domenica 30 dicembre 2012

La cura della leggerezza per un ex (?) brutto anatroccolo

Lorna Paz, alias Patrizia la bionda finta in Betty La Fea

Avrei voluto scrivere un post serio serio, cupo cupo, e invece ho cambiato idea, proprio grazie all'ispirazione originaria. Sì, perché sono andata a cercarmi informazioni sulla "bionda tinta" della telenovela colombiana Betty La Fea e così ho scoperto cose talmente interessanti da farmi desistere dai propositi polemici e depressivi.
Ho conosciuto la storia di "Beatrice la cozza" (Fea significa all'incirca questo in italiano) grazie a mia mamma, nelle varie trasferte degli ultimi tempi nella mia città natale.
Lo danno tutte le sere (compresi sabato e domenica) su Vero-Capri, il canale di Maurizio Costanzo per casalinghe (sicuramente disperate) e gente in crisi come me.
La storia è vecchia come il mondo: in estrema sintesi si parla della trasformazione di una giovane donna-brutto anatroccolo ma con grande cervello in un magnifico cigno.
Ovviamente, l'attrice protagonista (Ana Maria Orozco) è una bellissima colombiana, morbidamente attraente quanto le altre partecipanti alla telenovela trasmessa dalla tv del paese sudamericano tra il 1999 e il 2001. Nel link che ho riportato appena sopra potrete assistere e stupirvi come ho fatto io poco fa della sua metamorfosi nella racchia dal QI ben sopra la media. Non solo, scoprirete anche che il ben più noto Ugly Betty ha preso spunto proprio dalla soap colombiana, così come le altre numerosissime versioni trasmesse in tutto il mondo.
Ho già espresso il mio positivo giudizio positivo sulle culture ispaniche all'incirca un anno fa, in occasione del mio innamoramento televisivo per Fisica o Chimica. Anche in quel caso, ovviamente, sto parlando di telefilm svuota-cervello (come li definisce mia mamma), ben più positivi per la mia psiche un po' turbata di quelli sui medici che spopolano ormai da anni in tutte le tv e quelli violenti e cinici tanto di moda nel pubblico più disincantato di me.
Insomma, vado alla ricerca dell'evasione e della leggerezza, pur rifuggendo la retorica dei buoni sentimenti e la lagna melodrammatica.
E poi diciamolo: è facile immedesimarsi in Betty e sperare di trasformarsi in cigni, non solo esteticamente parlando.
C'è un ultimo aspetto che mi piace delle mie recentissime scoperte sulla soap colombiana: gli attori sono miei coetanei e hanno girato le puntate che li hanno resi famosi tra il 1999 e il 2001, negli stessi anni in cui io ho frequentato la scuola di giornalismo. Nello stesso periodo in cui, insomma, in un certo senso anch'io mi trasformavo se non in cigno in un paperotto meno goffo.
Oltretutto, la Colombia è il paese di Gabriel Garcia Marquez, uno dei miei autori preferiti ai tempi del liceo, quando mi sentivo piuttosto "fea" ma con un ribollìo nel sangue che non mi ha più abbandonato.
Insomma, ci si cura anche così, sognando impossibili rivalse e ridendoci anche un po' su.
E pazienza se non si è sempre in grado di mostrarsi forti e corazzati.
A volte bisogna ripiegare e acciambellarsi come gatti. Al risveglio avremo di nuovo fame e una gran voglia di esplorare.

martedì 25 dicembre 2012

Strano Natale


Strano Natale. Spento Natale. Triste Natale.
Non vado oltre, potrei diventare ancora più lagnosa.
E in fondo la mia montagna è sempre lì, nascosta da una leggera e umidissima foschia.
I nipoti crescono bene e sanno divertirsi con intelligenza e dolcezza.
E la cena della vigilia è stata piacevole, la malinconia provata più o meno la solita.
Però vorrei scappare via e camminare, per le squallide strade di Chieti Scalo, sperando che l'andare lavi via un po' del vuoto che mi attraversa.
Ho con me le scarpe da corsa, non vedo l'ora di indossarle sotto una delle vecchie tute rimaste nei cassetti un tempo pieni della biancheria mia e di mia sorella, e respirare il freddo bagnato.
Eppure sono così ironica, di solito, ma in questo momento il sorriso è spento.
Potrei giusto dormire e sperare di sentirmi meglio al risveglio.
In ogni caso, dovevo essere qui. Volevo essere qui e qualcosa mi dice che non potrò mai dimenticare il mio primo Natale da adulta.
Che sia foriero di nuovi cambiamenti? E' quanto mi auguro per l'anno alle porte.
Laicamente, auguro ai miei amici (degli altri non mi curo. Almeno, ci sto provando a non farmi infliggere ulteriori gratuite ferite) qualcosa del genere.
La vita ha senso solo se ci rimettiamo sempre in gioco, con le forze che abbiamo, dimentichi di quelle di un passato ormai lontano.
Niente è perso, d'altra parte, e una parte di noi resterà per sempre bambina.
Sappiamone farne tesoro.
Auguri.

venerdì 14 dicembre 2012

Mossi ma vivi


In questi giorni mi sento mossa come il bellissimo Nino nella foto qui sopra.
Al contempo, mi torna in mente la conversazione che ho avuto con la compagna di mio cugino Francesco un paio di settimane fa.
Se avessi la possibilità di dimostrarlo, in questo momento potrei svolgere anche il lavoro più gravoso, anche il più stressante. Certo, voi direte, non avendone uno concreto per le mani, è facile parlare così.
E però ve lo assicuro: di botto non ho più paura di nulla, se non degli stop imposti dal caso, che però niente hanno a che fare con quanto già di per sé noi umani (noi creature viventi in genere) potremmo realizzare con le nostre sole forze.
Sì, sono proprio come Nino, che salta, mangia, dorme e gioca per istinto, senza bisogno di farsi inutili domande.
La vita è breve. Ora lo so con più chiarezza di prima.
Mi secca molto essermi per certi versi ritirata dall'azione troppo presto, ma ormai è fatta. Recriminare non serve. Anzi, è proprio dannoso.
Non potendolo provare nel mio settore lavorativo, allora, non mi resta che darmi da fare in tutto il resto.
E lo farò. Seguendo il mio istinto e il mio cuore.
Non c'è altro che conta.

venerdì 7 dicembre 2012

Una donna, nonostante i capelli "lendi"



Non c'è niente da scherzare, lo so, però il periodo impone una certa dose di sdrammatizzazione.
Nel giro di due mesi ho accumulato già una certa esperienza in fatto di corsie, dottori e infermiere/i, non abbastanza lunga, certo, da lasciare che mi produca in una sentenza tranchant, ma sufficiente a farmi augurare di rimanerne il più possibile lontana, finché la carcassa reggerà.
Per dire, mi sapete spiegare perché il solito ginecologo con panza rotonda e pelata da prepensionato non mi abbia rilasciato neanche stavolta la ricevuta? Oltretutto era in presenza di testimoni (il mio povero consorte che mi mandava, lui sì, fulmini e saette con i suoi occhiacci fiammanti per averlo trascinato in quell'angusto e mal arredato studio medico). Non puoi, per nessuna ragione al mondo, infilarti nella tasca del camice euro-settanta di compenso, senza battere un ciglio. Eppure neanche stavolta sono stata in grado di dirgli nulla e mi sono persino comprata l'integratore che mi ha propinato come ultimo rimedio contro la vecchiaia uterina (e non solo) che avanza.
Certo, ero talmente felice di sapere di non avere nulla di specifico che forse l'avrei persino filialmente abbracciato, ma davvero non si gioca così con le fragilità e insicurezze altrui.
E però poi ho letto il bugiardino, come Moretti nel solito Caro Diario.
E mi sono chiesta: ma mi ha guardata?
No, perché d'accordo che ho le gambe muscolose e i capelli fini, segni probabili di una certa androgenia (si scriverà così? Boh), ma la pelle unta, l'acne, l'irsutismo e l'obesità non mi sembra proprio che mi appartengano. D'altra parte, mi ha prescritto un integratore, ossia acqua fresca, per cui posso pure prenderlo. Però i sospetti aumentano: fosse fosse che ha un accordo con la casa farmaceutica produttrice per erogarne un tot alle "tardipare"?
Chi può dirlo.
L'istruttivo foglietto della polverina che sto prendendo da qualche giorno mi ha fatto tornare in mente un episodio accadutomi almeno quattordici anni fa.
Ero a cena con un po' di gente della mia cerchia chietina, alla presenza di un tipo forse già cinquantenne o più (ai tempi trovavo decrepiti i quarantenni, figuriamoci quelli più grandi) di cui si diceva avesse qualità sciamaniche. O qualcosa del genere.
Fatto sta che mi guarda in faccia e dice, rispondendo a mia domanda precisa su quale fosse la sua predizione sul mio futuro, che io avevo "qualcosa di maschile", per esempio i miei "capelli lendi", pronunciato proprio con la d al posto della t come quasi tutti i miei conterranei. Mi pare che avesse accennato anche alla mia struttura fisica, minuta sì, ma ben piazzata a terra (diciamo così) e poi, giusto per non farsi mancare nulla, aveva aggiunto che la storia sentimentale con il fidanzato toscano era destinata a finire per incompatibilità caratteriale. A suo giudizio, ci tarpavamo l'energia a vicenda. O almeno io lo ricordo così, ma potrebbe essere tranquillamente una mia comoda rilettura posteriore.
E insomma: magari il bugiardino l'ha scritto proprio questo tipo ed è per questo che devo curarmi.
Magari non resto incinta (temo che oltre all'integratore ci voglia pure qualcos'altro: tipo un po' più di tranquillità esistenziale, decisamente in calo negli ultimi tempi), ma almeno divento liscia come una pesca e scateno tutta la femminilità rimasta finora inespressa.
Oddio: e se mi trasformassi in un'oca? Detesto cordialmente la quota di femmine isteriche e lagnose. Sarebbe veramente una tragedia e mi condannerei a una triste solitudine. Perché di certo il sopra citato consorte mi abbandonerebbe al mio destino di donna-donna, libero finalmente di godersi la maturità senza pressioni indebite.
Perché, lo riconosco: noi altra metà del cielo possiamo essere delle scassapalle micidiali, con o senza pelle unta e capelli "lendi".
Rispondo così anche al mini-dibattito scatenato da un mio giovane conoscente molto bravo con le parole, ma necessariamente ancora poco esperto di vita: non è che le donne non sappiano riconoscere una cortesia gratuita, è che stanno sempre già pensando a che cosa fare dopo, il minuto dopo, l'ora dopo, la settimana dopo - a seconda del livello di ansiogeno efficientismo autoimpostesi per reggere ritmi di una società assurda - e non hanno tempo, molto spesso, di lasciarsi coccolare anche da un semplice, in fondo desideratissimo, gesto gentile.
Perché forse tutte le donne, ahimè, si stanno mascolinizzando, come di voi maschi si dice che vi state femminilizzando.
Di per sé, un po' di confusione di ruoli, in una società avanzata, è addirittura un bene. Però capisco che possa spiazzare chi cerca un senso (o anche no) nell'incontro con l'altra, con l'altro.
Succede anche a me (ma ormai ne ho compreso il motivo: sono un mezzo maschio) di stupirmi del sospetto che ingenero con la gratuità di molti miei gesti. Mi auguro solo che cercheremo, uomini e donne, di non smettere di imparare a conoscerci.
Anche perché, andando avanti così, la specie umana si estinguerà. E anche se non farò in tempo (a meno che i Maya non abbiano ragione e tutto finirà quattro giorni prima di Natale) ad assistere alla nascita dell'ultimo uomo sulla terra, un po' del futuro delle generazioni che verranno mi preoccupo.
E in questo, temo, sono proprio una donna.

