venerdì 19 gennaio 2018

Omaggio a José Greco, il re italiano della danza spagnola

José Greco nel film "La nave dei folli", 1965


"Eccovi qua chi ero: un bambino italiano cresciuto a Brooklyn, diventato un ballerino di danza spagnola e dopo, per qualche bizzarria del destino, 'il brindisi della Scandinavia'. Nessun romanziere vi avrebbe mai consigliato una trama simile".

Le parole sopra riportate appartengono a Costanzo Greco, il nome vero del Principe del flamenco noto anche a Hollywood con il nome di José Greco, nato a Montorio dei Frentani, oggi in Molise, due giorni prima del Natale 1918.

La frase è tratta dall'autobiografia scritta dall'artista con Harvey Ardman nel 1977, intitolata The gypsy in my soul, letteralmente "lo zingaro nella mia anima". 
Se mai avesse potuto tradurla nella lingua madre, ho la sensazione che Mister Greco avrebbe scelto di puntare di più sul suono fortemente evocativo della nostra parola cuore, associandolo, certo, alla componente "zingara" dell'arte della sua vita, ma anche alla nostalgia per le radici lontane, ricercate probabilmente in tutte le donne che ha amato.

Peccadillos chiama il nostro eroe le storie multiple e le avventure passeggere intrecciate mentre mette su e porta al successo la compagnia di ballerini di origine prevalentemente ispanica e gypsy, con la quale sbarcherà nel giugno del 1949 in Scandinavia e Danimarca, le prime terre del Vecchio Continente, dopo la Spagna qualche anno prima, destinate a consacrarlo a sovrano della danza spagnola moderna, approdata in Europa e in Nord America negli anni Trenta dell'Ottocento.

Un po' di storia del flamenco e dintorni, tratta da giornali dell'epoca, è riportata nel libro nel punto in cui Greco parla della vigilia del debutto a Broadway, a pochi metri da dove ha fatto il "ticket runner", quando il suo futuro agente Jack Nonnebacher gli consiglia di lasciar perdere la danza e di fare piuttosto il camionista.

Chi avrebbe mai immaginato, invece, che un giorno il suo nome sarebbe comparso a caratteri cubitali e luminosi sulla facciata del Lee Shubert Theatre? Probabilmente non l'avrebbe mai detto nemmeno l'impresario che dava il nome a quest'ultimo se non l'avesse notato nel film "Manolete", visto per caso qualche anno dopo l'uscita in una sala di Parigi. 
E dire che il nostro Costanzo non ne parla benissimo nel libro: ricorda, sì, di aver ballato molto bene (altro che), ma le riprese durano molto più di quello che gli avevano promesso, in anni in cui lui si è già fatto conoscere e apprezzare direttamente a Siviglia, durante una tournée molto impegnativa che gli permette di accumulare sufficiente denaro per tornare in Italia per la prima volta dall'infanzia e portare una montagna di regali ai suoi compaesani.

Ancora oggi, dalle parti di Montorio, si rievocano di tanto in tanto i bauli carichi di vestiti (e molto, troppo pepe!) collocati dal danzatore italo-americano in mezzo alla piazza perché ognuno potesse scegliere quello che voleva. 
Divertente l'aneddoto-postilla che di sicuro avrà prodotto analoga reazione anche sullo scrittore che l'ha aiutato a buttare giù i suoi ricordi. Gli dice infatti lo zio: "Sei stato così generoso con noi, Costanzo, ma la prossima volta...". "La prossima volta cosa?", gli risponde la nostra star. "Beh, il denaro sarebbe più utile. Con il denaro potremmo comprarci da soli le cose, magari più economiche di quelle che ci hai comprato tu".

Della serie: evviva la gratitudine.

Da migrante transitato per l'Oceano Atlantico a bordo di una nave come tanti prima e dopo di lui, Greco però capisce il senso della richiesta del suo parente, perché conosce, eccome, il valore del denaro, un tema che percorre tutta la sua autobiografia e che, credo, lo avrà preoccupato fino alla fine dei suoi giorni.

Perché il successo non ti regala necessariamente anche la stabilità economica, ribadisce a più riprese: pagine e pagine, anzi, sono dedicate proprio all'analisi delle spese affrontate per organizzare le tournée, altre alle trattative con gli artisti, non tutti descritti come il massimo dell'affidabilità. Più di qualcuno, anzi, l'abbandona nel mezzo dei preparativi di un nuovo spettacolo, per altri Greco è costretto a fare da mediatore per via di intrecci amorosi piuttosto complicati. 

