venerdì 30 maggio 2014

Sulla dottoressa anti-badanti: le doverose aggiunte



Fermo avrà tanti difetti, ma non posso negare che la vista da quassù mi abbia un pochino rinfrancato, insieme (ovvio) a mio marito e ai nostri gatti. Questi ultimi, in verità, mi hanno un tantino scansato, visto che non mi vedevano da molti giorni. Ma alla fine sono riuscita ad acchiapparli e a spupazzarmeli qualche minuto.
Adesso abbiamo il tuttofare che lavora in bagno, per cui sono fuggiti di nuovo. Sono molto rassicuranti nella loro totale asocialità.
Volevo tornare giusto un attimo sulla testimonianza trascritta ieri che ha suscitato qualche rimbrotto da parte da qualcuno.

Come ho scritto su Facebook in risposta (in particolare) alla mia amica Silvina, non avevo alcuna intenzione di generalizzare l'esperienza vissuta dalla dottoressa di mia madre, ma solo di fissare a futura memoria un discorso che aveva più di qualche fondamento. E che non annulla affatto quanto ho scritto qualche giorno fa sulla badante di mia mamma, una signora albanese di grande forza e intelligenza.
Ho però tralasciato qualche dettaglio importante.

Innanzitutto, la conclusione amarissima cui la medesima (assai urticante) dottoressa è giunta: Quando ero giovane - considerava - ai tempi del Pci, lottavamo perché tutti fossero uguali. Ho capito nel tempo che non solo non lo siamo affatto, ma che in verità non è neanche giusto che si venga tutti giudicati allo stesso modo. Da medico, considerati tutti i sacrifici che ho fatto e faccio, dovrei essere pagata miliardi, e invece se ho qualcosa è solo perché ci hanno pensato i miei genitori a darmi una mano, mentre gente che non ha studiato, ma ha pensato solo a far soldi, adesso si permette anche di darmi lezioni di vita. Ma avevano ragione loro: studiare non conviene. Dal tutti uguali siamo arrivati all'esatto rovescio: adesso chi studia e si fa il mazzo, è destinato a essere considerato zero. Per questo, adesso, quando sento le storie di queste donne che arrivano da paesi più poveri non mi commuovo più.

Ripeto: sono parole non mie, ma che mi hanno fatto molto riflettere.
Io neanche mi sono commossa ascoltando Ina, però ho provato rispetto nei suoi confronti.
Vorrei tuttavia che anche lei, o chi per lei, provasse rispetto per me, cosa che invece, troppo spesso, non succede. E sapete perché?
Perché sono povera, ma di una strana forma. Sono una povera di ritorno che ha commesso tanti errori, certo, ma ha sempre sudato tutto quel che ha fatto. Ma siccome non urlo, non sgomito, non sentenzio, non conto un accidente. Neanche per i troppi finti amici che a parole mi stanno vicini, ma che in verità se ne fottono di me e della mia storia. E vi giuro che parlo con cognizione di causa. Mi sono semplicemente svegliata, il principe azzurro è finalmente arrivato a baciarmi la fronte.

Aggiungo di essere una povera fortunata, certo, ma come mi ha giustamente detto Ina ieri sera, sono una persona onesta come lo sono i miei genitori: "le radici buone danno frutti buoni", ha considerato, e poi ha aggiunto, nella sua saggezza popolare, "che sono le persone migliori a subire le peggiori sofferenze".
E adesso non sto certo parlando di me.

Insomma: non si può generalizzare né in un senso né in un altro, ma finché non vedrò un reale e concreto segnale di cambiamento in chi oggi è nelle stanze dei bottoni, non farò più sconti a nessuno.
Come ho scritto sempre su Facebook, non confondiamo la bontà e la generosità con il buonismo, il vero male italiano (italiota): non scambiamo gesti concreti di apertura e accoglienza profonda con i proclami del nuovo politico in auge. Teniamo orecchie e cervello teso e ascoltiamo, veramente, gli altri.