sabato 1 dicembre 2012

Fuori dal limbo, a tutti i costi

"In questo momento devo proprio dirlo: meno male che non ho figli, così posso stare qualche giorno in più per monitorare la situazione".
"Al di là dei figli, il mio problema è il lavoro: devo capire se posso prendermi dei giorni in maniera da poter partire più agevolmente".
La conversazione sopra riportata si è svolta stamattina: la prima a parlare ero io. La seconda mia sorella, dipendente con contratto a tempo indeterminato. Una delle poche privilegiate in questo Paese, anche se lei si è semplicemente limitata a brillare negli studi e a vincere un concorso. Oggi non è più così e lo sappiamo tutti. Il mio caso è atipico in tutti i sensi, ma resta pur sempre il fatto che, allo stato attuale, tra me e un neolaureato senza futuro non c'è alcuna differenza.
Le mie parole sopra riportate, del resto, sono illuminanti di come la pensa un disoccupato/semi occupato come me: nel considerare la facilità (relativa) con la quale posso restarmene al capezzale (metaforicamente parlando) dei miei genitori, non ho proprio citato i problemi di lavoro. Perché, di fatto, ora come ora e chissà per quanto tempo, non ne ho. Perciò ho parlato direttamente dell'assenza dei figli, il vero impegno per qualsiasi famiglia che debba occuparsi anche di parenti malati.
Ai gatti pensa mio marito, a sua volta, sfaccendatissimamente impegnato dietro alla mamma che si è rotta il polso destro proprio in questo periodo così faticoso.
E così passa le sue giornate a fare da badante alla madre, impedita in quasi tutte le attività quotidiane. Anche nel suo caso, se avesse avuto un lavoro (ai figli, in genere, pensa innanzitutto la mamma, soprattutto quando sono molto piccoli), di certo non avrebbe potuto essere così presente. Anch'io, come lui, peraltro, mi sono vista allungare un po' di denaro per far fronte alle spese impreviste. Alla fine lo stipendio ce lo vediamo passare proprio da chi ci ha dato alla luce. E' davvero paradossale. So benissimo che le nostre genitrici l'avrebbero fatto anche se fossimo stati due manager in carriera, però è tutto il contesto che ti fa sentire veramente senz'arte e né parte, a cominciare dai medici che ci chiedono che lavoro facciamo e se possiamo fruire della legge 104.
Nel mio caso, ho lasciato che parlasse mia sorella: lei, per fortuna, poteva mostrare di essere qualcuno per la società. Per un tipo di società in disarmo, destinata - salvo svolte impresse dai figli dei migranti, gli unici che potranno un domani far ripartire l'Italia - alla decadenza.
La burocrazia, però, è l'ultima ad accorgersi dei cambiamenti, seconda solo alla politica e alla classe dirigente tutta, che continua a ragionare in termini di lavoro dipendente, salariato e sicuro, benché di triadi così se ne vedano sempre meno.
E in ogni caso, lunedì dovrò ripartire e sistemare un po' di cosette lasciate in sospeso, una anche di tipo simil-lavorativo.
Sperando con tutto il cuore che si possa un giorno vedere la luce in fondo al tunnel (la metafora è consunta, ma pazienza, non mi viene niente di meglio a quest'ora e con la stanchezza che mi fa chiudere gli occhi), so che l'anno prossimo sarà tutto dedicato a sbloccarci da questo faticoso limbo.
Non c'è altra scelta, ma sono disposta a ogni svolta, anche la più amara, pur di non avvertire più questo senso, veramente mortificante, di inutilità.
Lo devo a me stessa e alle persone che mi hanno cresciuto.
Alla mia mamma l'abbraccio più forte. Dormi bene, ci vediamo domani. 

lunedì 19 novembre 2012

Andare avanti, oltre le nuvole basse


Il paesaggio dietro la calza a rete (in verità si tratta di una zanzariera ormai fatta a brandelli dalla gatta Bice, che non so perché non abbiamo ancora rimosso) è solo un pezzetto di quanto ammiriamo dalla solita torre fermana. Ho scelto questo scatto per non riproporre il consueto (stupendo) tappeto di colline che ammiro tutti i giorni, tolti quelli di nebbia o nuvole basse, comunque si voglia chiamare la cappa che avvolge non di rado Fermo durante la brutta stagione. Vi dirò che certe mattine immerse nel bianco lattiginoso non sono affatto male, anche se, di certo, il cuore si allarga di più quando "calienta el sol".
E comunque, il presente post è un tappabuchi tra il precedente non proprio allegro e i prossimi che temo non saranno tanto più frizzanti.
Ho riflettuto nei giorni scorsi, aiutata in questo dalla scrittura autobiografica e da una vera amica.
Curiosamente, mi scopro sempre di più affine alle persone di vari anni più di me di quanto non mi senta ai miei coetanei. E dire che per molti aspetti sono assai infantile. Infatti amo molto stare anche con i bambini. Chissà che dietro la mancanza (diciamo meglio: debolezza) delle amicizie nella fascia d'età cui appartengo non si celi anche un mio non confessato desiderio di mantenere un certo distacco dalla realtà.
Potrebbe essere.
D'altronde, il presente fa schifo e chi lo nega un po' m'infastidisce.
Con ciò non voglio denigrare l'importanza del sentimento della speranza: solo continuando a nutrirlo, si attivano virtuosi meccanismi anti-depressivi.
Sto soltanto dicendo che con i coetanei mi viene più naturale fingere perché leggo nei loro occhi l'identica disperazione che traspare dai miei, ma mentre io non ho paura di tirarla fuori, anche per riderne su subito dopo, il grosso delle persone (tra i trenta e i quaranta, anno più anno meno) che conosco preferisce appiccicarsi in faccia sorrisetti di circostanza, per smorzare una rabbia che forse temono di non saper governare.
Beh, io invece penso che arrabbiarsi ogni tanto faccia bene, per evitare d'impazzire di frustrazioni indotte.
Poi, certo, non bisogna fare due palle così agli altri (perché sennò poi è logico che scappano), ma perserverare in un percorso di auto-consapevolezza sui propri bisogni/aspettative, quello sì.
Detto ciò, sto per ingoiare l'ennesimo, indigesto, rospo relazionale (chiamiamolo così), dimostrando a me stessa (ma chi lo sa) di non essere la polemica adolescente del liceo.
Me lo disse una volta la prof di greco, commentando non so quale mia uscita. In analoga circostanza lo ribadì anche la prof d'italiano, chiamandomi "pungente".
E d'altra parte sono nata sotto il segno (veramente di m.) del cancro: qualche pizzicata ogni tanto non riesco proprio a trattenerla.
Per fortuna, ho l'ascendente leone, un segno forte e combattivo (a pensarci bene è un mix davvero micidiale: sono una grandissima scassapalle pure astrologicamente parlando).
Sia come sia, bisogna andare avanti. Non c'è scelta.
E domani la cappa sparirà. E se non fosse, sognerò di essere a bordo di un aereo, lontano lontano, molto lontano (citazione contiana, manco a dirlo), da qui.

giovedì 15 novembre 2012

Confusione, il mio karma

Sto contando fino a dieci, per non dire o fare parole e cose di cui potrei pentirmi.
E d'altra parte, i periodi o sono completamente di cacca o non lo sono affatto.
Per fortuna ieri sera abbiamo visto un vecchio film con Tyron Power che mi ha fatto molto riflettere (purtroppo non ne conosco il titolo, ma ho intenzione di cercarlo a breve. Magari ci scriverò anche su, se lo  trovo).
Sono una persona inquieta e lo resterò per tutta la vita. Il che, ovviamente, comporterà sempre questo leggero (leggero?) scarto tra i miei sogni e la realtà, ma non mi cambierei con nessun altro, nessun'altra, per cui è bene che accetti la confusione che alberga nella mia testa piatta (giuro: è piatta, perfetta per trasportare giare) una volta per tutte.
E' proprio questa mia caratteristica, infatti, che mi ha fatto scappare da Milano svariati anni fa ed è sempre lei la responsabile delle mie scelte lavorative successive. Di nulla di cui ho fatto mi sono pentita. Anzi: le persone confusionarie come me cercano di accumulare sempre nuove esperienze, perché solo così si sentono vive. In questo periodo, per esempio, ho ripreso a studiare l'inglese e, ovviamente, ne sono entusiasta. Non a caso, peraltro, ho scelto come password per entrare nel mio corso online, la frase "leavingitaly". La confusione mi spinge infatti a percepirmi di nuovo in attesa del prossimo cambiamento, stavolta verso una non ben precisata, destinazione straniera.
Su Facebook seguo il cammino di un tipo a occhio di una decina d'anni più di me, che sta viaggiando in Sudamerica: pubblica foto delle sue soste nei caffè e di paesaggi da favola. Soprattutto, si sente che è felice. Non lo conosco personalmente, ma sono veramente contenta per lui.
E insomma: è bene che continui in questo cammino di conoscenza interiore, accettando la mia integrale solitudine di essere umano qualunque. Un giorno potrei scoprirmi molto più capace di vederci chiaro di quanto non sappia fare adesso.
Oppure hanno ragione i Maya e il 21 dicembre finirà tutto: a che serve affannarsi, dunque?
E no, non voglio imbalsamare nessuna emozione, anche se è più che opportuno non farle trasparire con chi non potrà mai capire.
L'ultima (confusissima) frase è per introdurre questa bellissima canzone di Lucio Battisti, con cui mi accomiato, almeno per oggi.



domenica 11 novembre 2012

Un video amatoriale (issimo!) scaccia-pensieri

E meno male che ho steso i panni dentro: piove orrendamente, come credo in quasi tutta Italia.
La giornata uggiosa dovrebbe ispirare pensieri nefasti ed è ben per questo che reagisco linkando al mio primo video realizzato con la sony hd (faccio pubblicità, ebbene sì) dedicato al mercatino estivo di Fermo.
Una roba più amatoriale di così non potevo farla, ma tanto, in un mondo di dilettanti, perché mai dovrei essere la sola che si censura? E in ogni caso, lo ribadisco: è un video scaccia-pensieri, a suo modo, nelle sue evidenti imperfezioni, persino (pateticamente) poetico.
E poi Paolo è proprio telegenico: e non lo dico perché sono di parte (su facebook seguirebbe faccina sorridente).
Buona visione (e per i non fermani: buona occhiata sulla bellissima piazza del Popolo, cuore del centro storico della cittadina marchigiana, uno dei molti gioielli di questo povero e depresso Paese).