A volte si sente la fatica che gli costava tenere tutto in piedi, considerando anche i suoi, di intrecci amorosi, un aspetto di cui parla piuttosto diffusamente.

Al di là di tutto, a me sembra vero solo questo: Greco doveva danzare e diventare la star che tutti gli appassionati di danza spagnola conoscono e ammirano ancora oggi.

Se non l'avesse fatto, la storia dell'umanità lo avrebbe rimpianto per sempre.

Per capire di che cosa sto parlando, basta vederlo atterrare con il ginocchio piegato con quel "mix di eleganza e forza" che gli attribuiscono i critici all'indomani del debutto a Broadway. Le repliche dovevano essere una quindicina, ma Mister Shubert le allunga a un paio di mesi. Nel frattempo, Greco va anche in tv e riceve altre proposte cinematografiche. 

Nel '52 esce il film "Sombrero", un rifacimento di Don Chisciotte in salsa messicana, racconta, girato da Norman Foster. Nel film è costretto a dare uno schiaffo alla protagonista (Chyd Charisse) che interpreta la parte di sua sorella, mentre lui è un discendente di una famiglia di zingari spagnoli, oltre che un torero.  La pellicola non lo convince, o forse è più esatto dire che è lui a non essere convinto di se stesso, perché un conto è danzare, un altro è essere pronti ai ripetuti ciak chiesti dal cinema.

Sia come sia, noi profani non ce ne accorgiamo e ogni scena in cui l'hanno immortalato mentre accompagna l'aria con il suo corpo è un puro piacere per gli occhi. E l'anima. O il cuore, se preferite.

Lo sapeva persino Simone Signoret, sua compagna di cast nel film La nave dei folli, accanto a molti altri famosissimi attori, che un giorno gli dice: "Sai, José, non avrei mai potuto avere una storia con te". "E perché?", le risponde lui sorpreso. "Beh, sei troppo simile a mio marito, Yves Montand. Se avessimo avuto una storia mi sarebbe sembrato di fare l'amore con lui. E quello posso averlo di tanto in tanto".

Simpatica e intelligente la Signoret, non c'è che dire, come riconosce Mister Greco, che apprezza molto anche Vivien Leigh, David Niven, suo compagno di cast nel "Giro del mondo in 80 giorni" e svariati altri Vip.

Tra i più famosi c'è sicuramente Frank Sinatra, che gli regala un mucchio di soldi salvandolo dai guai in un casinò di Las Vegas. E poi ci sono gli incontri ufficiali, come quello che Charles De Gaulle, che si vede stringergli la mano durante una cerimonia di gala. Prestigiosissima è la Croce di Cavaliere al merito civile di Spagna ricevuta in ambasciata a Washington l'8 aprile 1962.

Proprio quell'anno è nato José jr, uno dei figli di Lola DeRonda, un'altrettanto indimenticabile regina della danza spagnola, che sarà celebrata con l'immortale papà in una serata omaggio prevista a Porto San Giorgio il prossimo 2 febbraio nel teatro della cittadina marchigiana a partire dalle 21.15. 




Come mai lì? Perché proprio a Lu Portu vive il quartogenito di Costanzo, José jr, ballerino e insegnante come poi è stato anche suo padre: a lui e all'attrice Elisa Ravanesi innanzitutto il merito di aver organizzato lo spettacolo al quale parteciperà anche la sorella minore Lola e altri artisti appassionati di musica e danza spagnola.

Molto disonorevolmente sono stata coinvolta anch'io nelle vesti, davvero poco abituali, di presentatrice.
Non vi nascondo l'ansia, ma insieme anche l'emozione, autentica, per questo viaggio alla scoperta di una vita davvero straordinaria.

Verso la fine del libro Costanzo cita una vecchia storiella vaudeville che gli racconta una volta il suo caro amico Nonnebacher, per risollevarsi reciprocamente di fronte agli ennesimi problemi economici.

"C'era un uomo che affermava di avere di un asino parlante, ma quest'ultimo non parlava mai". Greco non rammenta i passaggi intermedi, ma sa che a un certo punto c'è un impresario che aspettava e aspettava che l'asino finalmente parlasse che dice all'uomo: "Quando l'asino parlerà, diventerai ricco". Bene: per Jack un giorno o l'altro l'asino avrebbe parlato.

