrazioni.

E' già la seconda volta che uno dei libri in concorso (anche l'altra volta non il primo classificato) mi dice talmente tanto da provare quasi dispiacere di averlo concluso. In quel caso si trattava di Sebastiano Nata e il suo "Il valore dei giorni": tutt'altra atmosfera e storia, ma, per me, uguale generosità letteraria.

Che altro posso aggiungere?

C'è troppa retorica sul lavoro come modo per "realizzare se stessi", come dice l'autore di Works. Bisognerebbe, se possibile, tentare di capire chi si è e ciò che si può fare con il solo fatto di essere in vita a prescindere dalle proprie ambizioni, chissà se morali o materiali.

L'inquietudine e più ancora la depressione e la voglia di mandare tutto a ramengo sono fedeli compagne di chi arranca giorno dopo giorno senza una meta precisa, ma io credo, in ogni caso, nell'istinto di sopravvivenza, lo stesso penso che faccia Trevisan e molti di noi.

Meno male, poi, che ogni tanto qualcuno fissa sulla carta qualcosa di fondamentale. Di doloroso, anche, ma di quel genere che di dolore che fa bene, perché ti spinge a non addormentarti, o a farlo nei tempi giusti.

Perciò concludo il post e volto pagina. 
Fino al prossimo risveglio.

martedì 13 giugno 2017

La storia non siamo noi, ma trattateci comunque da cittadini. Lettera ai vincitori delle amministrative


Se fosse stata in bianco e nero, o di colori meno metallici, la foto che pubblico sopra sembrerebbe provenire direttamente dagli anni Settanta-Ottanta.
Invece no: l'ho scattata ieri sera, al termine dei festeggiamenti per la rielezione del sindaco di Porto San Giorgio, Nicola Loira, uno di cui, secondo lo slogan elettorale, ci si potrebbe fidare.
A sventolarla, è un anziano, verso il quale non si può che provare un misto di tenerezza e malinconia.

Era dai tempi dell'università, a inizio Novanta del secolo scorso, che non vedevo una bandiera con la falce e il martello. Di sicuro sarà comparsa mille altre volte in analoghe manifestazioni, ma credo davvero che risalga a inizio Duemila l'ultima volta che ho preso parte a qualcosa di tinta rosseggiante, pur se in circostanze completamente diverse.

Non sono tipo da folla né amo, in linea generale, le sfilate di protesta con tanto di canti e tamburi (se sei incazzato, che ti canti, mi viene sempre da pensare). Mi sentivo fuori tempo massimo già a vent'anni, quando me ne andavo con la fotocamera analogica a immortalare i manifestanti che furono. Ho ancora da qualche parte un album con gli scatti raccolti a Firenze in occasione di una protesta anti-Berlusconi. Alcuni si erano messi in posa, esattamente come fanno i partecipanti a maratone e altre amenità di massa.

Credo che stare dall'altra parte dell'obiettivo protegga anche un po'. Che ci faccio qui? Ma è ovvio, scatto foto: mica crederete che la penso come voi?

Eppure.
Era già caduto il muro di Berlino quando frequentavo le feste dell'unità e simili. Anzi: ricordo anche vagamente un comizio di Fausto Bertinotti in un prato della periferia pisana. Ci si andava per stare con gli amici (toscaneggio pure, per l'occasione), ma evidentemente il mio cuore militava da quelle parti. Di certo non sono mai stata a un'analoga kermesse missina o post-non so cosa (c'era Fini, giusto. Le mie coinquiline un giorno sono tornate a casa con le bandierine italiane e me le hanno sventolate davanti alla faccia per provocarmi. Ci sono riuscite. Lo ammetto).

Insomma, dentro di me alberga una piccola comunista, amica dei deboli e degli sconfitti.
Mi dispiace sempre assistere al rammarico di chi ha perso: mi scatta istintivamente un istinto materno difficile da controllare.

Mi immedesimo più facilmente negli sfruttati e maltrattati di rinogaetaniana memoria.
Capisco, però, che dalla tristezza altrui occorra anche difendersi per non confondere le proprie con le altrui frustrazioni.

E poi ho realizzato un'altra cosa: bisogna anche saper gestire le vittorie.

Sedersi sugli allori è, come dicevano gli antichi, l'errore più grave che si possa compiere.
L'omino che agita la falce e martello probabilmente non lo sa, ma quel partito in cui hanno riposto le speranze generazioni e generazioni di italiani è diventato ostaggio di una classe dirigente che ormai gli allori ce li ha per biancheria intima.