venerdì 9 novembre 2012

I giorni della chiarezza


Come cambia in fretta la vita. Aveva ragione mia nonna, quando parlava della strana velocità che prendono gli anni a partire da un certo momento. Eppure io mi sento più o meno identica a sempre, diciamo non troppo più matura della mia giovane compagna di palestra. Invece di certo lei mi darà la mia età, se non di più, chiedendosi anche come si faccia ad arrivare alla età adulta con quell’aria un po’ inconsapevole che metto su nelle chiacchiere tra un esercizio e l’altro.
Sia come sia, a un certo punto si è costretti – letteralmente – a svegliarsi e a guardarsi per bene.
Non mi va di essere annoverata come l’ennesima quarantenne ombelicale, perciò tralascio l’analisi impietosa che faccio quotidianamente su rughe e altre imperfezioni del mio corpo e punto dritta al problema vero.
Non sono felice. Qualcuno dirà: e chi lo è? Giusto: tutti accumuliamo frustrazioni e soprattutto chi ha il privilegio (e l’onere) di possedere un cervello, s’interrogherà sempre su ciò che non va, in noi e nella realtà che ci circonda.
Alcune frustrazioni, in effetti, sono indotte da un presente troppo opaco, a voler essere generosi.
Altre, invece, sono caratteriali.
Altre ancora, infine, scaturiscono dal caso, il destino, il fato, la sorte. Comunque vogliamo chiamare quel curioso concatenarsi di eventi che compone i nostri giorni.
Mi sto per l’appunto domandando se alcuni di questi ultimi accaduti di recente non fossero già scritti nel mio personale cammino. E se avessi potuto conoscerne il significato tentando di uscire da me stessa per guardarli dal di fuori?
Perché, ad esempio, ho letto giusto ad agosto un libro in cui si parlava di resilienza?
In ogni caso, adesso devo tirarla fuori con la grinta che qualcuno mi attribuisce.
Perché possa esercitarla pienamente, però, ho bisogno di avere intorno le persone giuste.
E ambienti favorevoli. Purtroppo su quest’ultimo fronte sono un po’ sprovvista, o forse lo sono pure sul primo, diciamo la verità.
Di chi la colpa? Chi può dirlo. Anche ammesso che ne abbia qualcuna anch’io (sono permalosa e ipersensibile), non posso recitare a vita.
Perciò stop alle ipocrisie.
D’ora in avanti sarò assolutamente me stessa. Tanto, la mia popolarità non è cresciuta di un’unghia in tutti questi anni di buonismo a buon mercato.
Potrò essere sgradevole, come so essere solo con chi mi conosce profondamente. Al contempo, so che lo sarò solo con chi mi ha ferito, mi ferisce con la sua indifferenza, noncuranza, e, a volte, proprio con la sua cattiveria.
D’altra parte, è difficile che la mia impetuosità non venga fuori, prima o poi.
Ho capito che è meglio mostrarla per tempo, perché potrebbe crescere in maniera disturbante, danneggiando innanzitutto me stessa e la mia vera – o presunta – capacità di resistere alla sofferenza.
Insomma: basta con l’autopunizione. Adesso è giunto il tempo della chiarezza.
Chi mi ama – lo so - mi seguirà.
Fanculo a tutti gli altri.

mercoledì 31 ottobre 2012

In biblioteca a scrivere e fotografare, la giusta pausa tutta per me

Biblioteca Mozzi Borgetti, Macerata


Comunque vada a finire, ne è valsa davvero la pena.
Parlo della mia esperienza di ieri pomeriggio, le quattro ore più piacevoli della mia vita recente, non esaltanti, giovanilisticamente parlando, però assai rasserenanti.
Sto parlando della mia partecipazione a Storie da biblioteca, un concorso o gioco (a seconda di come lo si voglia vedere) per scrittori/fotografi incentrato sulla valorizzazione dello splendido patrimonio librario delle Marche. Volendo, si poteva partecipare a tutte le dodici tappe del viaggio letterario e fotografico condotto in altrettante biblioteche regionali, anche perché il tutto si è svolto gratuitamente, senza limiti d'età né presentazione di curriculum. Prima di iscrivermi, mi sono giusto informata se fosse il caso che una tardona come me non fosse proprio fuori luogo. Rassicurata dalla gentilissima organizzatrice, mi sono detta: ma sì, perché no? Ed è andata. Anzi: è andata benissimo.
In fondo, non ho dovuto fare altro che rinverdire una mia antica frequentazione: dal liceo alla laurea, ho sempre bazzicato le sale lettura e ancora oggi, quando vedo uno scaffale ricolmo di libri, provo una grandissima fascinazione.
L'esperienza di ieri me ne ha peraltro richiamato alla memoria un'altra, risalente ai tempi della scuola di giornalismo. Qualcuno, non so più se Tabloid, il mensile dell'Ordine della Lombardia, o una testata interna all'Ifg, mi aveva spedito alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, nel cuore del centro storico della metropoli lumbard, per ricavarne un articolo. Ricordo l'esaltazione (in quel caso sì, l'ho provata) nell'aggirarmi tra teche, incunaboli, tavoli massicci e suoni ovattati. Se non vado errata, anche in quel caso ho scattato qualche foto, con una delle prime digitali all'epoca in commercio, dotata, pensate un po', di porta per il floppy disc.
Ai tempi della Voce, poi, mi è toccato di calarmi nel ruolo di un immaginario utente colto di spalle intento a sfogliare un volume qualunque (un'altra volta ho fatto la donna vittima di violenze domestiche e un'altra la cercatrice di lavoro interinale... che si doveva fare per campare). E ogni tanto, soprattutto da quando ho ripreso a fare foto, prendo in prestito qualche volumone di fotografia nella bella biblioteca Romolo Spezioli di Fermo.
Però un concorso, no, non l'avevo fatto mai e se anche non dovessero mai prendere in considerazione il raccontino che ho buttato giù con un certo divertimento infantile e se pure le foto scelte (dovevamo selezionarne solo cinque: quella che vedete in alto è stata sacrificata, non senza fatica) non convincessero la giuria, beh, chi se ne importa. Speriamo piuttosto di avere altre occasioni per nuovi giochi di ruolo, innocenti e stimolanti per anima e, sì, gambe.
Perché accidenti se pesa portarsi appresso pc, fotocamera e cavalletto!
Sarà il caso, piuttosto, che mi attrezzi con uno zaino adeguato: ieri sono arrivata con un borsone da pendolare decisamente poco professionale. E d'altra parte, era giusto presentarsi così, un po' sprovvisti e dimentichi di se stessi. Sì, era proprio giusto così.

lunedì 29 ottobre 2012

Sentirsi come un albero d'autunno


Sono nata e cresciuta in una città di provincia. Ma questo è assodato. E digerito, direi.
Per scelta, nel lontano 2005 sono venuta a vivere in una omologa cittadina posta sulla cartina poco più a nord. La piazza che sta alle spalle di questo scatto è magnifica e conservo ancora il ricordo della prima volta in cui l'ho percorsa, ai tempi del secondo anno della scuola di giornalismo. Era inverno, anzi, autunno inoltrato, probabilmente era venerdì sera, e ci stavamo dirigendo verso quello che vari anni dopo ho scoperto chiamarsi auditorium San Martino. Quella sera Alessandro Bergonzoni dava uno spettacolo proprio per noi aspiranti pennivendoli dalla pelle ancora liscia (qualcuno un po' meno) e il curriculum ancora da riempire (almeno per quanto mi riguardava).
Quel paesaggio era così simile al mio, eppure così esotico. Un anno a Milano vale doppio: già dopo un giorno che ci trascorri, tutto il resto sembra evaporare e ti ritrovi all'improvviso in un presente eterno, senza memoria e senza futuro. Almeno, era questo l'effetto che mi faceva vivere in quella città, forse proprio perché sono cresciuta in posti in cui percepisci lo scorrere delle stagioni, nei colori delle colline, nelle rughe del cielo e nell'aria che si fa all'improvviso pungente. Ogni volta che torno a Chieti, per dire, ritrovo gli odori della mia infanzia e adolescenza e come Proust con la madeleine mi torna in mente chi sono. A Milano, invece, finisci per dimenticartelo e se può andar bene per i maniaci del lavoro o per chi ha ferite dell'anima da curare con il distacco, non può essere adatta a chi, viceversa, vuole, almeno ogni tanto, ritrovarsi. Specchiarsi e riconoscersi. Parlare a cuore aperto con qualcuno, osservare un tramonto, ascoltare il vento. Non che tutto questo non ci sia anche a Milano, è solo che passa in secondo piano, coperto dai rumori, dai volti, dai mezzi e dai continui stimoli, spesso davvero eccitanti, di una città dei balocchi arida e tentatrice.
Non che io non ami scoprire cose nuove, aggiornarmi sulle ultime tendenze (rammento ancora la lezione della mia amica Cristina sulle differenze tra kitsch e camp. Se volete ve le spiego), fare shopping, andare alle mostre e chiacchierare con le mie ex coinquiline, ma non è possibile passare la vita in questo modo: di fatto non lo fa nessuno, neanche chi ci vive contento.
Con il passare degli anni, poi, è logico aspettarsi anche altro, magari un po' meno smog, magari un po' più di calore nei rapporti, un po' più di spessore. L'ho constatato l'ultima volta che ci sono tornata: nessuna di quelle ex ragazze che passavano con me per la bella piazza di Fermo è rimasta identica a come era in quei giorni. C'è chi è diventata mamma, chi ha cambiato lavoro svariate volte, chi ha proprio smesso di fare la giornalista (una a caso?), chi ha scoperto l'India. Per fortuna, si cambia, insomma, anche in quella città così unica, nel bene e nel male.
A distanza di anni, insomma, finisci per dirti: ma perché me ne sono andata? Anche qui, alla fine, i rapporti sono ugualmente superficiali, la grettezza e la disorganizzazione dilagano, e pure il paesaggio, certi giorni, è piatto e squallido e l'aria puzza. Che cos'è che mi ha fatto dire, un giorno di tanti anni fa, mentre passeggiavo in bicicletta sul lungomare di Porto San Giorgio, sì, voglio trasferirmi qui?
Ufficialmente, mi hanno condotto qui il lavoro e l'amore. Poi, però, il primo è finito e con quello gli anni dorati della mia giovinezza. Di questo, ahimè, sono davvero convinta: smembrato il piccolo gruppo brancaleonesco con cui ho passato giornate indimenticabili, è finita anche la mia lunga, prolungatissima, adolescenza.
Il carattere, certo, resta quello, ma dentro qualcosa si è rotto. Qualche illusione di troppo, qualche idealismo da manifestazione scolastica, qualche legame che reputavo importante.
Era ora, probabilmente, ma vi assicuro che un po' fa male, perché ti guardi nello specchio (di tempo in questo periodo ne ho fin troppo per osservare la mia faccia un po' così) e ti chiedi, di nuovo: ma io chi sono e che ci faccio qui?
Così guardo la foto che ho scattato l'anno scorso, sotto Natale, in giornate intense, di quelle che piacciono tanto a una ex bambina come me, e penso di essere come un albero che sta perdendo le foglie (mi sono appena resa conto di aver copiato Giuseppe Ungaretti. Giuro che non l'ho fatto apposta). La primavera è lontana, ma tornerà: conviene risparmiare energie per allora, indurendo la corteccia quanto basta contro il gelo shakespeariano.