Proprio nelle ultime righe mister Greco si sofferma sulla sua grande ed estesa famiglia, dedicando parole a ciascuno dei suoi sei figli e a Nana Lorca, la penultima compagna di vita prima della giovanissima Anna, che si innamorerà di lui quando ha appena sedici anni e lui molti di più: e infine ad Argentinita, vera e propria sacerdotessa della danza spagnola, colei che gli dà il nome d'arte José oltre che l'anello simbolo dell'unione imperitura con l'arte. Quindi conclude: "In qualche modo, credo che il futuro si farà da solo. E chi lo sa: forse l'asino finalmente parlerà".

Speriamo abbia ragione. Ma sì che ce l'ha.

Nell'attesa, chi può, intanto, venga in teatro a vederci.





martedì 9 gennaio 2018

Vitaliano Trevisan parte seconda: risposta (scritta) alla domanda di un amico

Come pensi si debba reagire di fronte a un cambiamento lavorativo? Cosa ti ha lasciato il fatto di aver dovuto affrontare nuove situazioni, conoscere nuovi colleghi, etc?



La domanda in corsivo mi è stata fatta via Whatsapp da un amico che mi ha onorato della lettura del post precedente sul libro di Vitaliano Trevisan.

Con mia grande sorpresa, mi ha spiazzata: e mo' che gli rispondo?, mi sono detta.
Per prendere tempo, gli ho chiesto di mandarmi la sua mail: ho bisogno di "nascondermi" dietro le parole scritte, ho precisato.

E' davvero difficile dire qualcosa di univoco. Spero almeno di riuscire a essere chiara.

Dunque, cominciamo.

Parto dagli stage, per definizione destinati a concludersi in tempi più e meno rapidi.
Nelle aziende più grandi (la più grande per definizione nel settore pubblico della tv, per capirsi) mi vedevo talmente ragazzina professionalmente parlando, da non aver mai neanche per un momento pensato che quello sarebbe stato il mio futuro luogo di lavoro. Accomiatarsi alla fine, perciò, è stata più una festa di fine anno scolastico che altro. Poco tempo fa, tra l'altro, ho ritrovato le foto che avevo scattato l'ultimo giorno ai colleghi, alle cui scrivanie (com'è successo in tutti i successivi stage che ho fatto dopo) mi alternavo in coincidenza con le loro ferie. Che bella esperienza e che ambiente rilassato, almeno all'epoca.

Un po' diverso è diventato il mio atteggiamento con i primi contratti di collaborazione fino alla sostituzione di maternità nel giornale economico più importante d'Italia, vissuta, francamente, non al massimo della mia lucidità.

Lì chiudere non è stato affatto semplice (mi ricordo i pianti e la scatola con i pochi effetti personali che ho dovuto portare via con me), anche se a distanza di tempo ho fatto pace innanzitutto con me stessa per l'incauta scelta di andarmene dalla città.

Poi sono venuti i primi tre anni marchigiani, partiti, romanticamente, benissimo. Lo strappo finale è stato duro, molto duro, e mi ci è voluto del tempo per abituarmi alla solitudine di una casa non mia, a pochi passi da una piazza addormentata nella nebbia, a svolgere un lavoro a distanza, parlando quasi tutti i giorni con gente che abitava, guarda caso, proprio nella città che tanto mi era parsa ostile. Era strano non incontrarsi, ma con il tempo, però, finisci per abituarti al silenzio e anche all'indipendenza che ti regala l'assenza di subordinazione.

Quel lavoro è finito poco alla volta, come un paziente terminale che man mano se ne va. Ed è coinciso, in effetti, con la malattia di mia mamma, per cui, sinceramente, non ne ho avvertito più di tanto la conclusione definitiva.

Poi sono sbarcata a Lu Portu, con un'energia e un'incoscienza forse tipiche dei cani che viaggiano da troppo tempo a briglia sciolta.

Le chiusure degli ultimi tempi non sono state, quindi, granché dolorose, perché via via ho finito per considerare normale che qualcosa finisca (soprattutto quando non si crede che valga la pena proseguire), con tutto quello che comporta in termini di relazioni umane che saltano. Di qualcuna sento la mancanza, ma è meglio andarsene nutrendo un sentimento positivo piuttosto che arrivare a non sopportarsi più.

Sia che si scelga di andarsene, ma anche in caso contrario, resta però latente un certo sapore amaro, che non so dire se sia senso di colpa o una sottile forma di auto commiserazione, ma dura poco: giorni, settimane, al massimo pochi mesi. Almeno, finora è stato sempre così.

