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sabato 20 marzo 2021

Stop scrauso, un round dopo l'altro, fino alla vittoria finale

 


Ci siamo portati dietro dalla casa di Fermo questa lavagnetta. Non ricordo più dove l'avevamo comprata. Forse nel negozio di casalinghi economici dove siamo tornati qualche giorno fa.

Pensavo, pensavamo tutti e due, che l'avessero chiuso. Sono anni che tappezzano la grande vetrina dell'ingresso con avvisi di svendite finali. Accorrete, gente, diamo tutto via a meno di niente.

E invece no. Era ancora là, con quegli articoli mezzo cinesi mezzo sovietici, tra i quali ogni tanto si nasconde qualche perla preziosa.

La lavagnetta era comprensiva di gessetti. Di questi, nell'appartamento marino, il nostro amato appartamento marino, non c'era più traccia.

Scomparso anche l'orologio a muro della cucina, comprato, questo sì, in un negozio di casalinghi più grazioso, pieno anch'esso, naturalmente, di articoli economici, ma almeno dal design più accattivante.

Molto probabilmente gessetti & orologio sono volati via verso qualche altra abitazione oppure, molto semplicemente, sono finiti nella spazzatura. 

Mi domando però che persone abbiano, davvero, vissuto a casa nostra. Chissà che cosa passava per la testa del bambino che ha scritto i nomi di tutti i membri della famiglia con uno dei gessetti svaniti nel nulla. Chissà da quando era lì, quella scritta, se addirittura da febbraio dell'anno scorso, quando sono entrati, felici, credo, almeno all'inizio, di aver trovato un nuovo alloggio.

Nel tempo, le cose devono essere peggiorate, e pure parecchio. L'unico a non aver troppo risentito della crisi portata dal Covid, è stato, credo, il cane, un pitbull pare. Chissà quanto si deve essere divertito a grattare una delle porte, da entrambi i lati, poi. 

E dire che i precedenti proprietari ci tenevano assai, a quelle porte: ricordo con quale orgoglio il vecchio postino, famoso in tutta la piccola cittadina adriatica, me le aveva mostrate, con quei vetri smerigliati e le decorazioni in rilievo colorate. 

Ho fatto del mio meglio per pulirle. In generale, ho fatto del mio meglio per ridare alla casa un aspetto dignitoso

Mi sforzo di trovare i lati positivi, l'ho sempre fatto, praticamente. Amavo molto la storia di Pollyanna, la piccola orfanella che aveva imparato a sorridere della vita, facendo il suo "gioco della felicità".

A pensarci adesso, mi sono spesso piaciute storie così, sono cresciuta, come molte altre bambine della mia generazione, con storie così. Amavo molto anche Il giardino segreto, forse, anzi, mi piaceva anche di più di Pollyanna. Trovavo bellissimo che questo ragazzino rifiorisse alla vita curando il "suo" giardino.

Avevo trovato anch'io, il mio giardino.

Era la mia casa marina, in un paese tanto anonimo quanto prezioso. Per me, solo per me. Mi sono innamorata di quel posto, Porto San Giorgio, ancora prima di andarci a vivere. Non so spiegare bene il perché, ne parlavo con un'amica con cui ho camminato con grande piacere sul lungomare, comunque solo lì, tolta la casa dei miei genitori, mi sento davvero bene.

Per questo, e non solo per questo, mi ha fatto molto male vedere l'appartamento in quelle condizioni, le lampadine fulminate o assenti, piena di rozze scarpe tacco 12 che però non ho avuto il coraggio di gettare direttamente in discarica (le ho infilate in quei contenitori per i poveri: chissà chi finirà per indossarle. Forse è meglio non saperlo).

Non ho buttato neanche i "Diari di una schiappa" del ragazzino che ha giocato sulla mia scrivania da bambino, macchiandola di colla o qualche altro materiale che non se ne va più. La prossima volta che torno li porto alla scuola elementare vicina: almeno potranno rivivere, come il giardino del romanzo.

Rivivere, ecco, ai mobili di mia nonna avevo dato questa possibilità, portandoli prima nella casa-torre, in cima alla collina del Girfalco, e poi nel mio appartamento, comprato con tanta fatica e gioia.