mercoledì 24 ottobre 2012

Strategie anti-piagnisteo per la "choosy" che è in me



Comincio a pensare che il periodo saudade durerà ancora parecchio. Del resto, sono appena emigrata in Germania ed è logico che stia qui a rimpiagere o sole e o mare.
Come? Non lo sapevate? Mi trovo a Tubinga, in questo momento, nella città delle biciclette e della giovinezza.
Porca miseria che fatica svegliarsi, questa mattina. E per fortuna che c'è il sole e la gatta Bice giusto dietro di me, sulla solita scatola del tostapane.
No, non sono affatto partita, ma devo dire di essermi sentita un genio nell'usare una scusa del genere per tenere a bada il Seccatore.
Se ne parlo con tanta scioltezza, è perché ho l'assoluta certezza (che fa pure rima) che non verrà mai su questo spazio.
Però, in effetti, c'è stato un momento ieri in cui mi ero già vista con la valigia in mano, pronta a ricominciare da zero.
Nei giorni scorsi ho letto le biografie di vari fotogiornalisti di cui non avevo mai sentito parlare, che mi hanno dato la misura della mia piccolezza. D'altra parte, so benissimo di aver fatto altro e sempre con il massimo dell'impegno.
Però, in effetti, un po' "choosy" lo sono stata e lo sono tuttora, soprattutto verso certi ambienti ricchi solo di grettitudine, un neologismo che mi suona meglio del più corretto vocabolo grettezza.
Così ascolto musica brazileiro-capoverdiana come il brano di Lura sopra linkato.
Mi piace molto il sorriso di questa musicista nata nel 1975, sotto il segno del Leone. Glielo invidio parecchio, forse perché vorrei poter esibire il mio un po' più spesso.
Invecchiando, mi capita più facilmente di parlare di invidia. E pensare che io non l'ho mai provata, verso nessuno, neanche verso le nullità di successo.
Del resto, succede ai lamentosi cancerini come me di fare bilanci impietosi. Penso proprio che dovrò imparare a convivere con questo senso fiaccante di fallimento. Prima lo faccio e prima ne uscirò.
In qualche maniera. Germania o non Germania, nell'ombra o nella gloria.
E alla peggio, andrò a guardare il mare e a sentirne il rumore.
Facendo schiattare d'invidia i tubingani, o come diavolo si chiamano gli abitanti di quella città.

venerdì 19 ottobre 2012

Via dall'Italia prima della disfatta. E Why Aye Man



"Che lavoro fa"? I medici specialisti lo chiedono spesso per appurare se ci possa essere l'usura professionale tra le cause dei disturbi lamentati dal paziente.
A giudicare dai dati presentati oggi da non mi ricordo più quale organismo (poi lo controllo: adesso non c'ho voglia. Comunque l'hanno detto al tg3 del pomeriggio), alle donne italiane farebbero meglio a chiedere: "che lavoro non fa?", considerando proprio il non-lavoro tra le possibili fonti di stress organico.
In tutti i modi, a volte capita che qualcuna che un lavoretto l'ha anche trovato, preferisca tirarsene via prima, per l'appunto, di rovinarsi la salute.
Lo raccontava ieri mattina in coda per le analisi una giovane donna dal viso pieno a un conoscente anziano, amico forse dei suoi genitori, che esibiva uno sguardo molto malinconico.
"Dal call center? Me ne sono andata. Ma per carità. Adesso lavora solo mio marito, è caporeparto alla frutta". Subito dopo ha precisato che neanche il lavoro del coniuge è sicuro, ma meglio di niente. E comunque adesso a lei sarebbe toccato un compito non meno impegnativo: diventare mamma, visto che si era appena resa conto di essere in dolce attesa. Mentalmente le ho augurato buona fortuna. Sperando, naturalmente, che prima o poi possa tornare anche lavorare, perché di certo una mamma casalinga non è un buon esempio, soprattutto se dovesse mettere al mondo una bambina, che un domani finirà per convincersi che anche se sta a casa fa niente.
Tornando alle file dai medici, comunque, tolti quelli che parlano dei propri e altrui acciacchi, in generale ci si sofferma spesso sul lavoro, sul proprio svolto in anni passati, come nel caso di un vecchietto di bassa statura (era poco più alto di me, che come si sa non sono un vatusso), occhialini su un paio d'occhi buoni buoni. "In Germania c'è tutto un altro sistema", mi svelava a un certo punto di un'attesa particolarmente lunga, "lì non vai tu a cercare il lavoro, ma succede il contrario: se ti trovano per strada, ti fermano e ti chiedono se vuoi lavorare da qualche parte. Però se non accetti e ti ritrovano in strada una seconda volta, ti rispediscono direttamente a casa tua".
Dovevano essere ricordi di gioventù, suoi o di qualche conoscente (non ho effettivamente capito se era un ex emigrante, so solo che per un lungo periodo ha adoperato un muletto con una leva assai resistente, un incarico molto delicato che richiedeva una preparazione ad hoc. Mi domando se oggi sia lo stesso, ma immagino di sì almeno nelle grandi aziende. Comunque me lo auguro).
Di fatto lui la sua pensione se l'è guadagnata, cosa che, come ha considerato a un certo punto del suo monologo durante il quale mi sono limitata ad annuire di approvazione, non accade ai giovani. Con il lavoro così spezzettato e insicuro, mi ha spiegato con linguaggio semplice, è difficile pure comprarsi da mangiare. E se non si mangia come si fa?
Già, come si fa?
Si tenta la sorte, sperando che la fortuna prima o poi arrida, cambiando Paese, come facevano non solo gli italiani, ma anche inglesi, scozzesi e irlandesi non so bene in quale periodo storico, nella canzone sopra linkata di Mark Knopfler. A citarmela, è stato ovviamente Sfaccendato, che conosce a menadito tutto lo straordinario repertorio di un musicista di rara classe come l'ex leader dei Dire Straits. Ma la canzone è molto nota anche a me, visto il grandissimo numero di volte in cui l'ho ascoltata.
Nel testo si parla per l'appunto di Germania e di un gruppo di immigrati che dopo il lavoro immerso nel rumore, nella polvere e nel sudore, passa la serata come può, se possibile in compagnia della propria "pretty fraulein".
In pochi versi, il grande Mark affresca la vita dell'immigrato per antonomasia, uguale in tutti i tempi e origini nazionali. Meglio di un reportage, meglio di un'indagine storico-sociale.
Non so se ancora oggi in Germania ti vengano a cercare sulla strada (qualcosa mi dice che non sia più così), ma gli aneddoti raccolti in questi giorni sembrano elargire l'ennesimo messaggio subliminale a intraprendere la via dell'espatrio prima che sia troppo tardi.
Non parlo tanto per noi Sfaccendati, che abbiamo già una certa età e vari impedimenti; penso piuttosto ai giovani citati dal gentile vecchietto e ai ventenni nominati da mio padre in auto giusto ieri. Chi non ha famiglie, figli (o gatti: non si adattano mica così facilmente ai cambiamenti le simpatiche creature) o vincoli d'altra natura fa bene a mollare l'Italia al suo destino.
E pazienza se sarò annoverata anch'io tra i piagnoni tricolore, però, francamente, finché non vedrò uno straccio di segnale di rivalsa morale (ma ci accorgiamo di quello che sta succedendo in Grecia?), finché avremo casi Fiorito-Maruccio-Trota-etc etc, nessuno mi toglierà dalla mente una visione più che mai fosca della terra che mi ha dato i natali.
Vi ho depresso? Ascoltate il brano di Mark e vi tornerà l'energia.
Why Aye Man, amici.

sabato 13 ottobre 2012

Dei medici e dello scetticismo esistenziale



Come tutti gli ipocondriaci, non amo molto andare dai medici, ma a volte, forse proprio per vincere la mia naturale propensione a tenermene alla larga, mi forzo e vado, in nome del principio secondo cui prevenire è meglio che curare. In questo caso specifico, poi, ho una ragione pratica che non sto qui a spiegarvi. Insomma, ieri pomeriggio, con la nostra macchinina scassata (da me), ho parcheggiato nei pressi dell'ospedale. E ho subito sbagliato ingresso. Stavo infatti per entrare nel reparto di medicina d'urgenza, cioè il pronto soccorso. No, decisamente non era il posto giusto. Faccio così la passerella in salita, studio i livelli e i percorsi arcobaleno, ed eccomi in un corridoio spoglio, da nosocomio dell'Est Europa pre-caduta Muro. Mi siedo rassegnata a una lunga attesa. Per buoni dieci minuti resto da sola, poi si unisce una famigliola composta da genitori giovani e bambine piccole molto carine. Simpatizzo con la minore che continua a fissarmi come un marziano. Non a torto, aggiungerei.
E insomma, alla fine tocca a me. Mi trovo davanti un medico sulla sessantina, tondo e un po' spelato, dai modi molto placidi. L'ideale, ma sì, per un soggetto ansioso come la sua nuova paziente.
Dà l'idea di leggersi con attenzione i risultati dei miei precedenti esami, sennonché, poi, il fatto che mi rifaccia la stessa domanda a distanza di pochi minuti, mi dà un po' da pensare.
Ma mi sta ascoltando? O il rinnovarsi degli stessi interrogativi fa parte del pacchetto-visita medica? Detto in altri termini: chiedere ossessivamente le stesse cose è forse un modo per spingere il visitando a rilassarsi in maniera che non rifletta troppo sulla tortura che sta subendo?
Mistero. In ogni caso, rivestitami e posizionatami sulla sediola dove mi aveva fatto accomodare all'inizio, attendo che finisca di scrivere il responso con un vago senso di tensione, cui segue, nel percorso a ritroso verso la macchina, uno stanco sollievo per essermela in fondo cavata con poco.
Stamattina, però, ho commesso l'errore di cercare su internet la sospetta patologia di cui soffrirei. E lì ho realizzato che il simpatico (questo sì) dottore che si è intascato settanta euro (letteralmente: si è messo i denari nella tasca del camice. E' l'ultima immagine che mi è rimasta impressa negli occhi mentre richiudevo la porta dietro di me) con incurante nonchalance ha sì una certa competenza (e vorrei anche vedere), però, come tutti i medici, non ascolta.
Naturalmente seguirò con attenzione tutte le prescrizionii suggerite (dovrò pur ammortizzare la spesa di farmaci e analisi varie), ma qualcosa mi dice che alla fine il sospetto avanzato dal placido dottore rimarrà tale. Meglio fa, a questo punto, il medico di famiglia, il "catastrofico", secondo la definizione appiopatagli dai miei parenti acquisiti, che, prescrivendomi un altro esame, ha chiosato nel seguente modo: "Gli acufeni sono la morte dell'otorino". Ovviamente sono trasecolata e gliene ho chiesto lumi: "In genere non si capisce mai come curarli, ma magari nel tuo caso è diverso", mi ha  risposto ridacchiando. Molto bene, ho pensato io, ritirando dalle sue mani da pianista azzimato l'impegnativa. Anche in questo caso, ormai sono in ballo quindi andrò a farmi analizzare le orecchie (vedi mai che faccio la fine di Beethoven, non nel senso che diventerò un compositore, ma nell'altro).
Però tutti questi episodi mi richiamano alla memoria una lontanissima visita dermatologica cui mia madre mi aveva accompagnato perché lo specialista analizzasse la natura delle macchie bianche che stazionavano sulla mia giovane schiena, residuo di un'eruzione cutanea che mi aveva provocato nei giorni precedenti parecchio prurito. Mentre il medico le osservava penso con l'ausilio di una lente d'ingrandimento, attendevo con impazienza, con mia madre di fronte, che la finisse prima possibile. Finché a un certo punto, gli ho sentito dire, dopo una pausa teatrale degna di Celentano: "E' chiaro che queste sono macchie". E io, di rimando, guardando mia madre negli occhi, ho fatto un gesto come a dire: "Ma va?" e lei per un pelo non è scoppiata a ridere.
Evidentemente, sono sempre stata un emotivo e un po' irreverente osso duro.
Mentre il dottore scriveva e scriveva le ricette e la mia scheda, non ho potuto infatti non pensare all'episodio dei medici in "Caro Diario", uno dei miei film preferiti.
Quand'è uscito, avevo poco più di vent'anni e la mia frequentazione degli studi medici (in fondo è tutt'ora così, per fortuna) piuttosto scarsa, quindi non ero in grado di apprezzarlo del tutto. Negli anni ho rivisto il film di Moretti un sacco di volte e con mio marito spesso ci siamo soffermati proprio sull'ultimo episodio, anche per scacciare la brutta sensazione di essere cavie da laboratorio, che non di rado ti resta addosso dopo qualche esame non proprio simpatico.
Tant'è. La mia natura coscienziosa mi fa comunque mettere su una maschera di coraggio bastevole almeno per sopportare quei quarti d'ora in cui ti passa addosso un macchinario o ti infilzano con un ago. Domina tuttavia in me un certo scetticismo che a questo punto chiamerei esistenziale, che mi fa diffidare, sempre.
E comunque, dai tempi di Caro diario in poi, tutte le mattine, a digiuno, mi bevo un bel bicchiere d'acqua. E meno male che non sarei suggestionabile...