E comunque grazie a chi mi ha letto.
E' sempre un onore.

giovedì 29 maggio 2014

Badanti straniere, stop al pietismo


A quest'ora dovevo essere dalla mia parrucchiera a farmi un trattamento probabilmente inutile ai capelli. E invece, per via di uno sciopero dei treni di cui non avevo la più pallida idea, sono a pochi chilometri dall'orrido posto. Che, detto tra parentesi, è meno brutto di altri ospedali, ma resta pur sempre un luogo di grande, grandissima sofferenza, tranne che per pochi casi (le nascite: ho incontrato diverse giovani mamme con i loro frugoletti. Mai provata una tenerezza così partecipata, dev'essere un'altra strategia psicologica di resistenza).

Volevo prendermi due giorni di pausa. Non di più. Giusto due giorni per tornare alla mia vita, precaria assai, sì, ma comunque cadenzata da impegni e pure qualche piacevolezza.
Tutto rimandato a domani, ma scrivere da questa casa innaturalmente silenziosa non mi dà molto conforto.
Scrivo per sfogarmi, come altri pregano, cantano, piangono.

Volevo raccontare della dottoressa di mia madre e della sua visione dell'immigrazione dal generico Est, ma mi accingo a scrivere lo stretto indispensabile: sono troppo stanca.
Accenno solo alla reazione di mia madre, che ascoltava e nonostante la debolezza evidente, annuiva.
Basta con il pietismo nei confronti di queste stronze che si insediano nelle nostre case e poi ce la mettono in quel posto, sosteneva con parole un tantino meno dirette (ma solo per il luogo in cui ci trovavamo, altrimenti, secondo me, ne avrebbe dette di ben peggiori).
Anche noi abbiamo fatto un sacco di sacrifici, ma chi ce li riconosce? Aggiungeva.

Ricordiamoci della nostra storia, proseguiva, pure noi non avevamo niente.
I miei genitori erano poveri come loro, ma mi hanno fatto studiare e se io oggi ho qualcosa è solo grazie a loro. Sono medico, ma a me nessuno mi ha dato niente. Me lo sono sudato fino all'ultimo.
Poi arriva la stronza di turno che si fa assumere per ottenere il permesso di soggiorno, dopodiché, una volta avutolo, si licenzia e a distanza di qualche mese mi fa una causa di lavoro sostenendo che l'ho tenuta un mese in nero. Ma ti rendi conto? 

La simpatica badante, precisava il medico di mia madre, si è fatta assistere da una battagliera sindacalista della Cisl, contro la quale non c'è stato nient'altro da fare che patteggiare. Perché, sì, il mese di nero c'era stato, ma l'aveva voluto lei proprio per via del permesso di soggiorno scaduto. Quest'ultimo, peraltro, rinnovato indicando come residenza la casa dell'anziana madre (cieca) della medesima dottoressa.
La povera vecchia è passata, insomma, per una sfruttatrice del povero lavoro migrante.

Com'è finita questa storia? Vivendo sua madre a cento chilometri da lei, in un piccolo paese dell'entroterra abruzzese, non c'era altra scelta che portarla alla casa di riposo.
Almeno lì, mi ha spiegato la dottoressa, ci lavorano tutte persone del posto ed è trattata bene.
Certo, la mettono a letto alle otto e mezzo, mentre lei era abituata a restarsene in piedi fino a mezzanotte davanti alla tv. Anche se poi le ho detto: ma mamma, quando mai l'hai guardata fino a così tardi? Dopo poco ti addormentavi!

Anche la mia mamma guarda (guarda) la tv fino a tardi, ma a un certo punto, se ti affacci in cucina, la trovi con la testa reclinata sul petto.

Non so dare un giudizio così tranchant sul fenomeno del badantato straniero, però devo ammettere che un po' d'accordo con lei lo ero.
Quanti sacrifici sto facendo e ho fatto anche io finora?
A saperlo prima andavo a lavorare a diciotto anni (ma pure prima) anziché studiare.

