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lunedì 10 marzo 2014

Marcella e la vera amicizia. Per sempre

 
 
 
E poi succedono cose del genere. Piccoli miracoli che ti strappano un sorriso. E anche un po' di commozione trattenuta.
Marcella è mia amica da sempre.
Ci saremo anche allontanate, non solo geograficamente, ma la nostra essenza è ancora tutta qui, nella foto che vedete sopra e in quelle sotto.
 
E io, in fondo, l'ho sempre saputo.
Un'amicizia nata ancora prima di noi, grazie a quella, tuttora molto solida, tra i nostri genitori, non può perdersi solo per colpa della vita.
Marcella, forse, certe cose di me non le ha capite né potrà capirle.
Io, a mia volta, non sarò mai in grado di essere così naturalmente affettuosa, così naturalmente simpatica come lei.
 
Scrivo queste parole con molta lucidità.
Tra me e lei, la pallosa fifona sono sempre stata io.
Tra la mia e la sua Barbie la sua era sempre un pizzichino più bella della mia perché era giusto che fosse così: Marci non ha paura di mostrarsi, non ce l'ha mai avuta, o se ce l'ha avuta, l'ha saputo nascondere molto bene.
 
Io, invece, temevo il cavallo della Vidal, piangevo anzi, quando lo vedevo correre libero sulla spiaggia, ascoltando quella musica che adesso non so più come facesse.
Marcella è riccia, di quel riccio che ho sempre amato molto.
Ha un sorriso che mi riempie tuttora di gioia e che molti anni dopo ho ritrovato nella sua bellissima bambina.
 
E' stata la mia amica più importante, lei che mi faceva ascoltare Paul Young e mi usava come coretto quando sognava di diventare una cantante.
Lei mi ha fatto conoscere Michael Jackson e anche se facevo la snob già a tredici anni, sotto sotto avrei voluto imparare tutta la coreografia di Thriller.
 
Marcella è sempre stata coraggiosa, come io ho imparato solo dopo.
Non si è mai vergognata di mostrare le lacrime né ha mai finto, almeno non con me, sentimenti diversi da quelli che provava.
Non credo di aver mai avuto un'altra amica come lei.
 
Certo, c'era anche Mariangela, il terzo membro dei cosiddetti Tre Porcellini, com'eravamo affettuosamente chiamate dai nostri genitori.
Con Mariangela ho fatto però altri giochi. Grazie alla più piccola del trio, effettivamente, ho imparato a tirar fuori un po' più di carattere. Con Mariangela non potevo sedermi e fare la lagna, non me l'avrebbe permesso.
 
Con Marcella, invece, ero la spalla di questa piccola leader per dna.
Non mi pesava affatto seguirla a ruota, anche se dovevo spiazzarla un po' quando le parlavo del mio amico immaginario.
Ricordo proprio che mi diede (indirettamente, certo) della pazza quando le parlai di Andrea Dublino e di suo cugino, due giovani mai esistiti che io avevo collocato alle cinque palazzine, un quartiere di Chieti Scalo all'epoca considerato malfamato. 
 
Mi sa che aveva ragione. Un po' di pazzia, a ben vedere, nella mia famiglia c'è, ma di quella inoffensiva, che tutt'al più fa male solo a noi medesimi.
Marci, invece, è sempre stata sana, di una salute fisica e mentale che ho sempre ammirato.
 
Il che, ovviamente, non vuol dire che non abbia sofferto (da ragazzina, probabilmente, pensavo che solo io potessi provare sentimenti del genere. Ve l'ho detto: ero pallosa e presuntuosa), ma la sua vitalità ha sempre prevalso e io le sono immensamente grata di volermi ancora bene.
 
Oggi, Marcella, ho imparato a non nascondermi né cerco più di farmi accettare a tutti i costi.
Con te non ne avevo bisogno e infatti mi prendevi in giro per il cavallo di Vidal e per Andrea Dublino: non sai quanto mi hai aiutato a guardare all'esterno della mia testa, del mio cuore.
 
Con molte amiche, o cosiddette tali, incontrate più avanti negli anni, non sono più riuscita a essere così aperta: ho sempre pensato che fosse meglio recitare, anche solo parzialmente.
E mi sono trasformata nella donna "solare", nella Cica che consola, che sdrammatizza.
 
Non sono così o comunque non sono solo così.
E tu, e credo anche Mariangela, lo sapete.
 
Peccato non essere vicine, peccato non potersi parlare a cuore aperto, ridendo (magari!) di noi.
 
Dei tuoi meravigliosi occhiali in queste foto e della mia faccia da formaggino, sempre quella nonostante le rughe.
E dei nostri fondoschiena... il mio un po' più grande del tuo, è evidente!
 
