Visualizzazione post con etichetta Italia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Italia. Mostra tutti i post

mercoledì 13 ottobre 2021

AAA: Madamatap è tornata... E cerca lavoro!


Riassumendo: da inizio luglio sono tornata in Italia. Definitivamente.

Mi sono accorta da vari segnali sui social che un sacco di miei conoscenti non l'aveva capito. 

Non che ci tenessi, evidentemente, a mettere i manifesti.

Avevo bisogno di riprendere confidenza con il mio Paese, la mia cittadina adottiva (Porto San Giorgio) e quella natale (Chieti).  

Tutto qua. 

E però, finita l'estate da un momento all'altro (ma proprio letteralmente: ho fatto il bagno l'ultima volta il 4 ottobre), mi sono resa conto che, se non proprio i manifesti, almeno qualche piccolo poster bisognava pure che lo appendessi. 

E sì, perché ho bisogno di lavorare e, come immaginavo già da prima di tornare (anzi: già da prima di trasferirmi a Vienna), il lavoro qui (particolarmente qui, ma anche oltre confine, ve l'assicuro) lo si trova più facilmente per conoscenza diretta.

Ovviamente, non sto parlando di raccomandazioni (se fosse così, non avrei bisogno di scrivere questo post): sto parlando proprio del classico passaparola.

Ecco. Più di qualcuno adesso si starà domandando, come ai vecchi tempi, "che cosa vuoi fare?". 

Darò una risposta probabilmente scontata, ma è l'unica che mi viene in mente: "Tutto". 

Specificando un po' meglio, tutto quel che il mercato del lavoro mi darà la possibilità di fare quando me ne darà l'occasione. 

Ad insegnarmelo, è stato il passaggio in Austria, dove mi sono trovata a sperimentare la doppia vita di lavoratrice dipendente con contratto a tempo indeterminato e di disoccupata con sussidio continuativo. 

Gli inizi, dell'una e dell'altra esistenza, sono stati complicati per via della limitata conoscenza del tedesco e del rigido protocollo da seguire.

Una volta sistemata la burocrazia, tutto è poi filato liscio fino all'ultimo giorno. Gli asburgici hanno finito di versarmi ad agosto di quest'anno tutto quel che mi spettava, fino all'ultimo centesimo. 

Finché sono stata lì, in cambio l'Agenzia del lavoro (chiamata Arbeitsmarketservice, in sigla AMS, temutissima da me, quando la vedevo lungo le ciclabili con quei caratteri cubitali in blu e rosso) mi ha chiesto solo di mostrarmi attiva nel mio desiderio di reinventarmi un futuroCome l'ho fatto? In primo luogo, ho frequentato due corsi di lingua tedesca incrociandoli con gli incontri con le consulenti specializzate nel supporto al lavoro al femminile

Sulla mia strada ne ho incontrate tre, più una quarta che è stata quasi un'amica, e varie altre figure di contorno, compreso il simpatico turco, Taylan K., ex giornalista laureato in Scienze Politiche come me, che mi ha parlato di Berlusconi. 

Della prima consulente, ho già scritto qui, come forse qualche amico lettore ricorderà. Ai tempi stavo per sostenere il mio esame B1 di tedesco e pensavo di potermi candidare anche per posizioni, diciamo così, più basic: a detta della consulente, avrei potuto provare a fare la commessa in qualche negozio italiano del centro, dato che, a suo dire, l'austriaco parlato da una figlia della terra do' sole è considerato "charmant". 

Tutto questo succedeva quando il Covid era già tra noi e i negozi, compresi quelli che mi avrebbero dato (forse) della charmant, erano chiusi o stavano per farlo. Idem per i musei, dove ho tentato di candidarmi per fare la sorvegliante (Museumsaufsicht, ricordo ancora la dicitura che inviavo all'AMS nei report periodici sulle mie candidature). 

Per fortuna, il sussidio era sempre lì a sostenermi, per cui, tra una foto alle pipe di mio marito e l'altra, ho continuato a tenere duro.

Soprattutto, sono andata avanti con lo studio del tedesco, ottenendo anche il B2 alla vigilia della, credo, seconda ondata viennese e relativo lockdown. 

Salto qualche passaggio per arrivare alla prima parte di quest'anno, quando ho conosciuto le altre due consulenti.

Katarzsyna S. è una quarantenne di origine polacca, con occhiali ed espressione bonaria su viso rotondo e fisico solido. La prima volta ci siamo viste su Skype. Non sapendo che cosa aspettarmi, per l'incontro mi ero messa persino il rossetto.

Lei, invece, indossava una felpa oversize, sfoggiando anche una grossa pinza nella quale aveva raccolto i suoi lunghi capelli chiari. 

Abbiamo chiacchierato a lungo, mi ha parlato di Freude, gioia, in quello che si fa per campare, di Beruf, lavoro nel senso di professione, mestiere, impiego e Berufung, vocazione, sottolineando quanto sia importante fare qualcosa che ci somigli, come si dice. 

Io la guardavo con rispetto, questo sì, ma anche con un pizzico di perplessità, non per le sue belle e rassicuranti parole (intervallate da materni Frau Cicalini, pronunciati sempre con grandi sorrisi), ma per le reali probabilità che dalle sue belle parole la sottoscritta potesse arrivare un giorno ad avere un nuovo lavoro, pagato, ovvio, ma anche foriero di gioia. 

Con Kate ci siamo viste online almeno altre due volte. Indimenticabile quella in cui, di ritorno dall'Italia, il Bipede ed io siamo stati accolti dal riscaldamento rotto. In vista del mio appuntamento con lei, mi sono lavata almeno i capelli, scaldando le pentole sul fuoco. A pochi metri da me, dall'altra parte dello schermo del mio computer, stazionava il proprietario intento a discutere con l'idraulico su come rianimare la caldaia defunta (e per fortuna alla fine sostituita con un modello endlich, finalmente, moderno).

Ma dello scrauso ho già parlato, quindi andiamo avanti.

L'ultimo incontro con Kate è avvenuto di persona. Di persona personalmente, avrebbe detto Catarella.

Era fine maggio, la decisione di rimpatriare era già stata presa, ma lei ci ha tenuto comunque a incontrarmi. Ci ha tenuto perché? Forse le ero anche un po' simpatica - con gli estranei faccio spesso la giullare - ma credo che in verità il motivo fosse un altro. Il fatto era che tra le consulenze alle donne disoccupate la sua società prevedeva anche le passeggiate in natura a due, o in gruppo. 

Ok, le ho detto via mail, vediamoci pure. Posto prescelto per il Berufungsausflug (me lo sto inventando adesso: vorrebbe dire qualcosa del tipo gita motivazionale) il parco di Schönbrunn, il mio posto del cuore a Vienna.