Non sto parlando nello specifico del piccolo comune nel quale sono venuta a vivere, ma a giudicare dalle molte facce non più giovani presenti anche tra i neo consiglieri comunali del posto in cui ho comprato casa, investendovi denari e progetti per il mio futuro di persona altrettanto anzianotta, ci vorrà ancora un po' prima che, davvero, questo Paese (non solo Lu Portu) si riscuota dalla stasi in cui è piombato ormai da troppo tempo.

"La storia siamo noi", diceva la canzone di Francesco De Gregori utilizzata per aprire la festa per la vittoria, anche quella un classico dei miei anni verdi.
Mi intenerisco e provo anche un po' pena per me stessa pensando a quando, in sella alla bici con i freni a bacchetta, troppo alta per me e pericolosissima per come la guidavo, mi avviavo verso un altro quartiere periferico di Pisa, più o meno nello stesso periodo di adesso, per andare a servire al ristorante della festa di Rifondazione comunista. Per un bel pezzo sulla canna dell'improbabile mezzo di locomozione è rimasto appiccicato un bollino con il simbolo sovietico.

Ricordo pure un cuoco, forse quarantenne, uno anzianissimo per una come me fin troppo pischella per l'età che avevo, nell'atto di avvicinarmi al busto il suo forchettone per la carne. Broccolava un po', credo, ma se ce l'ho ancora fisso davanti agli occhi è solo per il senso di vergogna che ho provato. Polla da infilzare, ingenua e sognatrice come i tanti che negli ideali propagandati dal Pci e i suoi eredi ci hanno creduto davvero.

Poi gli anni passano e la storia, per l'appunto, prende nuovi corsi e tu te ne senti ogni giorno di più meno parte.
"Siete finiti!", dicevano dei giovinastri da un'auto in corsa che passava accanto alla festa pisana.

Qualcuno forse li avrà rintuzzati, ma sinceramente non so cosa avessi pensato io in quel momento.
Sotto sotto, però, ho sempre saputo che di quel mondo mi piaceva essenzialmente la vera o presunta veracità dei compagni di una volta, quelli che dopo aver mangiato i fagioli all'uccelletta si buttavano tutti in pista a ballare il liscio.

Mi parevano autentici, incapaci di scorrettezze o peggiori nefandezze.
La cosiddetta base tanto mitizzata pure nei programmi di Guzzanti e Dandini di quegli anni, gli eroi pasoliniani che in verità io non avevo mai frequentato, piccola borghese com'ero di famiglia.

A distanza di tanto tempo che cosa è rimasto di quella specie di ideale di purezza?
Lo incarnano forse solo i semplici come quell'anziano che sventola la bandiera nella foto o è possibile essere per lo meno credibili pur nel crescendo di amarezze che ti riserva l'età adulta?

Come proteggersi da volgarità e meschinità, nonostante tutto?
Non ho una risposta precisa, o forse una mi viene in mente.

E la indirizzo a chi ha vinto questa tornata: abbiate rispetto degli altri, fateci sentire parte del vostro progetto di città, non a chiacchiere, non ad amarcord musicali, ma con le opere.

Siate degni del vostro essere vincitori: siate condottieri di questa nave piena di rattoppi e cercate con il massimo dell'abnegazione di rimetterla in sesto.

Voglio sentirmi vincitrice anch'io, per una volta: non voltate la faccia a chi non fa parte della vostra famiglia. Abbiate rispetto per il ruolo che vi siete assunti.

E' già un miracolo, voglio dire, che chi ha accolto l'eredità di quel partito fortemente novecentesco possa ancora fare numeri importanti, non solo nella piccola città de Lu Portu.

Agite da amministratori, non da feudatari.
E' l'unica preghiera che vi rivolgo da cittadina, con la fotocamera al collo, dall'altra parte del palco.

Lasciate che alla fine dai miei scatti di fotoamatrice venga fuori anche la vostra anima. Mostrateci di averne una.

sabato 1 aprile 2017

Ciclone Montanini: arrivederci a mai più


Sto cercando di fare ordine tra le sensazioni che mi ha provocato lo spettacolo di Giorgio Montanini visto ieri sera nel teatro di Porto San Giorgio.

Ho avuto almeno un paio di volte la tentazione di andarmene via: del resto, Montanini in persona, comico nato a Fermo nel dicembre del 1977, come si legge nella nota biografica sul sito della Rai per il suo programma "Nemico pubblico", aveva esortato a farlo nel caso in cui le sue parole fossero risultate troppo urticanti.

Però non so bene a cosa si riferisse lui, se al cosiddetto turpiloquio (una parola che amava molto la mia mai giovane prof di greco) o al senso di superiorità nei suoi confronti capace obiettivamente di indurre in chi non si scandalizza o finge di non farlo.