Grazie di tutto.
Tua amica per sempre.
A.

 
 
Ps Bellissimo il parco macchine del cortile, eh già! W la A112!!!
 


 
 



lunedì 29 ottobre 2012

Sentirsi come un albero d'autunno


Sono nata e cresciuta in una città di provincia. Ma questo è assodato. E digerito, direi.
Per scelta, nel lontano 2005 sono venuta a vivere in una omologa cittadina posta sulla cartina poco più a nord. La piazza che sta alle spalle di questo scatto è magnifica e conservo ancora il ricordo della prima volta in cui l'ho percorsa, ai tempi del secondo anno della scuola di giornalismo. Era inverno, anzi, autunno inoltrato, probabilmente era venerdì sera, e ci stavamo dirigendo verso quello che vari anni dopo ho scoperto chiamarsi auditorium San Martino. Quella sera Alessandro Bergonzoni dava uno spettacolo proprio per noi aspiranti pennivendoli dalla pelle ancora liscia (qualcuno un po' meno) e il curriculum ancora da riempire (almeno per quanto mi riguardava).
Quel paesaggio era così simile al mio, eppure così esotico. Un anno a Milano vale doppio: già dopo un giorno che ci trascorri, tutto il resto sembra evaporare e ti ritrovi all'improvviso in un presente eterno, senza memoria e senza futuro. Almeno, era questo l'effetto che mi faceva vivere in quella città, forse proprio perché sono cresciuta in posti in cui percepisci lo scorrere delle stagioni, nei colori delle colline, nelle rughe del cielo e nell'aria che si fa all'improvviso pungente. Ogni volta che torno a Chieti, per dire, ritrovo gli odori della mia infanzia e adolescenza e come Proust con la madeleine mi torna in mente chi sono. A Milano, invece, finisci per dimenticartelo e se può andar bene per i maniaci del lavoro o per chi ha ferite dell'anima da curare con il distacco, non può essere adatta a chi, viceversa, vuole, almeno ogni tanto, ritrovarsi. Specchiarsi e riconoscersi. Parlare a cuore aperto con qualcuno, osservare un tramonto, ascoltare il vento. Non che tutto questo non ci sia anche a Milano, è solo che passa in secondo piano, coperto dai rumori, dai volti, dai mezzi e dai continui stimoli, spesso davvero eccitanti, di una città dei balocchi arida e tentatrice.
Non che io non ami scoprire cose nuove, aggiornarmi sulle ultime tendenze (rammento ancora la lezione della mia amica Cristina sulle differenze tra kitsch e camp. Se volete ve le spiego), fare shopping, andare alle mostre e chiacchierare con le mie ex coinquiline, ma non è possibile passare la vita in questo modo: di fatto non lo fa nessuno, neanche chi ci vive contento.
Con il passare degli anni, poi, è logico aspettarsi anche altro, magari un po' meno smog, magari un po' più di calore nei rapporti, un po' più di spessore. L'ho constatato l'ultima volta che ci sono tornata: nessuna di quelle ex ragazze che passavano con me per la bella piazza di Fermo è rimasta identica a come era in quei giorni. C'è chi è diventata mamma, chi ha cambiato lavoro svariate volte, chi ha proprio smesso di fare la giornalista (una a caso?), chi ha scoperto l'India. Per fortuna, si cambia, insomma, anche in quella città così unica, nel bene e nel male.
A distanza di anni, insomma, finisci per dirti: ma perché me ne sono andata? Anche qui, alla fine, i rapporti sono ugualmente superficiali, la grettezza e la disorganizzazione dilagano, e pure il paesaggio, certi giorni, è piatto e squallido e l'aria puzza. Che cos'è che mi ha fatto dire, un giorno di tanti anni fa, mentre passeggiavo in bicicletta sul lungomare di Porto San Giorgio, sì, voglio trasferirmi qui?
Ufficialmente, mi hanno condotto qui il lavoro e l'amore. Poi, però, il primo è finito e con quello gli anni dorati della mia giovinezza. Di questo, ahimè, sono davvero convinta: smembrato il piccolo gruppo brancaleonesco con cui ho passato giornate indimenticabili, è finita anche la mia lunga, prolungatissima, adolescenza.
Il carattere, certo, resta quello, ma dentro qualcosa si è rotto. Qualche illusione di troppo, qualche idealismo da manifestazione scolastica, qualche legame che reputavo importante.
Era ora, probabilmente, ma vi assicuro che un po' fa male, perché ti guardi nello specchio (di tempo in questo periodo ne ho fin troppo per osservare la mia faccia un po' così) e ti chiedi, di nuovo: ma io chi sono e che ci faccio qui?
Così guardo la foto che ho scattato l'anno scorso, sotto Natale, in giornate intense, di quelle che piacciono tanto a una ex bambina come me, e penso di essere come un albero che sta perdendo le foglie (mi sono appena resa conto di aver copiato Giuseppe Ungaretti. Giuro che non l'ho fatto apposta). La primavera è lontana, ma tornerà: conviene risparmiare energie per allora, indurendo la corteccia quanto basta contro il gelo shakespeariano.