Non è mia intenzione lamentarmi, però, se non ho votato e non voterò, penso, per un bel po' di anni a venire, è perché di me e di quelli come me non si occupa nessuno.
Ho la grandissima fortuna di essere stata cresciuta da due persone che dirvi eccezionali è poco, ma posso garantirvi che non mi sono mai risparmiata, mai mi sono tirata indietro, mai ho preteso chissà quale trattamento privilegiato.

Ho sbagliato. Conveniva tentare il colpaccio di sposare un milionario. Ma ormai è tardi.
A questo punto mi restano poche strade. Una delle più praticabili è proprio quella di andare a fare la badante nell'est alle signore (signore? non tutte) che adesso stanno guadagnando abbastanza per tornarsene indietro ricche.
Sarei un'ottima dama di compagnia capace sia di svolgere mansioni pratiche sia di intrecciare conversazioni su svariati argomenti.

Pensateci, future anziane dell'est.
Nel frattempo, incrocio le dita. E, a mio modo (ateo, ebbene sì) prego.
Ci deve essere ancora un po' di giustizia, da qualche parte.

mercoledì 21 maggio 2014

Sanità pubblica e manchevolezze: le mie, innanzitutto



Probabilmente l'ho già scritto: io non so dialogare con i medici.
E' un mio limite, bello grosso, lo so, ma nel momento stesso in cui percepisco da parte loro uno dei seguenti atteggiamenti: indifferenza, sarcasmo, ansia strabordante e/o qualcosa del tipo non so che pesci prendere, quindi non mi rompere le balle, io chiudo la comunicazione più o meno immediatamente.

Purtroppo, a meno di non essere medici noi stessi, in presenza di malattie serie bisogna vincere l'istinto di mandarli a cagare. Perdonate il turpiloquio, ma è esattamente quello che ho pensato in più di una circostanza in quest'ultimo anno e passa.

Poco dopo l'inizio della terribile vicenda familiare che stiamo vivendo, per dire, sono uscita sbattendo la porta dallo studio di una dottoressa. Avevo torto, non nella sostanza, ma nella forma.
Sia come sia, da allora ho cercato di interagire il meno possibile con la suddetta e con la capa della medesima, che ahimè ho rivisto non molto tempo fa.

Non mi ha neanche guardato in faccia, né, soprattutto (perché pazienza per la sottoscritta: spero di non aver mai bisogno di lei o comunque farò di tutto per non farmi curare da lei), mi ha chiesto notizie della sua paziente.

Non ci posso fare niente, ma se non lo scrivo almeno qui, evitando di fare nomi (almeno per il momento), impazzisco.

In tutti i modi, mi toccherà tornare in ospedale, uno dei prossimi giorni.

Del resto, uno dei pochi vantaggi dati dalla modernità è la tecnica e l'unico modo per capire in che condizioni stia davvero una persona seriamente malata è sottoporla a tutti gli esami necessari.
Noi poveri mortali senza amici che ti procurano ricoveri di lusso abbiamo a disposizione la sola sanità pubblica.

Giustamente, una mia amica carissima che vive negli States mi ha più volte fatto presente che lì se non paghi sei fottuto.
Io però ho qualche dubbio che, se la medesima tornasse ad abitare in Italia, andrebbe a farsi curare in uno dei troppi ospedali pubblici italiani assiepati di malati nei corridoi per carenze di posti letto, dotati di arredi vetusti (se penso al letto che non si poteva abbassare dell'ospedale ternano mi torna la rabbia a mille), pareti scrostate e personale non sempre educato, forse anche per via dei troppi carichi di lavoro.

Potendolo fare, pagherei pure io, insomma. E andrei in qualche clinica svizzera silenziosa e accogliente.
L'indifferenza e l'assenza di buone maniere, probabilmente, albergano anche nelle corsie più asettiche, ma qualcosa mi dice che si tratterebbe di eccezioni che non avrebbero peraltro vita lunga.