Da brava autistica quale sono, se dovessi analizzare passaggio dopo passaggio il suo show, sarei costretta a dargli ragione su tutto.
Sul maschilismo dell'Italia, sui luoghi comuni a proposito dell'esperienza della paternità, sui danni causati da Papa Bergoglio all'anticlericalismo in particolare dei comunisti (ma direi a tutto il mondo radical chic nel quale per molto tempo ho creduto di poter entrare pure io), sul razzismo e la mediocrità della massa e via discorrendo.

Resta però il fatto che ascoltarlo e guardarne il corpo appesantito sulla scena non mi ha dato alcun piacere.
Anzi. Mi ha reso triste e incazzata. O forse l'ordine è alla rovescia.

Alla fine sono rimasta, facendo barchette di carta con i pezzi del biglietto, sovrastata in certi istanti dalla disperazione di essere lì e non da tutt'altra parte.

Sono sicura che abbia fatto tanta gavetta e che meriti di avere una chance, ma alla conclusione buonista sono arrivata solo a chiusura dello spettacolo quando ha ringraziato il pubblico parlando finalmente in italiano (il comico Francesco Capodaglio, con il suo sketch in sangiorgese stretto, mi ha fatto ridere più di lui, detto tra noi).

Mentre lo ascoltavo concionare in vernacolo, mi domandavo se lo stia usando anche nel tour nazionale in cui è impegnato in questo periodo. Per carità: è pieno di gente di palcoscenico che usa il dialetto ed è anche vero che certi concetti passano meglio se espressi nella lingua madre.  

Resta pur sempre il fatto che un intero spettacolo in fermano (ma per me sarebbe stato lo stesso se fosse stato in abruzzese, la mia lingua madre) mi ha dato il colpo di grazia.

Sì. Credo che su tutto quel che più ha ferito la mia idea di bellezza demodé sia la rozzezza modernissima di questo esponente della stand up comedy all'italiana. Si capisce che ha talento e professionalità e non posso negare che abbia qualche ragione a sottolineare l'ipocrisia di chi gli ha chiesto di mettere l'avviso vietato ai minori come sottopancia al suo show, al contrario di quanto capita con politici e portaborse di ogni risma liberi di dire impunemente qualsiasi oscenità.

Però mi sono sentita violentata e stamattina ho pianto come non mi capitava da un po'. Sarà colpa del ciclo o del climaterio incombente (femmina, pure anziana, eh lo so, triste destino nascere in Italia), ma non prevedo di rivederlo a breve.

Ho bisogno di bellezza, lo dicevo prima, e soprattutto di speranza. Cerco ogni giorno di vincere il dolore e la morte concentrandomi sui segnali di vita che vedo intorno a me.
Di sicuro lo farà nel suo privato anche questo comico quarantenne con la figlia e la compagna: per fortuna la realtà non ha mai una sola faccia. E so anche, o comunque lo immagino perché ci sono passata pure io, che perdere un genitore quando sei ancora abbastanza nelle pesti è un colpo piuttosto duro.

Le sue battute ciniche sul cancro ne allevieranno un po' la rabbia.
Solo che l'ha passata a me. 

E questo proprio non glielo posso perdonare.

domenica 12 marzo 2017

Libri, teatro e persone: che spettacolo!


E rieccomi qui dopo mesi e mesi. Vi sono mancata? Ne dubito.
Ho deciso di usare il mio vetusto blog per parlare di alcuni incontri davvero speciali.
La signora bionda sulla sinistra della foto che sta scrivendo un autografo a uno dei suoi numerosi lettori è Cinzia Tani. Quella a destra è Mirela Di Chiara, la libraia di Porto San Giorgio che mi ha permesso di conoscerla.
Come è stato possibile? Presto detto. La scrittrice e giornalista romana (ma, ho scoperto, con sangue abruzzese nelle vene) era stata invitata a presentare il suo nuovo romanzo "Il Capolavoro" nel Mondadori Bookstore gestito dalla mia amica, a sua volta coinvolta in "Libro, che spettacolo!", una manifestazione nata dieci anni fa per promuovere la lettura e il teatro.

A mancare nell'immagine è proprio l'ideatore dell'iniziativa, ossia Pier Paolo Pascali, il funzionario dell'Associazione generale italiana dello spettacolo, che ha aperto il pomeriggio con Cinzia.