giovedì 11 ottobre 2012

E se fossi un musicista? Scoprilo con il metodo BrainArm di Guido Mallardi!



Ho sempre amato il pianoforte, l'unico strumento capace di produrre, almeno per le mie orecchie digiune da nozioni di armonia e solfeggio, rimbombi carichi di poesia.
Rammento ancora con molto piacere il saggio di musica di Valentina, una delle mie più care compagne di scuola. E dire che lei non era affatto contenta di esibirsi in pubblico. Invece io ho amato ogni singola nota partorita dalle sue mani e da quelle degli altri allievi, pure le più incerte.
Sensazioni simili a quel lontano pomeriggio della mia prima adolescenza sono riaffiorate quasi identiche durante le prove di mio marito e degli altri iscritti all'Accademia professionale di musica di Guido Mallardi, in vista del saggio di fine anno che si sarebbe tenuto da lì a pochi giorni.
Seduta sullo strapuntino di un piccolo divano pieno di spartiti e altri oggetti vari, a pochi passi dall'imponente pianoforte marrone al quale si avvicendavano gli allievi, mi sono sentita completamente a casa. Rispetto all'esperienza di molti anni fa, avevo in più il privilegio di poter osservare assai da vicino i volti concentrati dei pianisti (e di una giovanissima bassista). Ero talmente partecipe del loro sforzo esecutivo da sentirmi praticamente al loro posto. Da lì la mia idea di fotografarli durante il saggio, sempre, naturalmente, che ne fossero contenti sia il titolare dell'Accademia sia gli altri partecipanti. Ricevuto l'ok, ho tentato il più possibile di non disturbarli durante le prove e soprattutto nella prima serata ufficiale e ho scattato, scattato... Tempo fa ho pubblicato le piccole e amatoriali gallerie che raccontavano a modo mio entrambe le serate concertistiche (e parte delle prove generali).
Oggi sono lietissima di diffondere i video ufficiali prodotti direttamente dall'Accademia professionale di musica con il contributo di una piccola fetta delle mie fotografie (com'è giusto che sia) e qualche nota (nel secondo video, quello più breve) di "Pollini", la composizione del mio Sfaccendato preferito...
Quei giorni d'inizio estate sembravano promettere nuovi percorsi con l'autunno tornati a essere alquanto nebulosi. Eppure: niente è perduto, soprattutto quando nasce dal talento più puro.
Se poi quest'ultimo è accompagnato da grande serietà e impegno, i frutti sicuramente arriveranno.
L'ultima frase è dedicata in particolare a Guido Mallardi e alla sua brava e simpatica moglie, Elisa Campofiloni, insegnante di propedeutica musicale per i bambini dai 2 ai 7 anni.
Nonostante tutto, bisogna crederci, con forza e bastevole incoscienza.
A voi e a tutti quelli che verranno a provare il metodo Brain Arm pubblicizzato negli spot sopra riportati, grazie di cuore, per la musica che riuscirete a far sgorgare dalla vostra essenza e per l'effetto rinvigorente che procurerete a chi verrà ad ascoltarvi!

mercoledì 10 ottobre 2012

AAA cercasi lavoro... usando l'inserzione di un altro

Immaginate di stare sfogliando la settimana enigmistica.
A un certo punto vi si parerà davanti il solito gioco delle differenze, stavolta però leggermente diverso.
Ai solutori si chiederà di scovare le differenze tra i due seguenti testi:

PRIMO TESTO
43enne dipl. rag.  esperienza quinquennale ausiliario socio assistenziale si offre per varie mansioni (assistenza di base, pulizie domestiche, spesa a domicilio, accompagno, piccoli lavori casalinghi,  disbrigo pratiche burocratiche, segretariato, servizio dog-cat sitter, cura del tempo libero, ecc.) . Non è servizio sostitutivo di badante, semmai un valido aiuto per piccole ma indispensabili attività quotidiane rivolto a soggetti in temporanea o duratura difficoltà.
Max serietà offerta e richiesta. Paolo


SECONDO TESTO
48enne diploma rag. esperienza ventennale, si offre per varie mansioni (assistenza di base, pulizie domestiche, spesa a domicilio, accompagno, piccoli lavori casalinghi, disbrigo pratiche burocratiche, segretariato, servizio dog-cat sitter, cura del tempo libero, ecc.) in zona fermano-maceratese disponibile a piccoli trasferimenti. Non è servizio sostitutivo di badante, semmai un valido aiuto per piccole ma indispensabili attività. Max serietà offerta e richiesta. Stefano

Capita anche questo agli Sfaccendati: di inventarsi un annuncio e di vederselo riprodotto pari pari (tolte le debite differenze che di certo avrete notato) sul medesimo sito di annunci economici.
Come commentare?
Rivendicare il copyright è non solo ridicolo, ma anche inutile.
Trovo tuttavia davvero triste che ci si debba scippare pure la patente di sfigato nonché attempato ricercatore di lavoro.
A questo punto non so se augurare al 48 enne ragioniere con esperienza ventennale di avere più fortuna dell'autore dell'annuncio da lui copiato-incollato (ebbene sì, copiato-incollato) di soli cinque anni più giovane.
Se mai (quindi mai) dovesse leggere questo mio post, lo pregherei di farmi sapere se è riuscito almeno lui a cavare un ragno dal buco. Lo rassicuro: non c'è pericolo che Sfaccendato man gli faccia concorrenza. Quest'ultimo, infatti, ha ricevuto un certo numero di visite all'inserzione numero uno, pubblicata ormai più di un mese fa (mentre quella di Stefano è fresca fresca... di copiatura), ma mai nessuno l'ha contattato.
Oltretutto Sfaccendato ha provato a riproporlo anche da altre parti d'Italia, caso mai ci fossero più chance da qualche altra parte.
Per ora tutto tace.  E qualcosa mi induce al pessimismo.
Di recente, però, mi si è fatto notare che essere troppo realisti (leggi pessimisti, per alcuni) finisce per bloccare quei meccanismi positivi che a volte riescono a sbloccare pure le situazioni più pantanose.
In nome di questo principio, che in fondo in fondo condivido (è così facile illudersi), non aggiungo ulteriori lamentazioni.
Mi limito giusto a una chiosa finale: come pensiamo di risollevarlo questo Paese se continuerà a ingrossarsi la schiera dei quarantenni a spasso?
Ne ho già parlato, ma ribadirlo non fa male: la guerra generazionale è più che mai aperta, non solo verso i vecchi che non se ne vogliono andare, ma purtroppo anche verso i giovani assunti (quando capita) non perché più dinamici o più hi-tech, ma esclusivamente perché più economici.
Tutti gli altri (cinquantenni compresi: il dramma per loro è forse anche maggiore) possono scordarsi una seconda opportunità.
E però ogni tanto qualche segnale in controtendenza arriva: finalmente c'è qualcuno che ha capito che, anziché ricandidarsi, è meglio "occuparsi della formazione dei giovani" (non oso pensare come).
Sull'altro fronte, invece, c'è chi dice che si sente ringalluzzito e rimotivato a non schiodare pur di contrastare l'ascesa del rottamatore fiorentino.
Pur non avendo particolari simpatie per Matteo Renzi, ammetto che alcune sue uscite sulle differenze d'età tra lui e il grosso dei politici tuttora in auge mi hanno fatto molto ridere. Sottolineo però un fatto: Renzi non è giovane, bensì è un adulto con un ruolo pubblico di un certo rilievo.
Del resto, non scordiamocelo, siamo in Italia, dove non si è mai abbastanza vecchi per avere ruoli di comando (a patto di non essere stati imbucati da qualcuno), ma neanche abbastanza giovani per poter ricominciare daccapo. Con umiltà, sì, ma anche con dignità.
Sì, dò il mio in bocca al lupo a Stefano e a tutti gli Sfaccendati d'Italia.
Però, per piacere, usate un po' più di fantasia, una qualità che, magari, vi aiuterà anche a ritrovare una strada adatta al vostro sacrosanto desiderio di riscatto.

venerdì 5 ottobre 2012

Dedicato a Linda... sperando che l'emergenza passi in fretta!