Non sarò in grado, non lo sono di sicuro anzi, di interagire con chi percepisco respingente, in altri termini, ma è piuttosto probabile che, pagando, otterrei un servizio migliore, esattamente come se scegliessi un hotel a cinque stelle anziché una stamberga.

Alla sanità privata, detto ancora in altro modo, ci siamo già arrivati. E lo stesso sta succedendo per gli altri servizi pubblici (basta prendere qualunque inter city per rendersene conto).
Non raccontiamoci fole, in definitiva.

Faccio anche un esempio concreto: in Germania, chi comincia a usare l'insulina, viene seguito per un'intera settimana in un centro apposito, in maniera che possa imparare per bene come iniettarla e in quale quantità, se è il caso di variare le dosi.
Pur essendo bravissime, le infermiere e la dottoressa dell'ospedale di Chieti non possono permettersi di dedicare più di qualche quarto d'ora (che è comunque già un successo) ai pazienti alle prime armi perché piene fin sopra ai capelli di richieste e/o problemi.

Peraltro, per come la vedo io, proprio perché sono brave e disponibili, finiscono per diventare anche una sorta di telefono amico per malati e parenti in ansia.
Restando l'ambulatorio aperto fino alle 14, è chiaro tuttavia che non possono farcela a esaudire tutti i loro bisogni che continuano anche nel resto della giornata e nei fine settimana.

E pensare che fino a qualche anno fa si diceva che chi frequentava la scuola infermieri sicuramente non sarebbe rimasto senza lavoro.
Anche senza leggere le statistiche, usando invece il solo spirito di osservazione empirica, si intuisce che oggi non sia più così ed è tutto lì il problema.

La disumanità di alcuni va tollerata perché non c'è alternativa.
La disorganizzazione, peggio ancora, è alimentata dalla carenza di personale, oltre che da quelle personali dei singoli addetti alla sanità pubblica.

I parenti sono manchevoli spesso per definizione, per via del carico psicologico che non sempre riescono a gestire.
A farne le spese, sono solo i malati, che devono spiritualmente accendere ceri a qualche santo, o fare mentali riti vudù per sperare di uscirne oltre che vivi, anche non troppo piagati interiormente.

Questo è.
Ma tocca farsi forza e largo nei gironi danteschi redistribuiti in livelli e sperare di cogliere qualche barlume di solidarietà nei compagni di stanza e nei parenti dei compagni di stanza.
Come ci è successo a Terni, dove il figlio della signora ricoverata affianco a mia mamma ci ha regalato dei cioccolatini quando ci siamo salutati.
O dove un paziente che avrà avuto più o meno l'età di mia sorella ci guardava con occhi sgranati di dignità disperata, mentre chiacchieravamo del forum di raiuno. Anche lui, ai tempi dell'università, aveva partecipato con i suoi amici, giusto per tirar su qualche soldo. I casi sono tutti finti, ci ricordava, oggi come allora. Abbiamo riso insieme, dimentichi per un attimo del motivo per cui eravamo in quella fredda sala d'attesa.

Non so come si chiamassero queste persone e le altre che abbiamo incontrato in analoghe circostanze. A loro auguro davvero ogni bene.

E adesso torno al silenzio dell'attesa. Di quest'attesa a distanza che mi fa sentire colpevole.
Persino di ciò che sto scrivendo, perché ho paura che potrebbe risultare falso. La scrittura aiuta, certo, purché non si voglia dare spettacolo.
Perciò non vado oltre.

sabato 17 maggio 2014

Imparare a vivere per raccontare meglio




Parlando con un amico più vecchio che compiva gli anni, a un certo punto me ne sono uscita dicendo che penso di avere qualcosa da raccontare.
Non avrei mai immaginato di pronunciare un giorno una frase così, non perché, in fondo in fondo, non lo pensi davvero, ma per la modestia che generalmente sbandiero nelle più svariate circostanze. 
Una modestia, a volte, fuori luogo, che però in ogni caso preferisco all'eccesso di sicurezza ostentato da troppa gente che mi circonda.