Mi ha parlato dei suoi nonni polacchi e del fatto che non fossero stati contenti che i genitori la portassero a vivere proprio nella terra dei nemici di un tempo. Kate alla fine si è inserita, ci ha messo un po', ha precisato, ma alla fine di Vienna le piace, le piaceva, la Gemütlichkeit, la tranquillità. Per lei, mi diceva mentre camminavamo, da sempre abituata ad andare a mille (un periodo si era pure lei trasferita all'estero, non mi sovviene dove, forse il Canada), Vienna è insomma un posto dove non c'è alcun motivo per correre. L'ho ascoltata con sincero interesse, anche quando sosteneva che gli italiani fanno più fatica degli stranieri provenienti da altri Stati, a inserirsi in Austria. Un po' come noi polacchi, mi è parso di cogliere tra le righe. 

Sia come sia, lieta di come si era svolta la nostra camminata motivazionale, alla fine le ho chiesto se potevamo scambiarci gli indirizzi

Le ho scritto io pochi giorni dopo per mandarle una foto, poi non ci siamo sentite mai più.

Non importa, è giusto così, però io dovevo mandarle quello scatto così straordinario.

Mentre eravamo intente a vergare i nostri indirizzi sedute su una panchina, a pochi metri da noi gironzolava una volpe, rossiccia e quieta, perfettamente a suo agio tra noi e gli altri umani che passeggiavano per il parco e che naturalmente avevano preso a fotografarla.

Kate, che credeva un po' nello sciamanesimo o in qualcosa del genere, mi ha parlato di quell'incontro tra noi e la bellissima quattrozampe come di un segno. Non saprei dire di che cosa, ma è comunque un ricordo che porterò per sempre con me, insieme con le sue parole sul mio valore. Non dimenticarti mai chi sei e quanto vali, mi ha detto. Grazie ancora, Kate, qualunque cosa tu stia facendo adesso, chissà se davvero sempre a Vienna. 

Tolto il momento amarcord, mi tocca arrivare al punto nodale di questo lunghissimo post.

Dicevo che le consulenti che ho conosciuto erano tre.

L'ultima, solo in ordine cronologico, è Bettina H. Se oggi sono qui finalmente a casa mia, lo devo infatti essenzialmente a lei.

Giornalista di formazione e presumo di professione, l'ho scovata scoprendo per caso il progetto di reinserimento al lavoro dei pennivendoli come la me di un tempo, chiamato Ajour.

Finanziato anche questo dall'AMS, ho potuto accedervi sempre perché ho lavorato (come speaker di una radio in store finanziata dal gruppo Rewe) con un contratto superiore a dodici mesi e perché sono munita di una qualifica professionale, che evidentemente riconoscono anche lì. 

Per essere inserita nel progetto, ho sostenuto un colloquio con un collega presumo pensionato, un austriaco anziano dal fisico da camminatore di montagna e giacca di tweed marroncina.

Molto simpatico, molto giornalista vecchia scuola, mi ha accolto in una specie di Circolo della stampa non troppo dissimile da quello milanese: ci siamo capiti, avevo in effetti già in testa di rientrare in patria e ho apprezzato tantissimo il tempo passato insieme a spulciare sul web le aziende austriache che hanno contatti con l'Italia.

Salutandoci, mi ha allungato il depliant più dettagliato del progetto Ajour ed io ho notato che tra i loro consulenti c'era anche uno psicologo. "Ci sono molti colleghi che ne hanno bisogno", mi ha spiegato rispondendo a una mia domanda vagamente ironica sulle ragioni che li avessero spinti a prevedere un supporto del genere. Ho smesso immediatamente di fare la stupida, ho ringraziato e mi sono messa in attesa della chiamata della collega che parlava italiano.

"Ha avuto un culo mondiale", mi ha detto questa signora di cui non ricordo più il nome. "Si è liberato un posto con la nostra consulente Bettina H. che potrà seguirla almeno fino a fine giugno".

Ottimo. Conosciamo anche Bettina, mi dico.

Capelli grigi su viso florido, Bettina si è palesata su Zoom un pomeriggio imprecisato tra aprile e maggio, scuro e minaccioso.

Ho sempre avuto un problema di punti luce, in pratica in tutte le case in cui ho abitato. Chissà che cosa avrà pensato di me, Bettina, vedendomi illuminata di giallo itterizia.

Qualunque siano stati i suoi pensieri, mi ha chiesto di descriverle che cosa avessi fatto durante la mia vita lavorativa: è andata abbastanza nello specifico. Mi ha chiesto persino quanti lettori ho su questo blog, un dato che, naturalmente, ignoravo e ignoro tuttora.

Rammento di essermi sentita un po' a disagio: perché insiste così, mi domandavo, perché vuole sapere tutte queste cose?

La mia faccia doveva parlar più chiaro delle mie parole in tedesco, perché a un certo punto Bettina mi ha fatto la domanda delle domande: "Ma tu - perché Bettina mi dava del tu a differenza delle altre due consulenti - dove vuoi vivere: qui o in Italia?".

Risposta secca, dopo una piccola pausa drammatica: "In Italien".

"Allora dobbiamo fare tutto un altro ragionamento", ha considerato lei.

Con Bettina H. abbiamo stabilito il calendario dei successivi incontri, fino all'ultimo di fine giugno, in cui ci siamo viste per un semplice caffè virtuale, dato che a quel punto avevamo ormai già impacchettato tutto. 

La seconda volta, invece, Bettina mi ha messo al centro del foglio che vedete sopra.

Alessandra kann, Alessandra può, e mi ha aiutato a tirare fuori una per una le mie competenze e attitudini. Ho conservato quel foglio fino ad oggi perché sapevo che un giorno ci avrei scritto qualcosa.

Chi conosce la lingua non ha bisogno che mi metta lì a tradurne le singole voci, per tutti gli altri posso giusto riassumerne il senso generale.

Alla Obama maniera, anche io, come tutti noi, posso, possiamo, essere protagonisti delle nostre vite

L'importante è crederci davvero, profondamente. Con fiducia e determinazione

Perché se non ci crediamo noi, difficilmente ci crederà qualcun altro.

Su questo concetto, all'apparenza banale, ci lavoro tutti i giorni, con una convinzione sempre maggiore, prestando bene attenzione a non intristirmi eccessivamente o, peggio, ad autocommiserarmi. 

Allenarsi a credere davvero in se stessi implica anche circondarsi di persone positive, ma imparare a riconoscerle è un'operazione che richiede antenne dritte, molto buonsenso e zero buonismo. 

Non vedo l'ora di potervi raccontare gli sviluppi. 

Madamatap è tornata. Più Tap e Madama (ho svoltato i 50, non ci posso credere!) che mai. 

Ah, dimenticavo: il curriculum che vedete sotto è stato tradotto dalla sottoscritta dal tedesco all'italiano. L'impaginazione è rimasta all'incirca quella che aveva impostato la prima consulente, quella che mi parlava di charmant (Kate aveva provato a sua volta a stilare una seconda versione con un lunghissimo primo foglio di sintesi, ma il suo tentativo non ha entusiasmato Bettina, per cui alla fine l'ho accantonata e mai più ritradotta).