Il momento che ho immortalato è però successivo all'incontro da Mirela.
Dopo un aperitivo tanto buono quanto rapido, noi tre donne siamo corse in negozio per recuperare i libri da portare nel foyer del teatro comunale, giusto dieci minuti prima che il fantastico Pier Paolo prendesse la parola sul palcoscenico per presentare di nuovo Cinzia, cui era affidato l'arduo compito di spiegare in dieci minuti in che cosa consistesse il suo nuovo libro.

Sono rimasta attaccata alla parete in fondo alla platea per vedere come l'avrebbe fatto.
Ho cercato di carpire ogni parola e gesto di questa donna alta e longilinea dal sorriso energetico.

Cinzia è partita dal 1947, l'anno in cui si apre il romanzo, scelto, guarda caso, anche dalla compagnia di Davide Anzalone per la propria, originalissima, rivisitazione di "Arlecchino servitore di due padroni".

L'Italia è un paese piccolo e stanco, capace però inspiegabilmente di partorire ancora menti vivaci e generose.
"Zanza" era venuto in libreria per parlare del suo "Arlecchino", dicendoci che è giunta l'ora di tornare al racconto corale: basta con tutti questi monologhi tristi.

Non ho avuto il tempo di parlarci, ma ringrazio tanto anche lui per il coraggio con cui porta in scena le sue braccia svirgolanti e la sua straordinaria simpatia. Bravissimi davvero tanto anche i suoi attori.

Mi fermo perché vorrei evitare di scadere nella retorica.

Concludo solo dicendo di aver imparato molte più cose in un pomeriggio/sera di quante ne ho apprese in anni e anni da blogger.

Ed è questa una delle ragioni per cui ho diradato moltissimo i miei scritti ombelicali.

Ho capito di avere bisogno di accumulare vita per poter scrivere in modo diverso.

Per poter fare sul serio.

Mio padre oggi mi ha detto una frase bellissima: "Il vento sta girando e finalmente è a tuo favore".

Non so se sia un suo auspicio di padre e basta, ma comunque mi ha fatto molto bene sentirlo da lui.

Farò di tutto per assecondarlo, caro papà.
Dovunque mi porti.

Vi lascio con una canzone dei Simple Minds che accompagna molte mie corsette di questi giorni (a proposito: correre, che gran cosa).

Qualcuno arriverà, qualcosa accadrà.

In summertime.


martedì 24 maggio 2016

Fermo 85 e il saggio di fine anno... buono per tutte le stagioni!

Il gruppo di zumba della Asd Fermo 85 parteciperà al saggio
di sabato prossimo al Palasavelli di Porto San Giorgio

Mese dopo mese, stagione dopo stagione, è quasi finito il mio enne... anno con la Fermo 85, l'associazione sportiva dilettantistica, come si dice in gergo, che da oltre trent'anni educa allo sport e al sano uso del corpo generazioni di fermani.
Ho praticamente imparato a memoria l'incipit che ho scritto sopra, perché ci credo davvero. L'ho sperimentato giorno dopo giorno, da metà settembre a metà giugno, facendo ginnastica con Rita Sacripanti, Tiziana Bastiani e qualche volta anche con Francesco Catini, l'istruttore di zumba.

L'ultima disciplina, amatissima dalle ragazze che vedete nella foto sopra (e pure da un paio di simpaticoni del cosiddetto sesso forte e la medesima bionda Tiziana) parteciperà sabato prossimo, a partire dalle 21, al saggio di fine anno al Palasavelli di Porto San Giorgio

Da quel che ho capito, si tratterà di un'esibizione a base di ritmi latini-arabeggianti-rappeggianti (questa è zumba, per chi non la conoscesse) di circa cinque minuti.
Il gruppo, coloratissimo ed entusiasta, sta provando i passi e la disposizione sul palco proprio in questi giorni, subito dopo le lezioni di fitness del lunedì e del giovedì che frequenta abitualmente la sottoscritta.
Devo ammettere che mi sta salendo la curiosità: non vedo l'ora di assistere al loro numero e di bombardarli (oddio, di questi tempi è meglio non usare una parola simile...) di fotografie

Tra gli scatti dell'inverno scorso effettuati in occasione di Intanto, la mostra collettiva natalizia di Fermo, sono stati infatti proprio quelli durante la lezione di zumba che mi hanno divertita di più.

Ma, al di là dell'affiatato gruppo di "zumbere/zumberos", come si chiamano gli aderenti alla fittissima chat di whatsapp di cui, senza alcun merito, faccio parte pure io, sabato sera al Palasavelli sarà possibile assistere alle esibizioni delle nuove leve di ginnaste e ginnasti della Fermo 85 e c'è da scommettere che ci sarà da da intenerirsi, divertirsi e credo anche sorprendersi.