Dev'essersi tuttavia scatenata la ubris divina.
Perché esattamente a una settimana o poco più di distanza da questa mia ben strana dichiarazione di fiducia nella mia auto-significanza, ho incontrato una donna di appena cinquant'anni che di cose da dire ne ha ben più di me.
Man mano che andava avanti nel suo racconto, qualche sera fa, su come sia arrivata in Italia nell'ormai lontanissimo 1998, sentivo di diventare sempre più piccola. Praticamente una nana-neonata, per scherzarci su.

Stringendo sotto le sue braccia forti le bambine avute in giovanissima età (adesso è nonna di due o più nipoti), Ina è riuscita a resistere alla forza centrifuga del gommone che in due ore e mezzo l'ha traghettata dall'Albania alla Puglia.
Era aprile, faceva freddo e loro erano completamente bagnate.
Prima di compiere la traversata, ha venduto la sua casa e con la somma ricavata (comunque una buona parte della medesima), ha pagato il prezzo del futuro migliore, per lei e le sue figlie: otto milioni di lire. Tempo prima era già arrivato suo marito, che stava aspettando il giorno in cui si sarebbero ricongiunti.

Per un soffio hanno rischiato di non coronare il loro sogno: la Guardia costiera (o qualcosa del genere), quella notte, aveva intercettato il gommone che filava come un razzo nell'Adriatico, lanciando l'allarme alle forze dell'ordine di terra.
Disperati, i migranti giunti con lei, avevano tentato di sfuggire alla cattura, invano.
Ina ci ha detto che solo lei e le sue bambine, spinte da qualche demone benigno, erano riuscite a nascondersi, ma che prima di riunirsi a suo marito e agli altri parenti già approdati nella terra della speranza, ci hanno messo diversi giorni.

I primi due anni nel nostro Paese devono essere stati piuttosto duri, ma non conosco i dettagli: è solo una mia supposizione.
Poi sono arrivati a Chieti e via via la famiglia è cresciuta. La nipotina parla il mio dialetto, probabilmente meglio di me.

Della sua storia abbiamo parlato giusto la sera dell'ennesima tragedia dei migranti morti in mare.
Probabilmente dovevo essere qui, in questi giorni, anche per questa ragione.

In un certo senso, perciò, è vero che ho qualcosa da raccontare, ma non di me stessa.

Un'altra sera, forse quella in cui ci siamo conosciute, parlando della crisi, Ina ha dichiarato, tenendo ben dritta la schiena maschile: "Se uno vuole lavorare, lavora. Io ho sempre lavorato, sempre".
Ci credo, ti credo, Ina. Però non hai del tutto ragione, anche se naturalmente rispetto la tua opinione.

Io la forza che hai tu non ce l'ho: non sono partita come te con un gommone alla ricerca di fortuna a molti anni di meno di quelli che ho adesso e non ho vissuto sulla mia pelle il probabile disprezzo che hai dovuto sopportare per la povertà che per fortuna ti sei lasciata alle spalle.
E non ho neanche fatto la Resistenza come i vecchi sopravvissuti che stima il mio amico di cui parlo all'inizio, né sono passata attraverso le privazioni vissute in infanzia dai miei genitori.
Ho avuto, anzi, relativa agiatezza fino almeno ai trent'anni.

Sono diventata donna tardissimo e lo si vede chiaramente dall'età apparente che mostriamo, almeno per ora, tu ed io.
Poi però succede che recuperi in fretta il tempo perso. Il tempo dell'oro.
E tutto assume una luce diversa.

Non sono, certo, ancora in grado di fare un racconto oggettivo, letterario, quasi, di quel che stiamo passando negli ultimi tempi.
Però, se è vero che ho qualcosa da dire lo si vedrà a breve.
Altrimenti, farò bene a tacere. 
E a imparare dell'altro.
Vivendo.

martedì 6 maggio 2014

Destinazione Roma: resilienza vieni a me


Roma, riflesso dal terrazzo del MACRO

Ho scattato questa foto a inizio marzo, in uno dei numerosi giorni di pioggia degli ultimi mesi che speriamo di esserci lasciati alle spalle.
Conservo comunque un ricordo bellissimo di quel momento: io da sola, sotto il mio ombrellino rosso nuovo fiammante, raggiunta qualche minuto dopo da sorella, nipoti e cognato. Roma mi piace molto: sarà caotica, sarà spettinata e troppo spesso sporca, ma continua ad affascinarmi assai. A breve (se andrà tutto bene la trasferta umbra dei prossimi giorni), ci tornerò.