I colori, invece, sono stati aggiunti da Michaela R., una quarta consulente che ho conosciuto ai tempi dei miei corsi di tedesco, una donna dagli occhioni blu alta e longilinea, amante delle passeggiate in bicicletta, che mi ha dato a sua volta ottimi consigli, pratici ma non solo.

Per questo e per molto di più mi sento molto fortunata.

Basterà solo mettersi davvero in gioco e tutto andrà come deve andare. Dateci dentro con segnalazioni di qualità, daje!

E, in ogni caso, bis bald, a presto, e grazie del sostegno.











mercoledì 9 giugno 2021

Il bagaglio di chi torna, carico di esperienze. E di nuove pipe!

Forse dovrei scrivere questo post a vaccinazione avvenuta. Mi ero per la verità prenotata qui a Vienna in tempi non sospetti, tipo ad aprile, su suggerimento dei miei contatti austro/italiani che mi avevano assicurato la celerità della procedura. E invece. Invece ciccia: non mi hanno chiamata e a questo punto non mi resta che attendere... il rimpatrio definitivo!

Ebbene sì, amiche e amici: Madamatap e la sua sosia umana, con consorte e felini, se ne tornano a casa presto. Molto presto.

Il bagaglio di esperienze accumulate in questi lunghissimi e insieme cortissimi tre anni è enorme.

Sono sicura che non li dimenticheremo mai.

Torniamo, tuttavia, al Covid e a tutto quello che ha portato con sé.

Penso in particolare alla rinata vena artistica della sottoscritta (credeteci: parlo seriamente. Ma molto seriamente) che ha trovato la sua massima espressione nella mostra virtuale Die Corona - Pfeifen. Ve la ricordate tutti, no? Come dimenticarla. 

Ebbene. Non ce l'ho fatta a smettere: ho dovuto per forza (me l'ha richiesto, capite, l'Arte, con la A maiuscola) aggiungere un'appendice o, se vogliamo, un epilogo trionfale che rappresentasse insieme l'uscita (SI SPERA) definitiva dalla pandemia e il rientro (ah, che sollievo) in patria.

La struttura di quest'appendice finale, composta di sole due sezioni, è identica. 

Bando, dunque, alle ciance. Squillino le trombe, rullino i tamburi...

Signore e Signori, sehr geehrte Damen und Herren! Ecco a voi... 

die Corona - Pfeifen Special Edition! Viel Spaß (buon divertimento)!


Dosen (Lattine)


























 

Blumen (Fiori)






















Come nella serie originaria dell'imperdibile esposizione, anche gli scatti delle sezioni conclusive sono stati tutti pubblicati originariamente sul mio stato WhatsApp

Stavolta il bipede fumatore di pipa ha avuto un ruolo meno attivo, soprattutto nella seconda delle due, nata, diciamo così, un po' casualmente da un bocciolo reciso dai dentini aguzzi della nostra sterminatrice di fiori, altrimenti nota come gatta Bice.

Eppure, come sempre accade, dietro la mano di una grande artista (un tempo lo si sarebbe declinato al maschile. E che ci volete fare: i tempi sono cambiati), si nasconde sempre un grande uomo. 

Grande (benché smilzo. Anzi: Smilzo) e rassegnato ad assecondare la pazzie della rompiballe che gli sta affianco. 

Perché lo scrivo? Tra le altre ragioni, perché a lui è toccato andare a ripescare lo scatto che immortala la sottoscritta nella seguente plastica posa, suggello definitivo dell'esposizione maggiore:



Notate il calzino bianco, vero must - have della quarantena 2020, quella durante la quale era vietatissimo, oltre che pericolosissimo, mettere il naso fuori casa, figuriamoci indossare abiti più decorosi.

Permettetemi, in definitiva, un piccolo momento di amarcord per quei giorni andati, quando si cantava su balconi e terrazzi e si disegnavano arcobaleni.

Alles wird gut, dicevano da queste parti. Andrà tutto bene, scrivevate voi al di là delle Alpi.

Sapete che vi dico? 

Tolta ogni ironia, abbiamo fatto bene a pensarlo e a dirlo a voce alta.

Abbiamo fatto bene ad immaginare il giorno in cui, davvero, tutto sarebbe andato meglio.

Questo ho imparato qui a Vienna.

Bisogna dirselo e dirlo anche agli altri. E scriverlo. E ribadirlo.

Andrà tutto bene. Sempre. 

Qualunque cosa accada e accadrà, siamo vivi. Ed è bellissimo poter sperare ancora, per noi e per chi ci ha lasciato, ma continua a credere in noi. E ce lo fa sentire, nei fiori, nella pioggia, nelle lacrime, nelle risate, negli incontri e nelle parole che non ci aspettiamo. 

Avete tirato fuori i fazzoletti?

Ma no, ma non è il caso.

Godetevi ancora un momento la straordinaria mostra e dopo...

arrivederci in spiaggia!

domenica 9 maggio 2021

Risvegliarsi e tornare, rinascendo ancora. Tanti auguri, mamma

 


Alla fine ne ho avvistato uno. Era nero, grigio e rosso, con un bel corpaccione. 
Nonostante i lunghi giorni di maltempo e l'impalcatura invadente, quando l'ho notato stava saltando sul ramo di uno degli alberi su cui, immagino per anni, lui e i suoi simili hanno continuato a costruire le loro tane.
Ho scoperto come sia fatto un picchio qui a Vienna. Prima, non ne avevo mai visto uno così da vicino. 
Ricordo di averne parlato su Facebook, una volta. Anzi: devo averlo fatto 
direttamente poche ore dopo la scoperta, conoscendomi. In fondo, mi piace condividere le belle notizie, come si dice in gergo social #cosebelle. Chissà se esiste davvero quest'hashtag o se me lo sono solo sognato.

Ho vissuto come in un sogno per quasi tre anni
Potrei dire in una specie di incubo, ma, sforzandomi di restare social (#thinkpositive), diciamo che qui a Vienna ho passato mesi più pesanti e altri più leggeri. 

Ricordo con piacere i primi giorni in hotel e le gite sul lago con i miei giovani colleghi. Nonostante le delusioni successive, professionali soprattutto, capisco solo adesso, al risveglio da questo lungo sonno agitato, che, di meglio, loro, per me, non potevano fare. 

Sarà per questo che ogni tanto ne sogno uno o me li vedo lì tutti insieme, garruli e felici. 
Solo su quelli più adulti tra loro faccio sogni meno lusinghieri, ad eccezione dello speaker di mezza età risposato con un'affascinante coetanea di origine moldava che non mi appare mai. Evidentemente, nonostante tutto il tempo passato dall'ultima volta che li ho visti, non riesco a farci del tutto pace.