Continua il periodo brazileiro, forse alimentato anche da un lentissimo (e crudelissimo) cambio di stagione. Dedico il post a mia sorella che in questo periodo sta combattendo con una bizzarra vicenda che mi ha riportato decisamente indietro nel tempo. Preferisco non spiegare di che si tratta per una questione di privacy, ma al momento opportuno saprò ricavarne uno scritto degno dell'episodio.
Posso soltanto aggiungere che, come direbbe mia madre, "non è male che ci canta li previti", mia libera trascrizione dal dialetto natìo.
La canzone mi è nota da tempo, per ragioni ovvie a chi conosce me e mia sorella, ma in questo caso posso anche specificarlo: il suo nome è Linda, per me il più bello che ci sia, prescindendo dall'adorazione dalla sottoscritta nutrita per colei che è stata il mio modello di tutta l'infanzia e buona parte dell'adolescenza.
Praticamente non abbiamo mai litigato: c'è stato un solo episodio in cui mi sono sentita mortificata da lei. Ero salita a casa della sua amica che aveva dato un party presumo pomeridiano o poco più. Linda doveva aveva circa quattordici anni e giocava a fare la grande. Ero salita giusto per avvisarla che l'aspettavamo in auto, mio padre ed io. Che onta per una dura come lei. Mi cacciò via con stizza. Una volta a casa, però, davanti alle mie lacrime (non le rammento, ma ci posso scommettere: sono sempre stata una piagnona) e al rimprovero di nostra madre, Linda si scusò. Eravamo distese nei nostri lettini paralleli, le luci delle abat-jour ancora accese prima della notte ormai fonda.
Per il resto, tra noi ci sono state molte risate e originalissimi giochi in comune, in un clima di reciproco scherno sempre affettuoso che ancora oggi contraddistingue i nostri rapporti.
Ed è ben per questo che le dedico la versione più moderna della canzone resa celebre da Caetano Veloso, per renderle più lievi questi giorni di tregenda... sanitaria! Ho scelto appositamente la versione 2012 per stare giusto un po' più al passo con i tempi: oggi l'ancora affascinante Caetano esibisce una folta chioma bianca e sembra divertirsi un mondo in quella che sembra una sorta di domenica in brasiliana:


A Linda in bocca al lupo... e dacci sotto con la bonifica!

martedì 2 ottobre 2012

Tutto scorre, pure l'amicizia

Non so il portoghese, ma conosco il testo di Tempo Rei di Gilberto Gil da moltissimi anni.
Ho notato che soprattutto quando mi sento uno straccio (la cenciona del precedente post), ricorro alle musiche brazileire per cercare di tirarmi su. Sono consapevole della doppiezza di quei ritmi, insieme caldi e nostalgici, e forse è proprio per questo che li faccio suonare sullo stereo o direttamente nelle mie orecchie come in questo momento.
Questa canzone, in particolare, è sempre stata il simbolo del mio modo di vedere la vita, però ho appena scoperto che non ne avevo capito il titolo.
"Tempo rei", letteralmente, significa "Tempo sovrano", ossia che tutto dipende dallo scorrere di quelle clessidre che determinano il nostro essere su questa terra.
Del resto, anche il modo fantasioso in cui l'avevo tradotto nella mia testa non era poi così errato, dal momento che mi ha sempre ricordato il famoso "panta rei" di scuola greca, ossia "tutto scorre", dai fiumi che mi fermo troppo spesso a guardar passare, ai nostri giorni.
Non mi illudo, come canta il grande Gilberto, che tutto possa restare così com'è né, d'altra parte, lo voglio. Detesto anzi la stasi e mi sento vera e in pace con me stessa più spesso nelle fasi di passaggio da un luogo a un altro che non quando sono arrivata a destinazione. Meno che mai quando sono a casa. Ma questo penso di averlo già scritto.
Su un aspetto, però, sono molto brazileira anch'io, o per lo meno con l'idea assolutamente superficiale che ho di quel Paese: ho nostalgia delle persone che hanno rappresentato qualcosa nella mia vita e non riesco facilmente ad accettare che ciò che mi aveva unito a loro non ci sia più.
Naturalmente, quando ne prendo coscienza, reagisco in maniera differente a seconda del grado di confidenza e affetto che mi legava a ciascuno dei tanti persi per strada. Per alcuni ex colleghi, per dire, provo più o meno una sorta di cameratismo da compagni di scuola di verdoniana memoria. In altri casi, invece, sentirsi scaricati del tutto fa male.
Mi è successo giusto ieri, un'altra volta. E mi succederà di nuovo, lo so.
Dev'essere la mia immagine accogliente e apparentemente svagata che spinge gli altri a vedermi sempre nello stesso modo. E del resto, nessuno di noi ha voglia di dare ascolto a un musone problematico: ci piace pensare che il nostro interlocutore sia sempre sorridente e rassicurante esattamente come appare.
E io sono una campionessa della rassicurazione.
Sto scrivendo frasi oscure perché non voglio fare nomi e cognomi (non è necessario), ma comprendo con chiarezza via via crescente che nella fase due della mia vita di donna che si avvia alla maturità dovrò abbandonare una buona volta comportamenti e aspettative antiche.
L'amicizia è una perla rara, rarissima, possibile solo tra chi non si aspetta nulla dall'altro, né rassicurazioni a buon mercato né consigli pratici. Gli amici veri si mandano anche a quel paese, ma non si mascherano. Parlo anche di me, che pur di non soffrire di solitudine o per vigliacco bisogno di sentirmi accettata, ho spesso scelto di fare la buffona o la finta cinica oppure, al contrario, mi sono calata nei panni della crocerossina bonaria un po' distaccata dalle passioni del mondo.
Nessuno di questi comportamenti ha spostato di una virgola ciò che gli agognati amici pensavano di me. La loro distanza è rimasta la medesima e in certi casi si è pure allargata.
Per guarire dall'ennesima frattura, insomma, sto scrivendo queste righe ascoltando uno dei grandi classici della mia prima giovinezza.
Dopodiché, però, uscirò dal blog e da questa guazza depressiva.
Il tempo è sovrano, il tempo scorre: non conviene buttarlo dietro a illusorie nostalgie per giorni e persone che non torneranno più. Possiamo solo andare avanti. E io, come tutti, lo farò.

venerdì 28 settembre 2012

Cencioni sì, ma di gran classe

Lorenzo Viani, Famiglia di poveri

Da qualche parte devo aver già parlato dello strazzer evocato spesso nella famiglia di mio marito. Si trattava di un tal Masagnana, che dio l'abbia in gloria, trasformato in nomignolo da mia suocera Marisao, quando vuole sottolineare l'ineleganza (vera o presunta) dei figli.
Non mi pare invece di essermi mai soffermata sulla versione chietina/abruzzese dello stesso concetto.
Cengione o cingiune, a seconda della maggiore o minore abilità glottologico-fonetica nel pronunciare il dialetto natìo, è colui o colei che si abbiglia male per ragioni innanzitutto economiche. Ma non solo.
Può infatti essere definito tale anche chi, semplicemente, non conosce le regole del buon vestire, per le fattezze nonché la qualità dei capi prescelti, oppure per una precisa scelta ideologica.
In quest'ultimo caso, però, ci si candida a venir annoverati tra i zezzone, altrimenti chiamati, dalla schiatta generata da Marisao e i loro conterranei padani, vunciùn.
Mi sorge però una domanda, stimolata dal dialogo avuto con mia madre giusto ieri pomeriggio. Quest'ultima ha infatti attribuito a un oggetto le caratteristiche sopradette, lasciando intendere che la medesima parola si presti a più utilizzi. Insomma: si può essere cingiune non solo nell'aspetto personale, ma anche negli oggetti che usiamo nella nostra quotidianità.
L'aggettivo, in definitiva, individua una precisa condizione del vivere; di più: è la sintesi di una vera e propria ontologia, altrimenti detta filosofia di vita. Se si è cingiune d'aspetto, insomma, è facile che siano tali anche le nostre cose; ma potrebbe essere vero anche il viceversa.
Una volta (questo lo ricordo) ho parlato della differenza tra accricco e accrocco.
In un certo senso, entrambi possono far parte della sopra detta ontologia, però è meglio non addentrarsi troppo in queste sottigliezze perché allora dovrei introdurre anche la parola bandone, che indica un oggetto grosso, sgraziato e soprattutto mal funzionante, come ad esempio una vecchia automobile. La nostra Micra è sicuramente l'una (cingiune) e l'altra (bandone), ma immagino che un vecchio materasso non possa essere giudicato anche con il secondo aggettivo. Ed è proprio un materasso che, per l'appunto, mia madre ha apostrofato così.
Il che mi fa pensare che anche quando lo si riferisce a un oggetto, si resta comunque nella sfera intima. Sì a dirlo di una maglietta (o una mutanda) senza elastan, no ad affibbiarlo a un ferro da  stiro o ad altro malandato accricco.
Resta comunque il fatto che quando lo si dice di una persona, nello specifico di noi stessi, fa molto più colpo. In questi giorni, per esempio, Sfaccendato e io siamo due cingiune all'ennesima potenza, visto il raffreddore da fieno che ci siamo passati a vicenda. Anzi, per la precisione: io l'ho passato a mio marito.
Oggi tocca a lui non mettere piede fuori di casa, abbigliato come si confà a un masagnana afflitto da voce nasale. A mia volta, anch'io non sono esattamente chic, con la mia tuta cinese e la magliettina non proprio linda.
E tuttavia, per fortuna, non mi sento cingiune nella psiche, riscossa probabilmente da un istinto di sopravvivenza più testardo di qualunque sfiga, interna o esterna.
Forse il secondo tempo sta cominciando.
L'importante è crederci, nonostante l'atmosfera di un presente,  non solo personale, che più cencioso non si può. 

mercoledì 26 settembre 2012

Da Jane a Cita, in attesa che cominci questa benedetta seconda vita



Il precedente post deve aver scatenato la ubris divina: "Pensi di somigliare, tu o tua madre, a Jane Fonda?", si sono detti gli dei di qualche incerto Olimpo, "E allora beccati una para-influenza rammollente".
Così è stato. Se lunedì decantavo i prodigi psicofisici delle mie insegnanti di aerobica-step-gag-squat etc etc, oggi mi sento come se mi avesse schiacciato un caterpillar.
Passerà (per forza), però lo stato di abbattimento e il ronzìo delle orecchie mi ha portato all'ennesima amara riflessione sul mio stato di non-lavoro, meglio, di non-disoccupazione assoluta.
Ogni tanto rilancio gli appelli dei colleghi precari che stanno ancora in qualche modo a galla, ma in verità mi sento sempre più lontana da un mondo del quale, alla fin fine, ho fatto parte solo per pochi anni. Su New Tabloid, il mensile dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia, c'era un interessante primo piano sull'uso di Twitter per i giornalisti. I più bravi, pare, sono definiti "twitteri". Al di là della forma, leggiucchiando (mentre mi misuravo pateticamente la febbre che non ho) oltre, mi sono vista allo specchio: sono Cita non solo nel fitness (almeno per questa settimana non credo che riuscirò a tornare in palestra), ma ancora di più mi sento e temo mi sentirò (purtroppo non solo per sette giorni) una specie di australopiteco dell'informazione, per la mia distanza sempre più marcata dai nuovi media. Non che non li bazzichi, ma sinceramente non riesco a vederne il risvolto pratico per la mia vita e quindi per il mio status di pennivendola poco venduta.
Non è una lamentela da canto (diurno) di venditore d'acqua calda di bracardiana memoria. Temo sia la realtà dura e cruda. Non sono mai stata una che sta sul pezzo, nel senso moderno della brutta espressione gergale. Il punto è che - probabilmente - non mi va neanche di esserlo, se questo significa cinguettare tutto il giorno o anche solo seguire compulsivamente tutte le news.
Oggi sono rientrata sul mio profilo Twitter (sul quale mi limito a rilanciare i post che scrivo sui miei blog o al limite le boiate che pubblico su Facebook), ma mi sentivo spersa, un po' come la nostra gatta che non ha ancora capito di essere stata adottata.
Sono una specie di Heidi anch'io, ma in fondo lo sono sempre stata.
Per combattere la sindrome dello spaesamento, mi servirebbe - ne sono consapevole - un ambiente fertile e stimolante intorno a me, ma tolte le esperienze preziosissime che continuo a cercarmi come l'aria, poi me ne ritorno qui e la mosciaggine si reimpossessa di me.
So bene di essere condizionata dallo stato di salute attuale, però ho bisogno di uscire, da questa casa, ma ancora di più da un guado che mi fa piangere di amarezza quando mi capita, come m'è successo giusto qualche giorno fa, di ritrovare vecchi esercizi di stile decisamente buoni, rimasti lì a impolverarsi insieme con il mio primo, più che obsoleto portatile.
Mio padre me ne ha da poco regalato uno nuovo: per la precisione è il terzo che mi elargisce.
Quanto vorrei che mi servisse a buttarmi per davvero, o almeno a togliermi quel senso forse molto più antico di me di fallimento che mi ha fatto fuggire da luoghi più faticosi, ma decisamente più vivi di quello in cui ho scelto di rifugiarmi.
Mi scuso per il tono di autocompatimento di queste ultime righe, anche perché so mi scuoterò (in fondo l'ho sempre fatto), però non ho voglia quasi mai di sterili rivendicazioni. Ho talento, di questo sono sempre stata convinta, ma non sono un genio e se anche questi ultimi fanno fatica nel nostro Paese, figuriamoci quanta ne fanno quelli come me anche con un pizzico di fiducia e di incoscienza in più di quanta ne abbia mai avuta io.
Il tempo, comunque, non scorre mai invano. Mi fa soffrire, ma sono contenta per lo meno della mia consapevolezza.
E poi la vita non è finita. Magari sta solo per cominciare un secondo tempo.
Basta solo aspettare. E tornare in palestra per allenarsi ad affrontarlo con i muscoli ben caldi.