Al posto del letto in legno chiaro, l'inquilina mi aveva lasciato il suo, laccato bianco. Le avevo dato il permesso io, ignara del fatto che mi sarebbe toccato smaltire diversi pezzi di mobili smontati, più una rete matrimoniale e un'altra singola richiudibile. 

Praticamente un magazzino. Un magazzino malmesso, le tapparelle lasciate su, alcuni vestiti e una vecchia gomma da masticare (non ancora mangiata, per fortuna) giù, sulla coperta del mio letto. E dire che nella telefonata di commiato la giovane non so quanto inconsapevole distruttrice mi ha detto che ci teneva a restituirmi la casa come gliel'avevo consegnata, piuttosto trepidante, tredici mesi fa.

A pensarci bene ora, solo il tavolo da sei di legno scuro, solido e indistruttibile, mi ha trasmesso un segno di speranza. Da quel tavolo bisognava ripartire. Lì abbiamo fatto colazione, contrariamente alle nostre abitudini di un tempo, per diversi giorni.

Andarsene via è stato triste, ma mi sentivo carica, ricaricata, e pronta ad affrontare una nuova fase, non so quanto lunga, qui in terra asburgica, dove ci aspettavano i gatti. Il gioco della felicità mi diceva che, sì, ero, sono stata fortunata, perché almeno adesso ho riavuto il mio luogo del cuore, chiuso e sbarrato in attesa del nostro rientro. Ma la mia vita, la nostra vita, al momento, è in questa fredda città del Nord Europa. Fredda, meteorologicamente parlando soprattutto, e non solo.

Amici e parenti (alcuni) ci dicono di resistere e il loro sostegno mi aiuta. Persino il mio dolce padre mi manda messaggi d'incoraggiamento, a dirla tutta un po' formali, ma teneri come solo un vecchio schivo come lui potrebbe scrivere.

Durante le quattordici di ore di viaggio, però, ho avvertito una fastidiosa incrinatura.

Mentre ascoltavo Mark Knopfler, e i suoi vecchi album dei vecchissimi tempi, mi è comparso sul cellulare il nome della mia proprietaria. Tuffo al cuore. Oddio, è successo qualcosa ai gatti. A lei ne avevo affidato la cura, ben sapendo che sarebbe stata in grado di occuparsene, vivendo al piano sopra il nostro e avendone anche lei due.

Kein Problem mit den Katzen, nein.

Il problema era un altro. Anzi, è un altro. 

Caldaien rotten, ja. Fino a mercoledì prossimo (si spera non oltre) no acqua calda no riscaldamento. 

Queste cose succedono, lo so. Anche a Milano rimasi due settimane nelle medesime condizioni. 

La proprietaria, peraltro, ci ha anche procurato una stufa, un madonno pesantissimo, come piace tanto ai popoli nordici, che però la sua sporca funzione la fa.

Il problema è un altro, dicevo.

Il problema è lo scrauso.

Was ist scrauso?, mi ha chiesto un'amica austriaca che parla bene l'italiano.

Parafrasarlo significa togliergli la scorza onomatopeica, così essenziale in tutte le lingue del mondo, persino in tedesco. Sì, sì, amici, è così: non faccio ironia in questo momento.

Tornando allo scrauso, insomma, è una parola che incarna alla perfezione il fantasma, molto materiale, contro cui ho ingaggiato la mia personale battaglia.

Di più: lo scrauso è il nemico da sconfiggere assolutamente e in maniera definitiva. Non di battaglia si tratta, allora, ma di guerra.

Stop scrauso, stop scrauso, stop scrauso... Me lo ripeto come un mantra tutti i giorni, per vari minuti di seguito. Davvero.

E che cosa succede? Sentendo di essere in pericolo, lo scrauso, come qualsiasi altra creatura viva, si ribella. E mena pugni, buttandomi giù.

Io però non ci sto a restare a terra, mentre parte il countdown, e, in genere, a - 8 sono già in piedi. A Porto San Giorgio credo di essermi rialzata un po' dopo, forse a - 5, ma ce l'ho fatta e ho ripreso a recitare la mia preghiera. Hop hop hop, stop scrauso, stop scrauso, STOP. Rieccomi qua, barcollante ma in piedi. Tiè.

Fine ennesimo round. 

Dopo il break, sono arrivata qui, consapevole di trovarmi all'inizio di un round ancora più duro. 

E infatti. Banghete. Con meno tre gradi nel luogo in cui si depositano i bisogni primari, obiettivamente, la botta mi ha lasciato senza fiato.

Dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro... Non ci provare. Non mi avrai, scrauso, NON MI AVRAI.

Prima del colloquio con la consulente del lavoro su skype, perciò, ho scaldato due pentole d'acqua e mi sono lavata pure i capelli. 

Non so come ho fatto, ma ho riso con la tizia e l'ho anche fatta ridere più di una volta. Mi sorprendo ancora quando capitano cose così, ma ormai dovrei saperlo: con gli sconosciuti riesco a simulare bene la fatica che faccio per respingere lo scrauso. Forse, anzi, la leggera agitazione che lascio trasparire fa anche personaggio. Mi dà quella spolverata buffoncella bastevole a dare l'impressione di essere una personcina a modo. 

Sarà il tempo a dire se il nuovo curriculum, preceduto da un Kurzprofil (un profilo in breve) in cui metto in luce il mio amore per la scrittura, la fotografia e la mia predisposizione a dare fiducia alle persone (anche a quelle che ti sfasciano casa) servirà davvero nel mondo del lavoro austriaco.

Mi ha fatto piacere, certo, che la consulente, alla fine della nostra chiacchierata, mentre in cucina il proprietario e lo spazzacamino pianificavano l'eutanasia per la caldaia, abbia detto che il mio curriculum farà sicuramente un'ottima impressione, adesso che l'abbiamo riscritto un'altra volta.

Ha usato anche una metafora lusinghiera su come le sono apparsa: una specie di fiore all'apparenza compatto, in verità composto di tanti petali, uno dentro l'altro. O qualcosa del genere.

Di là si combatteva per me, per qualche minuto almeno, contro lo scrauso, e di qua, dentro allo schermo, una donna pressoché sconosciuta faceva altrettanto, rassicurandomi. 

Da questi segnali capisco che non devo mollare. Lo so che è così.

E infatti non lo farò. Non è possibile che io molli. 

La guerra è fatta anche di momenti di riposo. Le ferite hanno bisogno di qualche giorno per risanarsi. Solo in casi di urgenza si compie lo sforzo estremo di rialzarsi per assestare qualche pugno come si può, pur di sopravvivere.

Oggi non è uno di quei giorni. Ne ho vissuto qualcuno così in diversi momenti dei miei quasi primi 50 anni. Ne vivrò anche altri, di sicuro.

Oggi è il giorno del silenzio. Domani, dopodomani, bisognerà gettare un nuovo piano d'azione, avendo però sempre chiara la strategia di fondo. 

Solo così lo scrauso sparirà.

A voi faccio quest'unica seguente preghiera, in vista degli imminenti Europei di lotta allo scrauso che mi accingo a combattere: credete in me, fate il tifo per me, fate la ola per me. E ripetete con me, se possibile a squarciagola, mentre assesto colpi definitivi: 

Stop scrauso, stop scrauso, stop scrauso...

venerdì 2 maggio 2014

La formazione continua per i giornalisti e i piani per il futuro. Da tappabuchi


Stiamo cercando casa da comprare. Ne avevamo vista una che andava bene. Forse non benissimo, ma comunque abbastanza da suscitare la nostra attenzione.
E' incredibile come l'essere umano si attacchi anche al minimo segnale di novità pur di scuotersi dalla routine. Perché anche chi non ha un lavoro fisso (in questo momento tout court un lavoro come me) finisce per cedere alle abitudini. Le medesime, da un certo momento in poi, si trasformano, per l'appunto, in tran tran, in "day-to-day-grind", come si dice in inglese.

Ebbene, quella casa sembra che non sarà nostra. Poteva succedere, certo, quindi non vale la pena farne un dramma. Ci proverò.
Oggi, poi, ne abbiamo vista un'altra, quasi per ripicca di aver perso la prima, ma questa, no, non ci è piaciuta affatto.
Tra i piani mentali di questi ultimi quindici giorni in cui mi immaginavo già in procinto di traslocare nella nostra casa, la prima vera nella quale, forse, mi sarei sentita al mio posto, c'era anche quello di cambiare totalmente vita.

Dovendo risparmiare ogni singolo centesimo dall'acquisto ahimè saltato all'eternità, non mi sarei di certo più potuta permettere di fingere di fare la giornalista. Stavo già sognando futuri lavoretti di poche ore come, che so, stiratrice a domicilio, dog o cat-sitter, o qualsiasi altra micra-mansione che mi avrebbe permesso di sentirmi un po' meno in colpa di come mi senta attualmente.