Un giorno non lontano ci riuscirò, però. Adesso ne sono sicura.
Mi basterà chiudere per l'ultima volta la porta di casa, con i gatti (urlanti) al seguito e riprendere la via del mare.

Stavo per scrivere "vita" anziché "via". Un bel lapsus, degno dei concittadini di Sigmund. A proposito di Freud, mi sovviene in questo istante un ricordo cretino, di quelli che tiro fuori dal cilindro quando voglio sdrammatizzare. 

Le mie coinquiline dell'università avevano scritto un biglietto con una frase firmata "S. Freud". Non rammento assolutamente se fosse indirizzato a me o se me l'avessero solo mostrato. Fatto sta che io ne ho letto il contenuto a voce alta finché, arrivata alla firma, non avendo idea che cosa fosse quella S puntata, ho detto: "San Freud". Giù risate. 

Santo Freud mi sta proteggendo anche adesso, credo.
La madre è causa e origine di ogni cosa, anche se per le femmine dovrebbe valere di più il complesso di Elettra. E infatti, molto presto, dal padre, almeno in visita, tornerò.

Dalla madre, invece, mi sono dovuta separare ormai quasi sette anni fa, il 7 giugno di una giornata di quasi estate, dopo la strana invasione di vespe sul balcone di casa e altri presagi meno divini, successi più o meno un mese prima.

Al dolore per il distacco, all'epoca non so quanto davvero percepito come imminente, si mischiava anche una grande energia vitale, mia, di mia sorella, di mio marito e mio padre.
Tutti insieme l'avevamo accompagnata all'ospedale di Terni, per un intervento che ci avevano presentato, o forse eravamo noi che ci eravamo convinti che lo fosse, come risolutore.

La sera abbiamo mangiato in una pizzeria piuttosto anonima, di quelle che, probabilmente, avremmo scelto durante una vacanza di famiglia. Bisognava mantenersi calmi e, per riuscirci, probabilmente abbiamo parlato di inezie per tutto il tempo. L'animo meridionale sa essere anche molto compassato, quando vuole. O almeno: nella mia famiglia siamo melodrammatici solo in brevi, topici, momenti. Tutto il resto del tempo, dissimuliamo, sorridendo anche un po'.

Il sole al ritorno picchiava parecchio e la vecchia Micra nera di mio marito di certo non lo schermava. Con la mano attaccata alla maniglia in alto dello sportello, la mamma non ha detto neanche una parola. Era seduta davanti, io vedevo la sua schiena incassata nel giaccone scuro. Non so come facesse a resistere. 

Accanto a me doveva esserci papà, ma io non lo vedo, in questo momento. Anche lui, evidentemente, stava zitto. Parlava per noi il rumore del motore.
Di certo temevamo che quella vecchia macchina potesse lasciarci a piedi, forse evitavamo quasi di respirare perché ci portasse a destinazione.

Molti anni prima i miei avevano percorso quel valico appenninico, quel bellissimo valico tra l'Umbria e le Marche che avevo fatto molte volte pure io a bordo del pullman che mi portava a Firenze, per venire alla mia laurea. Nevicava. Papà l'aveva presa piuttosto male.

Come primo regalo, mia mamma mi aveva portato un bongo africano. Ce l'ho ancora adesso: l'ho usato nella mia casa di Porto San Giorgio come porta - lampada. Ora è in soffitta, in mezzo ai mobili da rimettere al loro posto, non appena torniamo.

Il sogno, a tratti più simile a un incubo, dicevo, sta infatti per chiudersi.
Con lui, anche le lacrime versate pregando per il meglio, stanno per esaurirsi. Finalmente.

Mi manca moltissimo mia madre, mi è mancata da pazzi la mia casa, i miei ricordi, la mia famiglia. Poco fa mi ha chiamato papà per farmi gli auguri per la festa della mamma.
Caro, tenerissimo papà, io non sono una mamma, ma ti ringrazio per gli auguri. Ho avuto una mamma speciale, che forse un po' mi ha reso comunque madre, creatrice di parole, almeno.

Dentro di me lei vive sicuramente e a mia volta io penso di essere rimasta in parte nel suo utero, per proteggermi da un mondo che, senza confessarmelo mai apertamente, mi è sembrato spesso troppo grande e ostile.

Eppure ho vissuto, come tutti. Con me porto la sua forza e il suo amore, quando mi ha spinta ad andare a laurearmi, per esempio, o quando, viceversa, mi ha rimproverato con asprezza per qualche mio comportamento che trovava sbagliato. 

Non sono perfetta, cara mamma, non lo eri anche tu, ed è meraviglioso sentirti ancora più vicina proprio per questo.

A te dedico queste parole, nel giorno della tua festa.

A me non resta che tornare. 
E ricominciare da dove ero rimasta. 
Ridendo anche un po'. 

domenica 28 febbraio 2021

Le donne, il lavoro e la gioia di fare ciò che ci piace

 


Ho scattato la foto che vedete sopra a una fermata dell'autobus che incontro quando vado a correre al parco di Schönbrunn.
Nei giorni seguenti ho scoperto che buona parte delle pensiline nel mio quartiere espone la stessa immagine.
Si tratta di una campagna a favore delle donne promossa dal Partito socialista austriaco, in vista dell'Otto Marzo.
Nel titolo in alto a sinistra c'è scritto: "Donne. Campionesse della crisi. Da sempre".

Lo slogan è semplice e facilmente condivisibile, almeno a parole.
Chi è che osa negare che le donne, noi donne, siamo state abituate da generazioni di madri e di nonne a gestire la quotidianità con tutte le sue grane come macchine da guerra?

A parole, dicevo, non c'è, credo, nessun partito che potrebbe affermare il contrario.
Nella scritta piccola in basso a sinistra, si specifica infatti che:
"Non è solo dal 2020 che noi donne ci opponiamo con tutte le nostre forze alla disparità di trattamento".

Intelligente, e per niente casuale, anche la scelta delle testimonial.
La giovane di pelle più scura è una mamma di due bambini, la bionda affianco, a occhio coetanea, una maestra elementare, la donna più matura un'assistente sanitaria (tipo, penso, le nostre Oss o badanti qualificate), la ragazza a destra una parrucchiera, definita per la precisione "lavoratrice autonoma".

Le quattro non sorridono, men che meno ammiccano. Hanno sguardi che ti scavano un po' dentro, a mio parere, come a dire: "Non arretreremo mai". Certo che no. 

Sono andata a leggermi il testo della campagna dell'Spö.
L'incipit recita: "La pandemia da Corona rende chiaro che le donne vengono ancora trattate sempre in modo diseguale". A loro, prosegue il testo, toccano i lavori peggiori, oltre al lavoro non retribuito di cura dei bambini e di assistenza ai malati. A ciò si aggiungono, si sottolinea, le esperienze di violenza subite già da prima della crisi attuale, ma diventate decisamente più visibili nell'ultimo anno.