lunedì 24 settembre 2012

Come Jane Fonda... più o meno


Oggi, purtroppo, ho la febbre. Un febbrone da cavallo, penserete voi. Per quanto mi riguarda è proprio così, dal momento che mi ammalo molto raramente. Ho... trentasette e uno, udite udite, ma è come se fossi a un passo dal delirio. Temo peraltro di esserlo già abitualmente, ma lasciamo andare.
La foto che vedete in alto, del resto, potrebbe già bastare a capire in che condizioni sono.
Tempo addietro ho realizzato che tra mia madre e la Jane Fonda regina del fitness degli anni Ottanta c'era una certa somiglianza. Chi mi conosce superficialmente ravvisa a sua volta una certa comunanza tra la prima e la sottoscritta (e d'altra parte sono figlia sua e a chi altri potrei mai rassomigliare?).
Sillogisticamente, credo, ho anch'io qualcosa della Jane. Preciso subito che non si tratta delle gambe (le mie sono, diciamo così, più forti e un tantino più corte).
Quel che più ci accomuna, in ogni caso, è proprio la passione per la ginnastica, rinvigoritasi in me da quando vivo nelle Marche, dopo una lunga fase di stop che mi aveva appesantito nel fisico e nell'anima, e via via mai più lasciata. Da un paio d'anni, in particolare, frequento la palestra simil-comunale di Fermo (la cosiddetta palestra del Coni, anche se in verità è gestita da una cooperativa che mi ha dotata persino dell'asciugamano "aziendale"), che mi piace assai per l'ambiente assolutamente nazional-popolare.
A frequentare i corsi di ginnastica, siamo donne di tutte le età e immagino ceto sociale, dai 14 anni alla sessantina e passa. La frequenza scema con l'avvicinarsi della bella stagione o del Natale, però le assidue come me restano comunque numerose.
Non so spiegare perché, ma quando sono lì che salgo e scendo dallo step o dopo, quando guardo le forti luci al neon mentre ci massacrano con gli addominali, è come se vivessi un processo mistico, come se finalmente uscissi da me stessa per diventare tutt'uno con il tappetino, confortata e stimolata dalle tante gambe all'aria che vedo intorno a me.
Mi piace mescolarmi alla massa di donne in tute da ginnastica e osservare, tra una pausa e l'altra, il gruppo delle ragazzine del liceo, le più carine del corso, che chiacchierano tra loro canticchiando le brutte canzoni dance che ci danno il ritmo degli esercizi e poi conversare di inezie con una giovane laureanda con cui abbiamo stretto una forma di amicizia da quando ci siamo accorte di essere tra le poche fanno la doccia lì.
Insomma: aspetto di solito con grande entusiasmo le ore di ginnastica settimanali, che si tengono il lunedì, il martedì (giorno dell'accumulo maggiore di acido lattico, per via dei circuiti della tostissima insegnante sessantenne... altro che Jane Fonda) e il giovedì.
Oggi, ahimè, sono costretta a saltare (il lunedì c'è Tiziana, la bionda energetica insegnante con una inesauribile fantasia per le coreografie), ma spero proprio di rimettermi in fretta.
C'è infatti una sensazione davvero impagabile che provo solo alla fine, quando, dopo la doccia e la parziale (accidenti a me) asciugatura dei capelli, mi rimetto in macchina e percorro i pochissimi chilometri che mi separano da casa. In quel breve tratto, mi sento completamente in pace con me stessa, pronta ad affrontare qualsiasi sfida, in una sorta di limbo psicofisico carico di benessere.
Ecco. Sarà questa la vera ragione che ha spinto la Jane a darsi all'aerobica. Ancora adesso (almeno fino a un paio d'anni fa sicuramente) insegna ginnastica agli anziani a distanza, con quel sorriso tipico delle vere maestre del muscolo tonico, capaci di farti sentire più magre e più flessuose già dopo una sola sequenza di glutei o di squat.
E se davvero (ma sarà vero?) che un po' le somiglio, mi auguro soprattutto di conservarne lo spirito. A differenza sua, infatti, non credo che potrò (né forse vorrò, ma mai dire mai) ricorrere al chirurgo estetico, al momento del prolasso inevitabile.
Ma qui posso dirlo: mia madre è ancora piuttosto piacente (checché ne dica lei), quindi se è vero che buon sangue non mente...
La vedremo. Per forza. Il tempo corre. Accidenti se lo fa.

venerdì 21 settembre 2012

Natsume Soseki/3: il matrimonio? Una barbarie destinata a scomparire

Premetto: sono felicemente sposata, ma sono arrivata al matrimonio (civile) a una certa (e veneranda) età. Non sono quindi nella posizione di criticare coppie, etero o meno, che desiderino fare altrettanto.
Resto però piuttosto sconcertata dalla generale ansia da regolarizzazione amorosa che si respira in questo Paese. Perché una cosa sono i sacrosanti e civilissimi registri delle unioni civili, altro è la brama dei fiori d'arancio. Non sarebbe meglio concentrarsi sul riconoscimento alle coppie di fatto dei medesimi diritti che hanno le coppie sposate anziché insistere sulla possibilità o meno di mettersi un anello al dito?
Un'altra faccenda ancora è la possibilità di avere figli (quindi di adottare oppure di procedere attraverso la fecondazione di un utero in affitto o con l'impianto degli ovuli nel caso di coppie lesbiche), sulla quale, ugualmente, non mi pronuncio se non per ricordare alle coppie gay che ne esistono altrettante (anzi, numericamente forse saranno anche molte di più) eterosessuali alle quali non è consentita nessuna delle suddette strade. Anche in questo caso, in sostanza, non sarebbe meglio concentrarsi sull'allargamento delle strade per avere figli in generale, etero o meno che siano le coppie di aspiranti genitori? Lo sanno Vendola e compagno che se non hai un reddito adeguato non ti verrà mai dato un bambino in adozione né tanto meno ti sarà possibile procedere alla fecondazione eterologa che costa un botto di soldi, soprattutto se si va all'estero a effettuarla?
Pur rispettando, insomma, le scelte sessuali e di vita di ciascuno, mi sembra che come al solito in questo Paese si alzino polveroni giusto pour parlez.
Mi colpisce, pertanto, ancora di più la modernità di Natsume Soseki, l'autore giapponese di cui ho già parlato nei due precedenti post: di seguito trascrivo qualche brano tratto da Io sono un gatto dedicato al matrimonio. Come ho già detto, non sono sicura di essere completamente d'accordo con lui (essendomi sposata anch'io e non solo per questa ragione), però mi ha fatto molto riflettere. E sono sicura che possa fare  analogo effetto pure a voi che passerete di qua.

Un bel giorno un filosofo discenderà dal cielo per predicare una nuova verità. Ecco quello che dirà: l'uomo è un animale dotato di personalità. Annullare questa personalità equivale ad annullare l'uomo... Continuare a sposarsi, costretti da un'abitudine perversa, è una barbarie contraria alla natura umana, una barbarie perdonabile in un'epoca ignorante in cui la personalità non si era ancora sviluppata, ma nella nostra epoca civilizzata non fermarsi a considerare la scelleratezza di quest'usanza perniciosa sarebbe un grave errore. Oggi che siamo arrivati a un alto livello di civiltà, non c'è motivo che due personalità distinte si associno con un grado di intimità superiore al normale... dobbiamo opporci con tutte le nostre forze a quest'usanza perversa, per il bene del genere umano, per il bene della civiltà, per preservare la personalità dei giovani stessi...

E più avanti, rispondendo alle contestazioni di un giovane interlocutore (la frase riportata sopra è di uno dei protagonisti della storia: l'irriverente Meitei, uno dei possibili alter-ego, oltre al gatto, dello stesso Soseki):
L'arte conoscerà lo stesso destino della coppia. Sviluppare la personalità significa renderla libera. E avere una personalità libera, per un individuo, significa essere soltanto se stesso... in futuro, ogni individuo avrà una personalità distinta e originale, e dei versi composti da qualcun altro non presenteranno più alcun interesse... Prendete Meredith, prendete James... hanno pochissimi lettori. Quattro gatti. Perché per trovare le (loro opere) interessanti bisogna avere una personalità della stessa forza. Questa tendenza andrà accentuandosi sempre più, finché si arriverà a un momento in cui il matrimonio verrà considerato immorale, e l'arte sarà abolita. Non credi? Il giorno in cui le parole scritte da te mi saranno incomprensibili, e tu non capirai quelle che scrivo io, fra me e te non sarà né arte né un accidenti di niente. 