martedì 2 ottobre 2012

Tutto scorre, pure l'amicizia

Non so il portoghese, ma conosco il testo di Tempo Rei di Gilberto Gil da moltissimi anni.
Ho notato che soprattutto quando mi sento uno straccio (la cenciona del precedente post), ricorro alle musiche brazileire per cercare di tirarmi su. Sono consapevole della doppiezza di quei ritmi, insieme caldi e nostalgici, e forse è proprio per questo che li faccio suonare sullo stereo o direttamente nelle mie orecchie come in questo momento.
Questa canzone, in particolare, è sempre stata il simbolo del mio modo di vedere la vita, però ho appena scoperto che non ne avevo capito il titolo.
"Tempo rei", letteralmente, significa "Tempo sovrano", ossia che tutto dipende dallo scorrere di quelle clessidre che determinano il nostro essere su questa terra.
Del resto, anche il modo fantasioso in cui l'avevo tradotto nella mia testa non era poi così errato, dal momento che mi ha sempre ricordato il famoso "panta rei" di scuola greca, ossia "tutto scorre", dai fiumi che mi fermo troppo spesso a guardar passare, ai nostri giorni.
Non mi illudo, come canta il grande Gilberto, che tutto possa restare così com'è né, d'altra parte, lo voglio. Detesto anzi la stasi e mi sento vera e in pace con me stessa più spesso nelle fasi di passaggio da un luogo a un altro che non quando sono arrivata a destinazione. Meno che mai quando sono a casa. Ma questo penso di averlo già scritto.
Su un aspetto, però, sono molto brazileira anch'io, o per lo meno con l'idea assolutamente superficiale che ho di quel Paese: ho nostalgia delle persone che hanno rappresentato qualcosa nella mia vita e non riesco facilmente ad accettare che ciò che mi aveva unito a loro non ci sia più.
Naturalmente, quando ne prendo coscienza, reagisco in maniera differente a seconda del grado di confidenza e affetto che mi legava a ciascuno dei tanti persi per strada. Per alcuni ex colleghi, per dire, provo più o meno una sorta di cameratismo da compagni di scuola di verdoniana memoria. In altri casi, invece, sentirsi scaricati del tutto fa male.
Mi è successo giusto ieri, un'altra volta. E mi succederà di nuovo, lo so.
Dev'essere la mia immagine accogliente e apparentemente svagata che spinge gli altri a vedermi sempre nello stesso modo. E del resto, nessuno di noi ha voglia di dare ascolto a un musone problematico: ci piace pensare che il nostro interlocutore sia sempre sorridente e rassicurante esattamente come appare.
E io sono una campionessa della rassicurazione.
Sto scrivendo frasi oscure perché non voglio fare nomi e cognomi (non è necessario), ma comprendo con chiarezza via via crescente che nella fase due della mia vita di donna che si avvia alla maturità dovrò abbandonare una buona volta comportamenti e aspettative antiche.
L'amicizia è una perla rara, rarissima, possibile solo tra chi non si aspetta nulla dall'altro, né rassicurazioni a buon mercato né consigli pratici. Gli amici veri si mandano anche a quel paese, ma non si mascherano. Parlo anche di me, che pur di non soffrire di solitudine o per vigliacco bisogno di sentirmi accettata, ho spesso scelto di fare la buffona o la finta cinica oppure, al contrario, mi sono calata nei panni della crocerossina bonaria un po' distaccata dalle passioni del mondo.
Nessuno di questi comportamenti ha spostato di una virgola ciò che gli agognati amici pensavano di me. La loro distanza è rimasta la medesima e in certi casi si è pure allargata.
Per guarire dall'ennesima frattura, insomma, sto scrivendo queste righe ascoltando uno dei grandi classici della mia prima giovinezza.
Dopodiché, però, uscirò dal blog e da questa guazza depressiva.
Il tempo è sovrano, il tempo scorre: non conviene buttarlo dietro a illusorie nostalgie per giorni e persone che non torneranno più. Possiamo solo andare avanti. E io, come tutti, lo farò.