Per tutti questi temi, asserisce la campagna Spö, è arrivato il momento di trovare rapide soluzioni e supporti adeguati alle donne colpite. Non solo: in vista della Giornata internazionale delle donne, si chiede un cambiamento di sistema. 

Da qui in avanti il testo si fa meno interessante, almeno per noi italiani abituati da sempre alle polemiche politiche, oltre che alla disparità di trattamento di genere.

Perché racconto questa storia? 
Ovviamente, perché mi riguarda, come donna e come straniera sbarcata in un Paese di cui non conoscevo nulla.

Vista dall'Italia, l'Austria sembra, o sembrava, una terra felice, ricca di opportunità.
Per qualcuno, e qualcuna, lo è davvero, lo è stata e lo sarà.

Sono certa, per esempio, che la ventenne afgana che ho conosciuto al secondo corso di tedesco, se non si mette a sfornare un bebè dopo l'altro, riuscirà a diventare una maestra d'infanzia, come diceva di voler fare.

Idem per la giovane bulgara, arrivata a Vienna un annetto fa, che con una laurea in tasca e molta attitudine allo studio (del tedesco, e non solo), di certo riuscirà a lasciare la cucina del pub dove lavava i piatti, per un lavoro migliore.

Andrà bene, credo, anche alla slovacca che voleva diventare infermiera, alla quale mancava solo il certificato B2 di conoscenza della lingua per potersi iscrivere a un corso triennale.

Idem succederà, penso, anche a chi di loro vorrà e potrà fare solo la mamma, perché nella maggior parte delle donne che ho conosciuto in quest'ultimo anno, ho visto comunque il desiderio fortissimo di mettere radici qui. Oltre ogni nostalgia per la patria lontana.

In tutto ciò, io dove mi colloco?
In comune con le compagne di corso, e con le signore della foto in alto, ho la determinazione a dare sempre il massimo.
Lo sa anche la mia nuova consulente del lavoro, che appartiene a una società di sole donne che cercano di dare un futuro migliore ad altrettante signore con alto profilo scolastico. E qualche anno in più sulle spalle.

Esemplare è anche la storia della suddetta consulente.
Di origine polacca, a occhio e croce, tra i trenta e i quaranta, si è trasferita qui da bambina con la famiglia. Nel nostro primo incontro si è presentata, raccontandomi del suo periodo all'estero, prima della decisione di tornare in quella che considera la sua patria per un lavoro più stabile, probabilmente, anche se non particolarmente ben pagato.

Di storie come la sua Vienna è piena. Gli uffici pubblici traboccano di signore con cognomi slavi, facile beccare anche qualche turca di seconda, o terza, generazione. 

Di italiane, nel grande mondo dell'Arbeitsmarketservice, ossia la mitica agenzia del lavoro che tuttora mi assiste (eh sì: ora mi assiste, sono ormai annoverata tra le disoccupate di lungo periodo), invece, pochissime tracce. Almeno fino a quest'anno. 

Tra i miei contatti, praticamente, non c'è nessuna che ha un'esperienza non dico uguale, ma almeno simile alla mia.
Un po' lo capisco. 
Il grosso delle mie connazionali lavora, o lavorava, nella ristorazione, da dipendente o titolare di attività, presumo con compagni e mariti. Ci sono poi le insegnanti di lingua, le artiste, le ricercatrici, e quelle che, magari, hanno un partner austriaco e/o varie proprietà in patria per cui il lavoro, o l'assenza dello stesso, non è un grande problema.

Dimenticavo le ragazze con una laurea tecnica e scientifica, come la giovane e simpatica napoletana, che, almeno l'anno scorso, prima dello smart working al quale è condannata da tempo immemorabile, era entusiasta della città.

Non ho dati statistici, insomma, ma a naso le italiane a Vienna, nel resto dell'Austria non so, sono giovani o se non lo sono più, hanno trovato qualche motivo davvero solido per restare oltre confine.

In qualcuno di voi, a questo punto, sarà sorta spontanea la domanda:
cara Madamatap, che diavolo ci fai ancora lì?

La risposta è sospesa, un po' come i caffè per i bisognosi e gli altri articoli che adesso si sono aggiunti alla lista delle necessità non più finanziabili.

Ringrazio però la consulente austro-polacca in particolare per un motivo.
Nel nostro ultimo colloquio mi ha suggerito di andare oltre il curriculum nudo e crudo, invitandomi ad interrogarmi su quello che mi dà gioia fare.

In tedesco si fa distinzione tra "Beruf", lavoro, nel senso di qualifica che si è raggiunta con studio e pratica, e "Berufung", che in senso stretto si traduce con "vocazione", in senso lato il mix di esperienze, interessi e attitudini personali, che fanno di ciascuno di noi un essere umano, una risorsa, se vogliamo chiamarla così, unica e insostituibile.

A questa domanda posso rispondere, o comunque non mi sottraggo.
Scrivere e fotografare. E poi leggere, studiare e correre. E conoscere la gente e farmi raccontare chi è e che cosa fa, provando a descriverla, e se possibile a illuminarla. 

E sti cazzi. Che fannullona
Ho anche qualche predisposizione al lavoro manuale, dimenticavo. Dovevate vedermi l'altro giorno, mentre aiutavo la mia amica austriaca a montare la poltrona dell'Ikea.

Ci metto però sempre del mio, con un'energia a tratti eccessiva (l'amica mi ha definita "hektisch", frettolosa. E meno male che la stavo aiutando, mortaccen suen. Però ci ha visto giusto, lo ammetto), per cui non credo sia il caso di farne parola con la consulente del lavoro.

Insomma, in un mondo ideale, una donna come me sarebbe perfetta in un sacco di contesti, soprattutto quando c'è da cazzeggiare in modo creativo, da prenotare viaggi (per l'Italia, soprattutto: ah sì, che bellezza), da sorridere garrulamente a più gente possibile. E da stringere qualche vite.

Dite che Vienna si accorgerà presto di questa perla matura (per usare un eufemismo)?
Staremo a vedere.
Basta andare avanti, a testa alta e la solita ironia, che non svanisce, nonostante tutto.

Ps W le donne!  

martedì 13 ottobre 2020

Auf Wiedersehen, Italia


 

Lo ammetto. Me lo sentivo che stavolta non ce l'avrei fatta, ma evidentemente la vita ha in serbo per me nuove sorprese. Belle, coinvolgenti e concrete sorprese. Voglio crederlo ciecamente.

Sto parlando della preselezione del Concorso Rai, la seconda sostenuta negli ultimi cinque anni. La prima mi era andata meglio: ero riuscita a superarla, piazzandomi alla fine di quella lunga cavalcata 210ma sugli iniziali circa tremila partecipanti.

Stavolta concorrevo per le Marche, quindici erano i posti in palio su circa 270 vincitori da distribuire anche in altre regioni.