Più avanti Sosuke-Meitei mette a confronto la cultura occidentale e quella orientale, giudicando la seconda inutilmente superiore: lo sviluppo della personalità, causa della fine del matrimonio e dell'arte, finirà per produrre irrimediabili depressioni nervose anche sui seguaci del taoismo.
Tolto, però, l'esito pessimistico del suo ragionamento, bisogna ammettere che siamo già nell'epoca in cui tutti parlano ma nessuno ascolta.
E il dibattito sui matrimoni gay ne è solo l'ultima conferma: tra un mese chi se ne ricorderà più?
E chi verrà davvero a leggersi il mio blog tra i milioni e milioni di omologhi che infestano il Web? Quattro gatti, nel mio caso, sarebbe già un lusso.
E tuttavia, mi auguro dal profondo che sia ancora possibile fare arte e dare speranza alle generazioni che verranno, al di là di come siano venuti al mondo e chi li abbia cresciuti.
Di questo soltanto dovremmo discutere, se davvero abbiamo a cuore il futuro dell'umanità, e non delle elezioni del 2013, basate, quelle sì, su matrimoni stretti da forze politiche muffite e vetuste.

giovedì 20 settembre 2012

Natsume Soseki, una scoperta preziosa


Detto fatto: ho cercato qualche informazione in più su Natsume Soseki, nella foto sopra, tratta dalla pagina Web della casa editrice Neri Pozza che ha tradotto immagino una parte della produzione letteraria del grande scrittore giapponese.
Oltre a Io sono un gatto credo che varrebbe la pena leggere Guanciale d'erba, il libro preferito di Glenn Gould (noto misantropo afflitto da strane manie igienistiche, quindi proprio il genere che piace a me, che sono un po' masochista) e E poi, incentrato sull'amore di un rampollo di buona famiglia per una giovane dallo sguardo malinconico e gli occhi grandi (masochista e pure romantica, che brutto carattere).
Direi che il tipo dalla raffinatissima scrittura se lo meriti, considerato come ne ho fatto la conoscenza, ossia per via dell'errore di una cassiera che me l'ha infilato nella busta degli acquisti senza farmelo pagare.
Certo, ho ancora diversi tomi (e tomini, che non sanno di formaggio. Uh, che battuta) da affrontare, ma tanto lo so che non ce la farò mai e che continuerò ad accumularne di nuovi.
In ogni caso, Soseki è stata davvero una bella scoperta. Ed è sempre piacevole accorgersi che c'è sempre spazio per imparare ancora.

lunedì 17 settembre 2012

Il Novecento secondo Natsume Soseki. E il suo gatto

Bice e Io sono un gatto
Mai fidarsi delle scritte civetta sui libri, comunque, per lo meno, è bene diffidarne.
Io sono un gatto di Natsume Soseki è entrato per caso a far parte della mia libreria, grazie a una gentile (quanto inconsapevole) commessa della Feltrinelli di Pescara. Per mesi ho tenuto perfino lo scontrino, nel quale non c'era traccia dell'acquisto da me, effettivamente, non previsto. Avrei voluto riportarlo, in altri termini, fino al giorno in cui, a metà estate, l'ho sfilato dal ripiano dei libri non ancora letti (l'accumulo degli inevasi ahimè continua) e ho finito per cambiare idea.
Ad attrarmi, lo confesso, le famigerate scritte-recensioni sulla copertina e sulla quarta.
"Un romanzo allegro e importante, scritto per il divertimento dei lettori. Di ieri e di oggi", recitava la scritta in copertina, tratta - ma sarà vero? - da La Stampa.
A divertirmi mi sono divertita, almeno a tratti e non posso negare l'importanza dell'opera di questo autore giapponese vissuto a inizio Novecento, da quel che ho capito una sorta di Alessandro Manzoni del Sol Levante.
Le scritte, però, non erano finite: in quarta si dice che protagonista del libro è un "gatto, nero, audace, scettico, creativo, fine osservatore e filosofo". Tutto giusto tranne il fatto che il gatto non è nero, bensì giallino o qualcosa del genere. Il nero che vi si descrive è rozzo e poco incline alla speculazione, ma se non fosse stato per l'imprecisione, tutto sommato, il resto risponde abbastanza al vero. In questo caso la recensione in pillole va attribuita a L'Espresso.
Più sinteticamente (e direi più appropriatamente) Alias del Manifesto giudica Io sono un gatto come "il primo romanzo giapponese moderno". Pur non potendo giurarlo (non so niente di letteratura giapponese, tolto un po' di Murakami e qualcosa di Mishima), il libro parla proprio dei mutamenti nella società di inizio secolo scorso prodotti dalla modernità e dai sempre più frequenti contatti con l'Occidente.
Ed è proprio qui il punto: non è affatto un romanzo allegro. Certo, a tratti si sorride, in qualche caso si sghignazza pure, ma ogni parola è pervasa da un sottile smarrimento, lo stesso - all'incirca - descritto da tanti romanzi coevi di altre latitudini.
Il Novecento, d'altra parte, ha prodotto la più grande rivoluzione nei costumi mai vista prima, di pari passo con innovazioni tecnologiche dall'impatto enorme. Pensiamo solo alle automobili, agli aerei, ma anche al cinema e al telefono. Insomma, con il secolo nel quale sono nata anch'io è cominciata l'era della velocità, dei mutamenti rapidi. Direi proprio che è cominciata l'epoca del non ritorno.
In assoluto, indietro non si torna mai, ma in particolare non è possibile fermare il progresso tecnico, anche quello che ci fa bruciare tonnellate e tonnellate di energia, con conseguenze probabilmente ancora più terribili di quelle preconizzate dagli ambientalisti.
Non siamo più capaci di rallentare e chi lo fa spesso vi è semplicemente costretto. Chi invece decresce consapevolmente, intendo dire, chi applica i principi - a parole - giustissimi dalla cosiddetta decrescita felice, sa di essere destinato a restare minoranza. Gli altri, i miliardi di poveri che abitano la terra, vorranno continuare a crescere. Eccome se lo vorranno.
Mai periodo storico è stato più vorace di quello che ha causato così tanta acuta inquietudine nello scrittore giapponese.
Pur non svelando il finale della storia, insomma, consiglierei di leggere Io sono un gatto fino in fondo per poterlo giudicare nella sua interezza.
Qui mi limito a suggerirvi di soffermarvi sulle pagine dedicate alle previsioni sul futuro della società, in cui, in estrema sintesi, finiremo per starcene ciascuno per conto nostro, decidendo anche il giorno della nostra morte.
Non so se sono d'accordo con Soseki, so solo che quelle pagine mi hanno molto impressionato.
Mi riprometto infatti di tornarci su e di approfondire un po' meglio la biografia di questa straordinaria personalità.
E in ogni caso, che abbia scelto di incarnarsi in un gatto (forse proprio nel suo?) per parlare di massimi sistemi è estremamente significativo.

venerdì 14 settembre 2012

Gli eroi di tutti i giorni e l'intimo errare verso l'alto... nonostante tutto!


Ho scattato questa non memorabile fotografia a Sassoferrato, un piccolo borgo dell'Anconetano che ho avuto occasione di visitare di recente. Ero rimasta colpita dall'intrico di linee orizzontali e verticali che celavano solo parzialmente, oltre alla scritta nel cartello, un magnifico orto, uno dei molti che ingentiliscono i paesi d'Italia lontani dai centri urbani maggiori.
Inconsciamente, devo aver associato l'eroismo dei grandi combattenti di tutti i tempi a quello molto meno visibile, ma non per questo meno importante, di coloro che lottano con tenacia per strappare manciate di ettari, magari anche solo qualche metro, alla cementificazione allo scopo di farvi crescere qualcosa di vivo.
Quando ne incontro qualcuno, provo un grande senso di pace e anche un pizzico di invidia per chi è molto più avanti di me nella comprensione di ciò che più conta nella vita.
Curiosamente, ho poi scoperto che il libro di Luciana Quaia, intitolato Intime erranze, il familiare curante, l'Alzheimer, la resilienza autobiografica, da me letto per motivi professionali, si incentra proprio sul concetto dell'eroe di tutti i giorni, ossia di colui o colei che non compie atti memorabili per passare alla storia, bensì è capace di affrontare un cambiamento prodotto da eventi critici piegandosi, sì, ma non spezzandosi. Come? Magari anche dedicandosi alla cura di un piccolo orto. In ogni caso, sapendo guardare autenticamente dentro di sé per acquisire un nuovo centro. C'è infatti una sottile differenza tra le parole resistenza e resilienza. La prima viene in genere associata alle azioni di lotta di chi combatte contro un tiranno; la seconda proviene dalla fisica - ho scoperto - ma è ormai di uso comune nelle psicoterapie a beneficio di chi ha subito un forte trauma, per esempio l'essersi ritrovato alle prese con la grave malattia di un familiare.
A mio avviso, però, imparare a piegarsi senza spezzarsi riguarda un po' tutti, a maggior ragione chi non trova consolazione in una religione o in qualche forma di meditazione trascendentale.
Il dolore fa parte della vita e solo se si hanno spalle abbastanza larghe e muscoli sufficientemente flessuosi si può andare avanti e magari diventare anche migliori.
Del libro di Luciana mi hanno colpito in particolare le citazioni letterarie (non essendo una tecnica della sua materia, penso fosse inevitabile). Due sembravano scritte appositamente per me.
Ve le trascrivo.
Da Giuseppe Conte, Il passaggio di Ermes. Riflessioni sul mito:

Quando, nel mezzo di una conversazione concitata, cadeva all'improvviso un istante di silenzio, i Greci dicevano: 'passa Ermes'.
Ermes, il dio viaggiatore, che viene da lontano ed è già pronto a ripartire, il dio messaggero, il dio delle piazze affollate, dei crocicchi, presente sulle porte d'ingresso delle città e delle case, il dio dei mercati e dei mercanti, ha dunque a che fare anche, e imprevedibilmente, con il silenzio. Con quel silenzio subitaneo ma quasi preordinato, leggero come un soffio e profondo come un baratro, in cui ciascuno di noi sente la propria solitudine sulla terra, la difficoltà di ogni comunicazione, la sospensione stessa dell'essere sui suoi fondamenti, e avverte l'irruzione di una forza invisibile, fulminea ed amica presso di sé. E' il silenzio dell'anima: Ermes, con il suo passare, ci porta intorno all'anima un messaggio muto: ci dice che la sua funzione di guida e di scorta riguarda soprattutto lei, il suo viaggio verso le ombre. E ancora: Ad Ermes interessa rendere mobile lo spazio, essere sempre nel punto dove si transita, dove una porta si apre, e nel visibile irrompe l'invisibile.

Spesso mi sembra di essere come Ermes, ossia di essere vera solo nei passaggi da uno stato all'altro. Sarà che nel mio nome c'è l'atto dell'andare, del condurre? Di parole da aggiungere ne avrei, ma preferisco lasciarvi riflettere sulle assai più interessanti frasi del poeta citato da Luciana.

L'altra citazione che mi ha fatto trasalire è verso la fine del libro ed è di Emily Dickinson:

Non conosciamo mai la nostra altezza
finché non siamo chiamati ad alzarci.
E, se siamo fedeli al nostro compito, 
arriva al cielo la nostra statura. 
L'eroismo che allora recitiamo
sarebbe quotidiano, se noi stessi
non c'incurvassimo di cubiti
per la paura d'essere dei re.

E delle regine. Di poco più di un metro e mezzo, per quanto mi riguarda.
Il mio intimo errare, insomma, continua: grazie a Luciana per avermene fatto prendere più consapevolezza. E non è detto che non mi metta a realizzare gli esercizi di scrittura autobiografica che proponi per ragioni molto più serie della mia auto-analisi da giornalaia!