Spero di arrivarci con il giusto clima interiore. Io, in ogni caso, farò di tutto per vivere la mia giornata da ambulante al Mercatino Giapponese del Black Out (in via Casilina) a Roma.

Ne ho scritto su Minime Storie, quindi non mi ripeto.
Volevo giusto rilanciare l'evento (straordinario assai!) anche sul mio blog più palloso.
Amici romani, semplici conoscenti gattofili e/o amanti dello Japan style: passate a trovarmi. Sarò molto contenta di dimenticarmi di tutto il resto chiacchierando con voi.

Mi auto auguro in bocca al lupo. Ne ho bisogno per un sacco di ragioni.
Soprattutto ne ha bisogno la persona più importante della mia vita.
Come vorrei essere capace di dimostrarglielo.
Ce la metterò tutta.
A presto.

domenica 4 maggio 2014

Senigallia e la sindrome (tutta italiana) dell'emergenza continua





Spero di rivedere a breve Senigallia così.
Certo è che da quando abito nelle Marche di dissesti idrogeologici ne ho visti parecchi.
La parte paranoica di me (in uno dei due episodi di Maigret di ieri sera si parlava di tare genetiche) ogni tanto mi spinge a domandarmi: non è che sono io che porto iella?
Poi razionalizzo (come no) e dico: tiè.

In tutti i casi, quando ti trovi molto vicino a un disastro molto poco naturale (lo sappiamo: la portata d'acqua di ieri era eccezionale, ma le ferite alla terra non lo sono affatto e non da adesso), ti rendi conto che a spalare il fango ci potevi essere anche tu, in queste stesse ore.

Oggi ho osservato bene la protezione che hanno imbastito sulla grossa frana che lo scorso novembre si è staccata pochi metri più su rispetto al palazzo in cui abito io: a occhio non mi pare un granché sicura, ma parlo da totale profana.
Poi però sento che è crollato un ponte sullo stesso corso d'acqua, detto simpaticamente Ete Morto, che in un altro punto, un po' più verso la costa, ne aveva rotto un altro causando due vittime nel non lontano 2011.

E mi dico: possibile che a tre anni dal tragico incidente nel frattempo nessuno abbia provveduto a sistemare tutti i valichi sullo stesso fiume?
Sempre Maigret, appropriatamente ieri sera considerava che la vox populi molto spesso è vera. A pensar male, insomma, si pensa ahimè troppo spesso bene.

Per fortuna, il centro storico di Senigallia sembra essersi salvato dalla doppia esondazione (Misa + Cesano), ma ci vorranno diversi giorni prima che si possa tornare alla normalità. Sempre che ci si intenda allo stesso modo sul significato di quest'ultima parola.

Normale non è un Paese che lascia costruire dove non si deve, condannando al disastro prossimo venturo abitanti (poveretti i due anziani vittime dell'alluvione senigalliese. Che triste fine. E per fortuna che ai ragazzi rimasti intrappolati nella scuola in cui va anche la figlia della mia amica Maria Loreta Pagnani non è successo nulla) e titolari di aziende.
Davvero, non se ne può più di sentire la conta dei danni successiva.

Mi colpisce, infine, anche un'altra altrettanto poco onorevole coincidenza. Mentre i senigalliesi lottavano contro la furia delle acque, i malcapitati cittadini romani a passeggio nei pressi di Ponte Milvio tentavano disperatamente di evitare la furia degli ultras.
Mi dispiace: non riesco proprio ad appassionarmi al calcio.
A cominciare dal crollo dello stadio dell'Heysel in avanti (ricordo di un razzo sparato su un bambino o un ragazzo più o meno negli stessi anni), allo sport più amato dai miei connazionali associo immagini di violenza, razzismo, stupido machismo e totale anarchia.