Come i partiti di quattro gatti che non riescono a superare la soglia di sbarramento alle elezioni, ecco, stavolta pure io sono stata segata. E il bello che ho anche capito perché, anche se fino a mezz'ora fa ho sperato nella classica botta di deretano imprevista.

Non ho risposto a dieci domande volutamente, perché la risposta sbagliata sarebbe stata valutata negativamente, mentre quella non data avrebbe avuto solo zero. Avevo fatto così anche l'altra volta, solo che l'altra volta, probabilmente, ne avevo tralasciate di meno. 

Che cosa mi ha fregato? La Storia dell'arte, la mia amatissima quanto sconosciuta Storia dell'Arte (due erano di una facilità sconcertante, ma in quel momento avevo il vuoto totale). E poi le altre, paradossali, sul contratto giornalistico 2013-2016.

Quando le ho lette, quasi non ci potevo credere. Mi era balenato il dubbio che me lo dovessi rileggere, ma ripassando per l'ennesima volta tutto il ripassabile, ho ritenuto - errando - che un contratto scaduto già da quattro anni non potesse essere una valida materia d'esame. E invece lo era e io sono una fessa.

Una cosa simile mi era successa all'esame di Diritto Privato all'università. Era il mio terzultimo esame, avevo aspettato a lungo prima di darlo, ma non volevo lasciarlo proprio alla fine per evitare di arenarmi a un passo dalla laurea.

Da brava studentessa avevo frequentato tutto l'inverno il seminario della prof, una specie di Cerbero in gonnella piena di capelli grigi. Facevo anche domande, esattamente come mi succede adesso al corso di tedesco. Ero così "fleißig", come si dice qui dei secchioni.

A ridosso della prova, mi capitano sott'occhio gli appunti su un argomento molto specifico (ricordarselo adesso, quasi trent'anni dopo, sarebbe inquietante) e io mi dico che no, non valeva la pena riguardarselo, figuriamoci se me lo chiedono.

E invece il grigiocerbero lo tira fuori. Ricordo bene le mie gambe irrigidite sotto la scrivania, e, non so perché, totalmente divaricate, in una posizione oserei dire ginecologica. Comincio a rispondere arrampicandomi sugli specchi, aiutandomi con la mia una volta proverbiale memoria fotografica.

Casco argenteo non abbocca, capisce che ce sto a provà e infatti mi fa osservare l'incompletezza delle mie argomentazioni.

E lì viene fuori lo spirito un filino polemico e paraculo che ogni tanto si affaccia sul mio faccino raggrinzito. "In effetti - oso dirle - l'argomento non era molto chiaro neanche durante il seminario".

L'occhialuta creatura dantesca si agita vagamente sulla sedia e ribatte: "Signorina, sia seria, non usi questi mezzucci da leguleio. L'ho vista a lezione, per cui le offro 23. Che fa, accetta?".

Ma certo che accetto. Vielen Dank, professoressa Rottemeier e a mai più rivederci.

Ecco. Se mi avessero dato la possibilità di parlare, avrei fatto notare il paradosso di chiederci qualcosa sul contratto che, diciamolo, è diventato come l'Eldorado per i cercatori di pepite. 

Però, obiettivamente, come l'argomento che non avevo ripassato all'epoca, ci stava qualche domanda sul mezzo con cui, bontà loro, i novanta colleghi cominceranno un domani il loro percorso professionale da Mamma Rai. Sperando, tra l'altro, che nel frattempo lo rinnovino. Finalmente. 

Un po' più paradossali le domande sulle Marche, più adatte - a ridaje il leguleio e i suoi tristi mezzucci - agli studenti di Beni Culturali che a noi (leggi: a me) eruditi a metà.

Insomma, non è andata.

Mi consola, parzialmente, vedere tra gli ammessi molti giovani, gente, intendo, nata tra il 1991 e i secondi anni Ottanta. 

A loro auguro lunghe e felici carriere, sperando che un domani si ricordino di noi vecchietti che abbiamo pagato l'iscrizione all'Ordine, i contributi all'Inpgi2 (e io per brevi, fortunati periodi anche all'Inpgi) per anni, confidando che un giorno il vento sarebbe girato.

E' già da tempo che non credo più che il giornalismo fosse davvero la mia strada. L'ho amato molto, moltissimo, tutte le volte che ho potuto scrivere anche una sola riga e persino in quest'ultimo mese, in cui mi è toccato rispolverare manuali e leggi professionali, come quasi vent'anni fa.

So bene però qual è il motivo che mi ha portato a Vienna e credo di aver fatto la scelta giusta, nonostante la delusione lavorativa iniziale.

E adesso che succederà?

Keine Ahnung. 

O meglio. Intanto finisco il corso di tedesco (apropos, come dicono qui: giovedì ho la simulazione dell'esame finale. Mortaccen, devo studiare).

Dopodiché (direi nel frattempo) continuerò a cercare un lavoro, come fanno tutti, come fa chi sa che, comunque andrà, andrà bene.

Punto e a capo. 

Auf Wiedersehen, Italia. 



mercoledì 12 aprile 2017

Mirkoeilcane e i gggiovani (resistenti) dell'Italia di oggi



Vedi i casi della vita.
Intervisto un'artista famosa romana per un'occasione speciale che si è tenuta a Recanati una decina di giorni fa e mi ritrovo impallinata ad ascoltare la musica di Mirkoeilcane
A parte il nome d'arte che mi lascia un po' perplessa (nel trascrivere i nomi dei sedici finalisti di Musicultura 2017, l'occasione speciale di cui sopra, avevo cancellato proprio il suo, convinta che fosse il titolo di un pezzo, mica un autore in carne ed ossa), di questo cantautore trentunenne romano che nella vita si chiama Mirko Mancini mi convince praticamente tutto.

Perché, ok, non so nulla di musica, suonavo male pure il flauto delle medie, ma è riuscito ugualmente a lasciarmi di stucco il suo talento mischiato a una notevole intelligenza.
Mirko mi ha passato gli Mp3 del primo album omonimo fatto in casa, quindi, secondo quanto dice lui, imperfetto. I suoi testi sono in rima baciata, vagamente rappeggiati in molti casi, in altri dal sound anni Ottanta che fa molto mia adolescenza (e sua nascita).

Ci deve essere anche una ragione inconscia sul perché la sua musica mi abbia colpito così tanto, per farla breve.

La canzone che ascolterete sopra racconta comunque una generazione che non conosco.
Quasi tutti i suoi testi non mi riguardano da vicino, se non per un punto: quel senso di invisibilità che l'autore si sente addosso o che affibbia ai suoi alter ego in musica e che sovente si mescola alla precarietà del lavoro.

A Musicultura Mirkoeilcane ha portato, come tutti gli altri partecipanti, due canzoni: a colpire la giuria è stata la seconda che si intitola Per fortuna, che, obiettivamente, è molto originale. La prima si chiamava Salvatore.