In tutto questo gran peregrinare disordinato, ho comunque fatto chiarezza su quello che mi aspetto da un lavoro e mi pare già un grande risultato. 

Rimando alla prossima domanda del mio amico (se mai avrà il coraggio di farmela) la spiegazione della precedente frase (una persona disoccupata è bene che tenga un basso profilo: non si sa mai che si giochi qualche buona occasione di lavoro), però davvero lo ringrazio di avermi dato l'occasione di tornare sulle riflessioni scatenate dalla lettura del bel libro di Trevisan.

lunedì 8 gennaio 2018

Vitaliano Trevisan, il lavoro e il dolore che fa bene


Ero indecisa se scrivere qualche riga su Works, il libro di Vitaliano Trevisan che ho finito di leggere ieri mattina. Non vorrei che si confondesse la forte impressione che hanno prodotto su di me le oltre seicento pagine che lo scrittore vicentino ha dedicato ai suoi svariati e più lavori che l'hanno impegnato dai tempi della scuola al 2002 con il mio personale percorso professionale così disastrato.

Certo, se Trevisan mi ha colpito vuol dire che ha toccato qualche corda che mi riguarda molto direttamente, ma il rischio che corro, quando succede com'è effettivamente successo con lui, è di diventare barbosa oltre ogni misura.

Posso solo dirvi che consiglio la lettura di questo viaggio nella ricca provincia italiana del Nord Est, partito negli anni Settanta del secolo scorso e approdato nei primi due dell'attuale, a chi abbia voglia di immergersi in una scrittura cervellotica e sinuosa, ironica e amara. 

Ho letto qui e là paludatissime recensioni che ne coglierebbero citazioni più e meno esplicite da Thomas Bernhard, un autore a me del tutto sconosciuto. Niente di più facile, visto che Trevisan lo nomina nel libro a più riprese come uno dei suoi tre numi tutelari, letterariamente parlando, insieme con Samuel Beckett e Ludwig Wittgenstein. La mia crassa ignoranza mi ha preservato finora dalla lettura pure degli altri due, quindi figuriamoci se mi metto a negare l'esistenza di punti di contatto tra lui e loro.

Sia come sia, Trevisan mi ha fatto invece nascere proprio la curiosità di saperne di più, di Bernhard and co, e in generale ho apprezzato la generosità con la quale si è messo a nudo, o ha finto di farlo (restando però credibilissimo), probabilmente, più di quello che dichiari in corso d'opera.

Dev'essere, in ogni caso, un grande rompicoglioni proprio come si dipinge, dotato contemporaneamente di un istinto speculativo (alla Wittgenstein?) non comune.
Oggi dice di vivere in un paesino di collina lontano dal centro storico "che gli fa schifo" e di passare poche ore al giorno a scrivere, e il resto a camminare o a spaccare la legna.

A vederlo, non dà l'idea che voglia fare il guru e francamente spero di non sbagliarmi.

Mi toccherà a breve restituire al legittimo proprietario una delle migliori scoperte dell'anno passato: un sentito grazie va a lui, e in generale agli organizzatori del Premio Volponi per la letteratura e l'impegno di civile, tornato a Lu Portu dopo vari anni di migrazioni.

E' già la seconda volta che uno dei libri in concorso (anche l'altra volta non il primo classificato) mi dice talmente tanto da provare quasi dispiacere di averlo concluso. In quel caso si trattava di Sebastiano Nata e il suo "Il valore dei giorni": tutt'altra atmosfera e storia, ma, per me, uguale generosità letteraria.

Che altro posso aggiungere?

C'è troppa retorica sul lavoro come modo per "realizzare se stessi", come dice l'autore di Works. Bisognerebbe, se possibile, tentare di capire chi si è e ciò che si può fare con il solo fatto di essere in vita a prescindere dalle proprie ambizioni, chissà se morali o materiali.

L'inquietudine e più ancora la depressione e la voglia di mandare tutto a ramengo sono fedeli compagne di chi arranca giorno dopo giorno senza una meta precisa, ma io credo, in ogni caso, nell'istinto di sopravvivenza, lo stesso penso che faccia Trevisan e molti di noi.

Meno male, poi, che ogni tanto qualcuno fissa sulla carta qualcosa di fondamentale. Di doloroso, anche, ma di quel genere che di dolore che fa bene, perché ti spinge a non addormentarti, o a farlo nei tempi giusti.

Perciò concludo il post e volto pagina. 
Fino al prossimo risveglio.