Se fosse per me, il campionato dovrebbe essere abolito.
Ma so di far parte di una minoranza, quindi pazienza.
Però sono veramente stufa di vivere in un Paese che sembra capace solo di passare da un'emergenza all'altra, o che comunque viene raccontato in questo modo da troppi miei cosiddetti colleghi (io ormai non mi sento più una giornalista, se non lo si fosse capito. O forse non lo sono mai stata, al di là del tesserino e del diploma che mio padre mi ha fatto incorniciare).

E insomma. Il discorso sarebbe troppo lungo e adesso non ho voglia di affrontarlo.
Ha smesso di piovere, anche se il cielo è ancora grigio e fa freddo come a dicembre.
Auguriamoci che le temperature diventino più miti, almeno questo.
Forza Senigallia, tornerò presto a visitarti.

venerdì 2 maggio 2014

La formazione continua per i giornalisti e i piani per il futuro. Da tappabuchi


Stiamo cercando casa da comprare. Ne avevamo vista una che andava bene. Forse non benissimo, ma comunque abbastanza da suscitare la nostra attenzione.
E' incredibile come l'essere umano si attacchi anche al minimo segnale di novità pur di scuotersi dalla routine. Perché anche chi non ha un lavoro fisso (in questo momento tout court un lavoro come me) finisce per cedere alle abitudini. Le medesime, da un certo momento in poi, si trasformano, per l'appunto, in tran tran, in "day-to-day-grind", come si dice in inglese.

Ebbene, quella casa sembra che non sarà nostra. Poteva succedere, certo, quindi non vale la pena farne un dramma. Ci proverò.
Oggi, poi, ne abbiamo vista un'altra, quasi per ripicca di aver perso la prima, ma questa, no, non ci è piaciuta affatto.
Tra i piani mentali di questi ultimi quindici giorni in cui mi immaginavo già in procinto di traslocare nella nostra casa, la prima vera nella quale, forse, mi sarei sentita al mio posto, c'era anche quello di cambiare totalmente vita.

Dovendo risparmiare ogni singolo centesimo dall'acquisto ahimè saltato all'eternità, non mi sarei di certo più potuta permettere di fingere di fare la giornalista. Stavo già sognando futuri lavoretti di poche ore come, che so, stiratrice a domicilio, dog o cat-sitter, o qualsiasi altra micra-mansione che mi avrebbe permesso di sentirmi un po' meno in colpa di come mi senta attualmente.

Pazienza. Anche in questo caso non è che tutti stiano aspettando di ingaggiarmi come tappa-buchi (so piantare chiodi e riparare rubinetti, a proposito), ma una riflessione sull'inevitabile necessità di procacciarmi qualche euro per il pane (o la pizza surgelata) che tanto si consuma nella nostra torre in affitto mi pareva opportuna.

Vorrà dire che, nell'attesa del grande e probabile iper-downshifting (non chiedetemi che cosa significa), continuerò a studiare, darò il benedetto esame d'inglese e cercherò di ultimare alcuni progetti più in linea con il mio percorso scolastico e professionale.

C'è però un fatto che mi sta qui, proprio sotto la bocca dello stomaco.
Da quest'anno tutti i giornalisti hanno l'obbligo della formazione professionale. Nei mesi scorsi ho tentato di capire quali fossero i corsi che danno i crediti formativi e finora sono arrivata alla conclusione che siano pochi e... quasi tutti a pagamento.

Il che mi pone un ulteriore problema di coscienza: se già non guadagno un euro (dall'inizio dell'anno non ho ancora emesso una fattura), come mi pago i corsi?
Ed ecco che poco fa leggo un post scritto da una collega, Marina Morpurgo, sicuramente molto più addentro di me nelle cose del mio mestiere, che mi ha assai illuminato.