Ed è proprio di questa che volevo parlare.
Il protagonista della favola suonata è un cassiere di un supermercato, uno che batte i prezzi senza un'oncia di entusiasmo, mentre la gente e la vita gli scorrono davanti.
Nel grigiore generale, Salvatore si lascia però ancora un piccolo margine per sognare una via d'uscita, fosse pure solo ideale, componendo le sue canzoni.

Una storia minima, triste e demotivante, direte. Eppure in quelle poche parole c'è tutta la poesia della nuova Italia, fatta di ragazze e ragazzi che, magari il sabato sera, si mettono gli stessi pantaloni e fanno conversazioni banali, ma che in verità sono solo lo specchio di un Paese che vorrebbe distruggerli e basta. Perché tra loro ce ne sono tanti, ne sono certa, che non vorrebbero affatto passare da una serata uguale a un'altra con lo stesso risvolto e mocassini senza calze, a parlare di piastre per capelli o di nuovo look da postare sui social.

Mirko me l'ha detto: è un tipo polemico. Io avrei voluto rispondergli: e meno male.

Peccato che oltre a questo non avrei comunque potuto dirgli altro, se non, forse, di non mollare. Oppure avrei potuto suggerirgli di buttarsi prima possibile sul suo piano B, ossia fare il cittadino del mondo, pagandosi i viaggi lavorando qui e là.

Ma non lo penso davvero.
Secondo me, quel ragazzo, come gli altri (e le altre, ovvio) dotati di qualcosa da dire devono prendersi lo spazio che meritano non dico subito, ma almeno in tempi ragionevoli per non passare direttamente dall'infanzia alla tomba.

Ce la farà, non ce la farà?
Detto diversamente: ce la faremo, non ce la faremo?

Mi sta scoppiando la testa a forza di pensarci, ma temo di non conoscere la risposta.
E se la conoscessi sarebbe sbagliata, come avrebbe detto Quelo.

Ma la stagione non è adatta alla depressione.
Meglio tornare a parlare di rinascite etc etc.

In bocca al lupo a tutti noi.

martedì 4 novembre 2014

AAA, casa cercasi... come Totò



Oggi sono arrabbiata. Arraggiata alla Montalbano.
E quando sono in questo stato rischio di dire qualche corbelleria.
E un sacco di parolacce (che ho effettivamente detto).

A farmi inferocire, ci ha pensato in parte la burocrazia, che detesto con tutta me stessa, in parte le sole che mi auto-infliggo. Firmando.

Come sapete, ho firmato il dannato contratto per il trattamento ai capelli che poi non ho mai fatto (né mai farò), con il risultato che ora sono a un passo dalla causa (se me la fanno loro, eh: perché di certo non gliela intento io. Malaccorta sì, ma non fessa).

Non solo. Ho firmato ancora, stavolta in un'agenzia immobiliare, dove la regola è "prima firmi e ti impegni a concludere eventualmente l'affare con me e poi vedi la casa".

Quell'appartamento aveva "good vibrations": già avevo cominciato a fantasticare su come disporre i nostri scombinatissimi mobili. Perché, comunque, almeno per i primi (e i secondi) tempi, mi dovrò comunque tenere la mobilia raccattata tra casa di mia nonna, dei miei e di mia suocera.
Come ebbe a dirmi una conoscente di queste parti che ormai non frequento più, il nostro arredamento è composto in massima parte da "mobili vecchi".
O, più elegantemente, vintage.

E insomma. Sarei stata ben felice di trasportare tutta la mia roba demodè in sessanta metri quadri (con garage).
Avete presente nei cartoni animati la nuvoletta dell'immaginazione sul tizio che sogna a occhi aperti e di come sparisce, con suono annesso (tipo POUF!) quando poi torna alla dura realtà?
Ecco.

Il giorno appresso vado a vedere tre appartamenti con un'altra agenzia (messaggio subliminale per i miei ipotetici creditori: non avrete neanche un euro dei miei risparmi. Pago tutti, ma non voi) e che succede?
Dopo le prime due autentiche stamberghe, l'agente ci conduce su una strada ridente, in lieve salita, sotto un sole quasi estivo. Da lontano il mare sempre più blu. La riconosco immediatamente, solo che non ci posso credere. No, dico, sarà un altro appartamento sulla stessa via, ma pensa tu la coincidenza.

Era proprio lo stesso. Il secondo agente che ce la mostra, però, ha anche le chiavi del garage. Che non è una piazza d'armi, ma è più che sufficiente per confermarmi nei miei progetti di trasloco (qualche mobile vecchio avrebbe finalmente trovato la sua più consona collocazione. A vantaggio dei pezzi migliori della mia generosa famiglia di provenienza. Ingrata che non sono altro).

Trasecoliamo ulteriormente quando il mediatore chiama il venditore e, mettendocelo in viva voce, gli dice che ha due clienti che potrebbero prendere la casa praticamente subito a... circa quindicimila euro di meno di quelli che ci aveva prospettato il primo  agente.
E quello risponde: "E' andata".

Peccato che io (...) mi sia impegnata formalmente (dimenticavo la fotocopia del documento di identità. Sì, ho fatto anche questo) a concludere EVENTUALMENTE l'affare con quello del giorno prima.

Torniamo a casa, il Bipede ed io, piuttosto disorientati. E mò che succede?
Mi consulto con mio padre, nel fine settimana parlo pure con mio cugino avvocato, quello con il quale a breve andrò in tribunale per via dei miei disgraziati capelli, e niente: tutti mi dicono che una "roba acsè" non l'hanno mai sentita.

Eppure succede anche questa. Garantito.
Quindi?
Beh, per il momento posso solo dirvi che da good le mie vibrations sono diventate very bad.
Anche perché il venditore ha detto al secondo mediatore, che ci ha prospettato un prezzo e una provvigione più bassi che lui, proprio lui, non ne vuole sapere nulla.

Ma come? Chi ha dato l'appartamento a più agenzie? Melilla, o come diavolo si diceva a Chieti una volta?
Oltretutto, scorrendo gli annunci, mio marito ha fatto un'altra scoperta: l'appartamento è proposto pure da una terza agenzia!
Raccontando il casino a una mia cara amica di palestra, consideravo: ma quanti duplicati della chiave circolano in questo momento?

Ripensando, ridendo un po', stamattina al dubbio che le avevo esposto, mi sono così ricordata di Totò cerca casa, il fenomenale film di Monicelli e Steno con Totò nella parte di uno sfollato con moglie e figli.
Prima del tragicomico finale (che non vi rivelo, casomai non l'aveste mai visto), Totò si imbatte in una banda di ladroni che gli vendono, dietro pagamento del milione vinto dalla moglie grazie a un concorso a premi, un lussuoso appartamento che danno in affitto anche a un gruppo di turiste ungheresi, a un commerciante cinese e ai coniugi arabi da Totò già incontrati (scontrati sarebbe più esatto...) in un momento precedente del film.