Pazienza. Anche in questo caso non è che tutti stiano aspettando di ingaggiarmi come tappa-buchi (so piantare chiodi e riparare rubinetti, a proposito), ma una riflessione sull'inevitabile necessità di procacciarmi qualche euro per il pane (o la pizza surgelata) che tanto si consuma nella nostra torre in affitto mi pareva opportuna.

Vorrà dire che, nell'attesa del grande e probabile iper-downshifting (non chiedetemi che cosa significa), continuerò a studiare, darò il benedetto esame d'inglese e cercherò di ultimare alcuni progetti più in linea con il mio percorso scolastico e professionale.

C'è però un fatto che mi sta qui, proprio sotto la bocca dello stomaco.
Da quest'anno tutti i giornalisti hanno l'obbligo della formazione professionale. Nei mesi scorsi ho tentato di capire quali fossero i corsi che danno i crediti formativi e finora sono arrivata alla conclusione che siano pochi e... quasi tutti a pagamento.

Il che mi pone un ulteriore problema di coscienza: se già non guadagno un euro (dall'inizio dell'anno non ho ancora emesso una fattura), come mi pago i corsi?
Ed ecco che poco fa leggo un post scritto da una collega, Marina Morpurgo, sicuramente molto più addentro di me nelle cose del mio mestiere, che mi ha assai illuminato.

Preferisco copiarlo e incollarlo qui di seguito:

"Si è aperto un dibattito che la dice lunga sulle condizioni schizofreniche in cui si lavora in questo paese.
Come saprete, la professione di giornalista è ormai in via di estinzione, disoccupazione alle stelle, compensi oltraggiosi, la deontologia professionale considerata un inutile orpello. E se hai più di 50 anni puoi pure spararti, oppure se sei ottimista spuntare le tacche sul muro, in attesa...
della pensione (se non muori prima).

Adesso lo Stato chiede agli iscritti agli ordini professionali la formazione continua, che sarei lietissima di fare anche a 56 anni, se servisse a qualcosa e non fosse una presa per il culo, come lo sarebbe il costringermi a fare corsi per mestieri non più esistenti come il menestrello o la cardatrice di lana.

Di fronte alla assoluta incapacità di tutela della professione manifestata in tutti questi anni, a questo punto ho chiesto di essere gentilmente lasciata morire in pace (posso anche firmare un impegno giurato a non scrivere più articoli, non mi costerebbe nulla), per non aggiungere danno alla beffa.

Come molti colleghi ho cambiato mestiere perché nessuno vuole dei vecchi rigidi rompicoglioni che hanno mille scrupoli deontologici e la singolare pretesa di farsi pagare.

Mi dicono che si saranno sanzioni disciplinari nei confronti di chi non accumulerà 60 crediti in tre anni. Allo stato attuale ci sono corsi di deontologia on line gratuiti da 10 crediti (mi vien da ridere, scusate: imparate la deontologia e poi mettetela da parte), e poi corsi a pagamento. Non ho alcuna intenzione di perdere un mucchio di tempo e di pagare per corsi che non mi serviranno a un cacchio se non ad accrescere la mia frustrazione. Se volete che io segua un corso, insegnatemi a fare le torte o a ricamare, e non insegnatemi cose che la maggior parte dei disoccupati sa fare benissimo – o che è in grado di imparare sul campo, se solo la si fa lavorare.

A questo punto trovo più giusto affrontare le sanzioni disciplinari. Vista la ferocia inaudita con cui sono stati sanzionati colleghi colpevoli di violazioni gravissime, in effetti sono anche curiosa di vedere cosa succede."
 
Rispetto a quanto scrive lei sui 50enni, beh, posso solo aggiungere che lo stesso, tragico ragionamento vale per noi quarantenni, quelli che Monti, non più di un anno fa, ha bollato come la generazione perduta, neanche fossimo tutti Hemingway e Fitzgerald.
 
Beh, io so di essere perduta, in particolare al lavoro che sognavo da quando avevo 22 anni di sicuro, ma in fondo mi dico: il mondo è grande, l'Italia un buco di Paese.
Vediamo come se la caverà di qui a dieci anni. Vediamo chi la saprà raccontare meglio, se i formati continuamente o quelli come l'ironica collega di cui sopra o anche io, ma sì, che un giorno saprò tutto di appretti per colletti e di tubi per la doccia.
 