Di seguito vi riporto l'elenco completo dei protagonisti del saggio
- direttamente dai corsi di ginnastica formativa di base della palestra Coni, i gruppi 3/4 anni, 5/6 anni, 7/10 anni;
- dai corsi avanzati della palestra Fgi (ossia l'altra, quella vicino alla pista d'atletica, per i fermani) i gruppi 5/6 anni, 7/10 anni e scuole medie e superiori;
- dal settore promozionale alla Fgi i ragazzi della prima fascia (scuola primaria), seconda (medie) e terza (superiori);
- dal settore agonistica maschile e femminile ragazzi della palestra Fgi;
- e per finire (almeno credo sia alla fine...) zumba!

L'ingresso al saggio è libero.
Ed è inutile dirvi che vi aspettiamo numerosi sabato e magari il prossimo anno direttamente in palestra!

giovedì 31 marzo 2016

Il guizzo dei pesci, dal film di Alessandro Valori alla mia vita



Come saltano i pesci di Alessandro Valori è un piccolo film ambientato nelle Marche, per la precisione a Porto San Giorgio e Amandola, sulle pendici Monti Sibillini.
Sapevo del debutto nelle sale italiane previsto proprio oggi e, per una volta, ieri sera mi sono servita del mio tesserino per partecipare all'anteprima locale organizzata nella multisala di Fermo.

Mi ha molto colpito la partecipazione di massa di amici, parenti e autorità, ma su tutto ho apprezzato la leggerezza dell'atmosfera e, tutto sommato, anche della pellicola.

Senza lanciarmi in una recensione dettagliata (nella quale, inevitabilmente, scriverei anche quello che non mi è piaciuto), posso dirvi che il film scorre e che, se per caso doveste vederlo, non credo che vi addormenterete.
Anzi: è particolarmente simpatica la ragazzina "con il cromosoma in più", come dice la medesima attrice affetta dalla sindrome di Down, Maria Paola Rosini, che interpreta il personaggio di Giulia.

Altrettanto azzeccate le due vicine di casa della maestra Anna, morta nell'incidente stradale incipit dell'intera storia: si tratta di due signore che parlano nel vernacolo locale, vagamente italianizzato in modo da renderlo comprensibile anche al di fuori dei confini fermani.
Per certi aspetti, mi ricordano le zie della mia famiglia, anche se le stesse, come sapete, vivono piuttosto al di sotto del fiume Tronto.

In tutti i modi, avevo voglia, ve lo dico apertamente, di celebrare in qualche maniera la mia scelta di vivere in questa provincia d'adozione non proprio facilissima per una persona come me.
I locali, come succede in tutte le province italiane, fanno abbastanza gruppo a sé ed entrarvi non è proprio agevole.

Io, poi, sono piuttosto esigente, in fatto di gusti e di relazioni. E in generale, in qualsiasi posto, un conto è andarci in vacanza, un altro è viverci.

Detto questo, il mare, con quell'azzurro da medio adriatico che mi è così familiare, è proprio quello lì che appare sul grande schermo. E anche se non è più pulito del pezzetto lungo il quale sono cresciuta, anni e anni fa, mi piacerà sempre. Idem il porto e le barche che beccheggiano sotto il sole del luglio scorso, il mio primo luglio a Lu Portu (intervallato dai lunghi giorni teatini: sarà per questo che non mi sono accorta che stavano girandovi un film: alcune riprese sono state fatte a due passi dal palazzo in cui vivo).

A distanza di quasi un anno dal mio trasferimento sulla costa, non sono cambiate moltissime cose, ma vi garantisco che ogni volta che approdo nella stazione sangiorgese (anche l'ultima volta, che arrivavo da Venezia), io mi sento a casa.

Speriamo solo di passare dai sentimenti ai fatti, un giorno o l'altro.

Di avere quel "guizzo" con cui i pesci saltano fuori dalle reti dei pescatori per ributtarsi nel mare-lago della mia vita.

Buona fortuna, piccolo film.

E per quanto riguarda me, salterò dalla rete, o sì se lo farò.

venerdì 11 marzo 2016

Sibilla Aleramo e Dino Campana, un incontro a Porto San Giorgio carico di domande. Aperte



L'incontro al Teatro di Porto San Giorgio sulla storia d'amore tra Sibilla Aleramo e Dino Campana è partito con spezzoni del film Un viaggio chiamato amore con Laura Morante e Stefano Accorsi. A sceglierlo, gli organizzatori del terzo dei quattro appuntamenti chiamati  I giovedì dell'arte, un ciclo di lezioni voluto dai Licei artistici di Fermo e del paese ospitante.
Accorsi, ve lo confesso, non mi piace granché, per cui è probabile che abbia alzato il sopracciglio (destro o sinistro) senza accorgermene. I pregiudizi sono una brutta bestia, difficile da domare, ma quel poco di sale in zucca che mi è rimasto ha permesso al resto del mio corpo di restare incollata sulla sedia della platea del bel teatrino e di mettermi in ascolto.