S'intuisce che la faccenda debba finire a schifìo. Peccato che nel nostro caso non si tratti di un film. Forse. Come scrivo spesso.
Perché certe volte mi sembra davvero che la realtà sia tutto un cinema, non di grande qualità. Esattamente come la maggioranza dei film italiani. E non sto parlando della da me molto amata pellicola con cui apro questo post.
E non ditemi che sono disfattista e che nel paese d' 'o sole e 'o mare si vive sempre bene, perché allora sì che mi arrabbio per davvero.

E comunque, una cosa è certa.
Non firmerò mai più niente.
Anche se si dice che non c'è due senza tre...

AIUTOOOO!

martedì 21 gennaio 2014

Margherita Hack e il segreto del matrimonio, in un esercizio di scrittura




Chissà chi è l'autore di questa bellissima fotografia di Margherita Hack, gli occhi celesti più vivaci che io abbia mai visto, che le regalavano, almeno in età avanzata, uno sguardo molto simile a quello che aveva la mia nonna paterna. In comune tra loro, c'è anche l'anno della scomparsa, ancora troppo recente per poter essere completamente metabolizzata.

Mi accorgo, tra l'altro, proprio adesso, mentre scrivo, di aver già scovato un'altra analogia tra una grande donna della letteratura come Doris Lessing e la madre di mio padre, poco scolarizzata ma dotata di un'intelligenza ricca di buon senso veramente fuori dal comune esattamente come queste due signore immortali per la storia dell'umanità. Qualcosa mi dice che si sarebbero state simpatiche se si fossero conosciute. Ignoro, tra l'altro, se non sia davvero capitato, almeno a Margherita e Doris, di conoscersi personalmente.

In tutti i modi, mio padre mi ha passato il libro ricevuto in regalo a Natale Italia sì, Italia no, considerato il testamento spirituale dell'astrofisica fiorentina, amante delle stelle e degli animali. Ricordo di essere stata accolta al telefono, durante l'intervista che ho avuto la fortuna di farle, dall'abbaiare del suo cane. Dimenticai di chiederle come si chiamasse, probabilmente perché intimidita dalla consapevolezza di avere all'altro capo dell'apparecchio questa grande azzurra signora.

Non so perché, anzi forse lo so, ma ho parlato di lei e del suo compagno di vita Aldo nell'esercizio che ho tratto da Minuti scritti, il prezioso libro di Anna Maria Testa, che ho comprato per prepararmi a un possibile imminente lavoro.
Osservando la foto dei due anziani che si baciano in una strada deserta di città, mi è tornata in mente la frase scritta dalla Hack a proposito del suo matrimonio, durato sessant'anni grazie all'amicizia straordinaria e alla complicità tra lei e il suo uomo, due elementi che sembrano così difficili da reperire nei rapporti della contemporaneità.

Avevo, certo, solo venti minuti di tempo per buttare giù un testo che fosse collegato a una delle quattro immagini selezionate dalla pubblicitaria milanese dotata di grande mestiere e sensibilità, ma tra tante storie, o abbozzi di queste ultime, la mia psiche è andata a ripescare proprio quella frase, letta pochi giorni fa, ma rimasta scolpita in me assai più dei brani del libro decisamente più significativi per il futuro della nostra patria, che Margherita ha finito per dettare dal suo letto d'ospedale, due giorni prima della morte.

Ve lo ripropongo qui sotto, non perché sia un capolavoro letterario, ma soltanto per la sincerità con cui l'ho buttato giù.


Margherita e Aldo si sono amati e rispettati per sessant’anni. Dieci volte sei. Ci pensate? Non so dire se si scambiassero anche effusioni in pubblico come i due anziani nella fotografia. Una fotografia che, tra parentesi, trovo un tantino scontata. Sì, sorridono mentre le loro bocche si toccano proprio lì, in mezzo al marciapiede di una cittadina forse americana o forse nordeuropea. Però è talmente chiaro che siano consapevoli della presenza del fotografo. Magari li ha voluti ritrarre così una nipote (sì: è ancora tipico delle donne cedere a sdolcinatezze così), il che me li rende più simpatici. E tuttavia non so: scambiarsi baci in pubblico non è mai stato il mio forte neanche quando avevo vent’anni, non so dire che cosa farò alla loro età, ma qualcosa mi dice che preferirei evitare prove materiali dell’eventuale passione tardiva.

Non che non desideri, come qualsiasi ex bambina sopra i 40, di amare ed essere amata tutta la vita dal mio uomo. In generale, l’amore è un grande miracolo dell’esistenza: non vedo perché negarselo in età avanzata. Posso ben dirlo io che ho scritto per anni di anziani. L’esperienza lavorativa, anzi, mi ha aiutato a interrogarmi molto più di quanto non abbia mai fatto prima sul senso dell’esistere.

Sul tempo, le stagioni, la malattia, la morte. Sì. Anche quella. Sono sicura che Margherita avrebbe continuato a scegliere il suo Aldo mille altri giorni ancora se la falce non l’avesse recisa. Certo, campare fino a oltre novant’anni sembra un intervallo ragguardevole tra il  nulla che precede e quello che probabilmente segue. Eppure, sono certa che per una donna come lei, con un’energia straordinaria come la sua, il pensiero di non esserci più non dovesse aggradarle poi molto. Chissà che cosa sta facendo il suo Aldo adesso. Le parlerà guardando le fotografie, sfogliando i suoi libri? Mi è appena venuto in mente il personaggio di Pereira, il bel libro di Antonio Tabucchi interpretato da un invecchiato ma sempre immenso Marcello Mastroianni. Proprio Pereira, tutta la vita passivo e schivo, rimasto legato troppo a lungo al ricordo della moglie scomparsa, alla fine capisce che è arrivata l’ora di battersi per un ideale maggiore. Per l’umanità. Per il futuro. Tutti dobbiamo scomparire e per chi non crede nell’aldilà morire è una vera iattura, a meno di non essersi condannati anzitempo alla morte interiore. A meno di non essere così disgustati da questo sangue che ci pulsa in corpo da preferire la polvere e la terra al frusciare degli alberi e il rullar del mare.

Insomma. Ben vengano anche le foto in strada, in posa o meno, se servono di esempio a chi dubita di avere ancora qualche carta da giocare, fosse anche a 80, 90, cento e passa anni.

Perciò grazie, Margherita, per quel che hai fatto per tutti noi e per il tuo amore per Aldo, che sicuramente non ti dimenticherà mai.

Che cos'altro aggiungere?
Solo che bisogna darsi da fare. Soprattutto se si è donne e si vive in Italia. Se poi si ha la fortuna di incontrare un uomo che ci sa stare affianco, meglio, ma nessuno può dotarti di una forza che non hai.
Ricordiamocelo sempre.