Preferisco copiarlo e incollarlo qui di seguito:

"Si è aperto un dibattito che la dice lunga sulle condizioni schizofreniche in cui si lavora in questo paese.
Come saprete, la professione di giornalista è ormai in via di estinzione, disoccupazione alle stelle, compensi oltraggiosi, la deontologia professionale considerata un inutile orpello. E se hai più di 50 anni puoi pure spararti, oppure se sei ottimista spuntare le tacche sul muro, in attesa...
della pensione (se non muori prima).

Adesso lo Stato chiede agli iscritti agli ordini professionali la formazione continua, che sarei lietissima di fare anche a 56 anni, se servisse a qualcosa e non fosse una presa per il culo, come lo sarebbe il costringermi a fare corsi per mestieri non più esistenti come il menestrello o la cardatrice di lana.

Di fronte alla assoluta incapacità di tutela della professione manifestata in tutti questi anni, a questo punto ho chiesto di essere gentilmente lasciata morire in pace (posso anche firmare un impegno giurato a non scrivere più articoli, non mi costerebbe nulla), per non aggiungere danno alla beffa.

Come molti colleghi ho cambiato mestiere perché nessuno vuole dei vecchi rigidi rompicoglioni che hanno mille scrupoli deontologici e la singolare pretesa di farsi pagare.

Mi dicono che si saranno sanzioni disciplinari nei confronti di chi non accumulerà 60 crediti in tre anni. Allo stato attuale ci sono corsi di deontologia on line gratuiti da 10 crediti (mi vien da ridere, scusate: imparate la deontologia e poi mettetela da parte), e poi corsi a pagamento. Non ho alcuna intenzione di perdere un mucchio di tempo e di pagare per corsi che non mi serviranno a un cacchio se non ad accrescere la mia frustrazione. Se volete che io segua un corso, insegnatemi a fare le torte o a ricamare, e non insegnatemi cose che la maggior parte dei disoccupati sa fare benissimo – o che è in grado di imparare sul campo, se solo la si fa lavorare.

A questo punto trovo più giusto affrontare le sanzioni disciplinari. Vista la ferocia inaudita con cui sono stati sanzionati colleghi colpevoli di violazioni gravissime, in effetti sono anche curiosa di vedere cosa succede."
 
Rispetto a quanto scrive lei sui 50enni, beh, posso solo aggiungere che lo stesso, tragico ragionamento vale per noi quarantenni, quelli che Monti, non più di un anno fa, ha bollato come la generazione perduta, neanche fossimo tutti Hemingway e Fitzgerald.
 
Beh, io so di essere perduta, in particolare al lavoro che sognavo da quando avevo 22 anni di sicuro, ma in fondo mi dico: il mondo è grande, l'Italia un buco di Paese.
Vediamo come se la caverà di qui a dieci anni. Vediamo chi la saprà raccontare meglio, se i formati continuamente o quelli come l'ironica collega di cui sopra o anche io, ma sì, che un giorno saprò tutto di appretti per colletti e di tubi per la doccia.
 
Che c'entra la foto che ho scelto?
Da qualche settimana ho preso a leggere La storia infinita di Michael Ende, un libro che fu regalato a mia sorella nell'Ottantatré.
L'ho recuperato da casa dei miei genitori con il preciso intento di farmi trasportare lontano, come il protagonista del romanzo, da un sacco di cose.
 
Non sempre riesco a concentrarmi, anche perché, lo confesso, non ho mai amato particolarmente il Fantasy. Eppure è sempre meglio rifugiarsi nelle pagine un po' ingiallite dagli anni, ripescando tra le medesime pure un foglio a quadretti con su vergati alcuni miei antichi esercizi di trigonometria, piuttosto che cedere allo sconforto.
 
No, ora basta.
Perduta sì, ma non nell'orgoglio.
E ora spengo e vado a leggere di Atreiu. E speriamo che riesca a salvare l'Infanta imperatrice.
 
Notte serena, amici.