Sinceramente: le lettere che la Aleramo scrisse durante l'anno d'amore con il poeta tosco-emiliano (lette dal vivo da Carla Chiaramoni) mi sono sembrate sciocchine, non troppo dissimili da quelle che potrebbe scrivere qualsiasi persona molto innamorata. Eppure, il loro legame, giunto in una fase della vita di questa donna affascinante e contraddittoria, morta nel 1960 a 84 anni, è assai letterario. Inevitabile, insomma, che se ne ricavassero film e che si moltiplicassero emuli di ogni risma.

Le poesie di Dino Campana, poi, o almeno, quelle lette (da Carlo Pagliacci) durante la lezione, mi sono sembrate bellissime. Non ne avevo idea, sono sempre più ignorante, per cui bene così.

Ho trovato molto brava, come già l'anno scorso a Belmonte Piceno, Sabrina Vallesi, la professoressa moderatrice: spero davvero che stia allevando almeno qualche fiore speciale tra i suoi studenti.
Ad averne di prof così.

In sala c'erano rappresentanti di tutte le generazioni, dai liceali alle signore dell'Università dell'educazione permanente e del tempo ritrovato di Grottazzolina: piccole perle di vita di provincia, di quelle che ti fanno dimenticare, almeno per qualche ora, problemi presenti e futuri.

Nota a margine sul poeta fermano Franco Matacotta, di cui lungo conoscevo solo la lapide sul corso cittadino, all'altezza della sua abitazione: doveva essere un bell'opportunista, di quelli con la O maiuscola, almeno stando alla lettera di addio che gli scrisse la Sibilla.
Certo: sarebbe facile malignare sulla quarantennale differenza d'età tra loro (lei, naturalmente, la vecchia della coppia), ma se è vero che il nostro vip locale sottrasse le lettere tra la scrittrice e il poeta orfico non è che ci faccia proprio una gran figura.

Davvero: non ne so nulla, per cui mi limito a queste impressioni a caldo.

Mi domando, in ogni caso, se le multi-relazioni di questa antesignana del femminismo non siano dipese anche dalla violenza dalla medesima subita a soli sedici anni, dall'uomo che poi le famiglie costrinsero a sposare. Da quel che ho capito, non si trattò di un episodio isolato, per cui non oso immaginare quanta sofferenza si possa accumulare giorno dopo giorno, anno dopo anno.

Dino Campana stesso, affetto da seri disturbi mentali, finì per essere accecato da gelosia morbosa e, manco a dirlo, di nuovo violenta, al punto che la scrittrice visse reclusa in un paesino alle pendici della Val di Susa per tentare di non vederlo mai più.

Antesignana del femminismo, certo, ma anche costretta ad abbandonare il figlio pur di allontanarsi dal marito-padrone. Sibilla non lo vide mai più: quanto una scelta del genere finisca per segnarti nessuno può saperlo.

Insomma: l'incontro di ieri mi ha lasciato svariate domande aperte.

Un giorno, forse, leggerò Una donna, l'autobiografia di Sibilla Aleramo, il cui cognome, ho scoperto da un pezzo della Ventisettesima Ora del Corriere della Sera, è l'anagramma di amorale, come questa signora (che nella realtà si chiamava Rina Faccio, era di origine alessandrina, ma girovagò tra Civitanova Marche, Milano, Firenze e poi Roma), scelse di chiamarsi.

Amorale non significa, ovvio, immorale.
A me dà l'idea che, invece, una morale ce l'avesse eccome.
La morale della libertà, con tutte le conseguenze che la medesima comporta.

Mi piace pensare che i suoi multi-amori abbiano placato almeno un po' il vuoto che più o meno ci afferra tutti. Sarà stata almeno qualche giorno davvero felice?

Non dò risposte. Non ne ho.
Buone domande a voi, amici.

venerdì 22 maggio 2015

Operai versus proprietari: l'eterno incontro-scontro tra mondi paralleli





In italiano l'hanno tradotto come La casa dei nostri sogni: ed è questo il motivo per cui, nei mesi scorsi, non riuscivo a trovare neanche uno spezzone di questo film, uno dei miei preferiti da almeno nove anni a questa parte.
L'abbiamo visto insieme, il Bipede ed io, forse addirittura ai tempi di Milano, quindi in un periodo ancora più lontano rispetto agli anni che ho appena indicato.

Di sicuro ne ricordo una visione ai tempi di quella che noi chiamiamo "la casa del vecchio", intendendo con quest'espressione la minuscola abitazione di Porto San Giorgio, infestata (ESTERNAMENTE) da simpatici roditori.
Non dimenticherò mai il giorno in cui, incontrando per le scale sudicie il padrone di casa, gli dissi: "OK, taglio io il glicine, ma se dovesse ricapitare, chiamo la Asl".

A cosa mi riferivo? Al reperimento del cadavere di uno dei suddetti simpatici roditori (un rattus norvegicus, secondo un nostro enciclopedico amico) nel box-lavanderia ricavato sul balcone, nel quale avevamo piazzato la rete per gli ospiti.
Sono un tipo ansioso, vero, ma tutto sommato, per i parametri femminili, non isterico.
In quel caso ebbi una vera e propria crisi di nervi.

Ma torniamo ai signori Blandings e alla loro casa nel Connecticut, ardentemente voluta da entrambi pur di liberarsi dell'affitto e della vita frenetica di New York.
Le analogie con la nostra attuale situazione sono davvero poche, ma una, evidente, è proprio nella scena che ho linkato sopra, ossia il rapporto tra i futuri proprietari e gli operai.

Allora come oggi leggi nei loro occhi una sorta di malcelato disprezzo per la tua totale imperizia tecnica.
Sembra quasi che ti dicano: ma qui è un totale disastro, come t'è venuto penzato (dicono da queste parti) de compratte ssa casetta? Io pè me sto vene 'n cambagna senza nisciù 'ttorno.

E del resto è proprio vero che di tinte, canaline, attacchi dell'acqua e del gas, etc etc non sai praticamente un accidente. Sicuramente, tra i due, quello che ci fa la peggiore figura è il mio consorte: l'omo deve sapè di martelli, fili e tubi, mentre issu parla co' 'natru accentu e parrìa sthrano assai: fuma la pipa come poveru nonnu.




Non sono tanto brava a trascrivere la pronuncia del vernacolo dei miei conterranei d'adozione, una lingua, peraltro, che mi fa simpatia, ma trovo comunque "nderessande" l'incontro-scontro tra iende come me e il consorte, un po' intellettuali un po' imbranati, e loro, poco istruiti ma tanto, tanto pratici.

Non c'è scelta, insomma. Bisogna affidarsi e anche fidarsi, già. E soprattutto non dare istruzioni troppo complicate, perché, tanto, loro già sanno come muoversi (si vede bene nella scena sopra in cui la straordinaria Myrna Loy spiega con pedanteria borghese quali punti di blu, giallo e bianco vuole per le pareti delle sue stanze e di rimando l'operaio con la pipa commenta che le tinteggerà di blu, giallo, bianco e stop).

Quel che conta è tenere gli occhi fissi sull'obiettivo finale (e iniziale), ossia ricavarne un luogo in cui sentirsi il più possibile a casa, con tutte le differenze del caso (Mr Blandings è un danaroso pubblicitario di città, Mrs Blandings una ricca casalinga con colf annessa, mentre il Bipede ed io siamo due poracci diplomati/laureati con ridottissime ambizioni).

Che altro dire? Finita l'onerosissima imbiancatura, lunedì prossimo sarà il turno dell'elettricista e dell'idraulico.
Moccò stressande, sarrìa l'ora de finilla.

Ce rsendemo.
Buona jornata a tutti.

martedì 19 maggio 2015

La vita che cambia e le questioni dirimenti


Tra le questioni dirimenti (poi torno sull'aggettivo che ho appena utilizzato) del mio appartamento sangiorgese c'è la posizione degli attacchi dell'acqua (a sinistra, nella foto) e del gas (a destra, ibidem).
I giovani traslocatori cui abbiamo affidato l'incarico di incollarsi tutta la nostra roba (non poca, ahimè) sostengono che sia un problema risolvibile.
Voglio davvero augurarmelo, perché diversamente saremmo costretti a smembrare la linea della nostra economica ma funzionale cucina e detto sinceramente, in questo momento, non è proprio opportuno.

Tolti i logici problemi di ricollocazione di mobilia e oggettistica varia (la cyclette, per dire, dove la piazziamo?), non riesco ancora a credere del prossimo cambiamento che mi aspetta.
Stamattina raccontavo su Facebook (un luogo perfetto per lo sputtanamento-mascheramento di massa) della punta d'orgoglio provata ieri davanti all'impiegato dell'Enel, che nell'attivare il contratto, mi ha chiesto se fossi affittuaria o proprietaria.
Ebbene sì: ho scandito la parola pro-prie-ta-ria, prestando attenzione al suono della medesima.

Data la positività della sensazione provata, ho capito (se ce ne fosse stato ancora bisogno) che io alla proprietà privata ci tengo. Quindi che con il comunismo, Lenin, Trotskjj etc etc, io non ho niente a che spartire.
Il che, naturalmente, non significa che non presti attenzione ai bisogni/diritti altrui, ma è un semplice dato di fatto, per nulla dirimente: ho bisogno di mettere radici e di sentire che almeno un piccolo posto mi appartiene. E anche il contrario: che io appartengo al primo.

Solo con il tempo capirò se scatterà la seconda parte della faccenda, ma già solo per la prima valeva la pena spendere una certa quantità di denaro.
Come vivrò e di cosa vivrò nei prossimi anni, probabilmente avrò voglia di raccontarlo sempre su questo spazio. E perché ciò non diventi l'ennesima questione dirimente, mi basterà soltanto continuare a comportarmi come in quest'ultimo anno: sgombrando la testa da pensieri e attività inutili e concentrandomi più o meno solo su ciò che mi preme davvero.
Se non avessi fatto così, ora ne sono certa, non sarei mai riuscita a comprare casa.
E' stata dura e lo è ancora, ma accidenti come ci si sente meglio quando si vedono i risultati.

Veniamo all'aggettivo dirimente.
La prima volta che l'ho sentito usare è stato da una mia (amatissima) cugina. Non specifico volutamente chi sia. Mi limito al contesto.
Si stava parlando della tomba dei miei nonni materni che adesso ospita anche mia mamma. Era una crudele giornata d'estate, si trattava di firmare alcune autorizzazioni.
Morire costa un casino, sappiatelo.

Poi l'ho risentito su un tg e ho capito che è di moda (la cugina di cui sopra sta sul pezzo molto più di me, sempre ammesso che si usi ancora quest'orribile espressione gergale).
Da quel momento non me lo sono più scordato e ogni tanto mi torna in mente: quante sono le questioni dirimenti che ci capitano tutti i giorni?
Togliere o tenere le canaline, eliminare o meno i rosoni, dove piazzare i divani graffiati dai mici e il mitico divano letto di Francavilla sono altrettante, dannatissime, questioni dirimenti.

La sera crollo come un operaio dopo otto ore di cantiere. Però, a tratti, come adesso, sento il bisogno di scribacchiare e anche di leggere: inscatolando i libri, ho deciso di lasciare fuori Bel Ami di Maupassant. Mi butto su un classico, o almeno ci proverò, mi sono detta.

Sto cercando anche di non abbandonare l'inglese e la lettura di David Randall per un post semi-professionale che vorrei scrivere prima di non avere più la connessione.
E insomma: è la mia stessa natura a essere dirimente.
Da una parte vorrei (con tutta me stessa, ve l'assicuro) campare del lavoro per cui mi sono preparata (o di qualcosa di simile), dall'altra desidererei cambiare completamente vita, imparando a usare le mani (e il fisico, per i pochi anni che mi restano prima della decadenza) per fare qualcosa di pratico.
Sono convinta proprio che gli esseri umani siano fatti per alternare l'uso di cervello e corpo, mescolando, se possibile, le funzioni dell'uno e dell'altro.

Sono altrettanto convinta che non sia facile usare entrambi nel nostro mondo del lavoro, ma chi è dotato di una buona dose di materia grigia (di cultura, anche) e di salute, in qualche maniera dovrebbe sfangarla. O per lo meno me lo auguro.
Per anni sono stata condizionata dall'ansia: sono abbastanza convinta che se non ne fossi stata così preda ai tempi del mio anno solitario a Milano, la mia vita di oggi sarebbe molto diversa.

E' altrettanto certo che guardarsi indietro non serve a nulla. E anzi, a proposito di corpo, il mio stomaco che gorgoglia  mi ricorda che è il caso che lo riempia un pochino.

Con tutte le frustrazioni e i nei del presente, per farla breve, sono contenta di stare dove sto.
Però se vi serve un correttore di bozze, uno (una) scorticatore (trice) di ruggine, una stiratrice abbastanza capace e una specie di coacher motivazionale de noantri, io ci sto.
Come si dice negli annunci, però: AAA astenersi perditempo.

;-)
Alla prossima cronachetta (mutuando il titolo dai libri di Giacomo Nanni).