Che c'entra la foto che ho scelto?
Da qualche settimana ho preso a leggere La storia infinita di Michael Ende, un libro che fu regalato a mia sorella nell'Ottantatré.
L'ho recuperato da casa dei miei genitori con il preciso intento di farmi trasportare lontano, come il protagonista del romanzo, da un sacco di cose.
 
Non sempre riesco a concentrarmi, anche perché, lo confesso, non ho mai amato particolarmente il Fantasy. Eppure è sempre meglio rifugiarsi nelle pagine un po' ingiallite dagli anni, ripescando tra le medesime pure un foglio a quadretti con su vergati alcuni miei antichi esercizi di trigonometria, piuttosto che cedere allo sconforto.
 
No, ora basta.
Perduta sì, ma non nell'orgoglio.
E ora spengo e vado a leggere di Atreiu. E speriamo che riesca a salvare l'Infanta imperatrice.
 
Notte serena, amici.

martedì 13 dicembre 2011

Tutta colpa di un cavo

Mi piace lo stile di Yasmina Reza: ho trovato molto interessante il suo punto di vista sui rapporti umani, scoprendola al cinema con "Carnage". Così ho deciso di andarla a vedere anche in teatro, con ART, la piéce che l'ha resa famosa, nella versione italiana allestita da Giampiero Solari e l'interpretazione di Gigio Alberti, Alessio Boni e Alessandro Haber.
Tralasciando l'eccessiva milanesità del Gigio, lo spettacolo regge e, a tratti, strappa anche qualche risata. Soprattutto, è possibile ritrovarvi le tematiche care a quest'affascinante signora francese, che riesce, con sottile godimento, a smascherare le finzioni cui ci costringe la buona educazione.
Eppure, come si potrebbe agire diversamente? Dirsi tutto è necessario? Ho l'impressione che la Reza la veda come me, e cioè: no che non lo è. Il problema è che, in certe situazioni, magari quando siamo sotto stress (il che capita spesso, almeno a chi ha ritmi intensi di vita o non è capace di gestire le pressioni della quotidianità), non ce la facciamo a mantenerci ragionevoli e amabili. E sbottiamo.
Nei miei due giorni a Roma, ad esempio, ho assistito a una piccola tragicommedia familiare scoppiata per via di un cavo del computer diventato introvabile. Non scendo nei dettagli, ma nell'assistervi, mi sono sentita come davanti a uno specchio.
Ieri sera, ancora distrutta dal mio breve ritorno nella mia terra natale, mi sono impermalosita non poco nel vedermi rifiutare i biscotti dei miei nipoti. Possibile che sia così difficile venirsi davvero incontro? E soprattutto: possibile che basta una chiusura stupida come questa o una banale distrazione per farci saltare i nervi? Da dove arriva il nostro bisogno di litigare? E, dall'altro lato, come facciamo a controllarlo nella maggior parte delle occasioni?
I saggi direbbero che, mantendendosi aperti all'altro, dovremmo imparare l'arte dell'ascolto. So di avere questa dote, ma, evidentemente, non basta. Certe volte non si ha voglia di ascoltare proprio nessuno. E si urla e ci si accapiglia, come l'altra sera sul palcoscenico e come (in parte) nella cucina di quella casa da me molto amata.
Ieri sera, però, non ho litigato, ma mi sono limitata ad andarmene a letto tutta seccata.
Però mi è rimasta una tristezza addosso che non mi piace e un desiderio di sbattere le porte come facevo da ragazzina quando qualcuno di famiglia osava contraddirmi.
Me la farò passare, sono una donna piena di buon senso. Da bambina dicevano che ero giudiziosa, ma l'ho già scritto su Splinder e non mi va di ripetermi.
Di certo conviene farsi una ragione anche del sentimento di estraneità che continuano a ingenerarmi i luoghi in cui via via ho vissuto (e vivo) subito dopo aver rivisto quelli in cui sono cresciuta. Mio nipote maggiore pare che abbia esclamato, rivedendo casa sua, dopo le vacanze dai nonni: "Che bella che è questa casa, mamma!".
Ecco, a me succede ancora qualcosa di simile, almeno nei primi momenti. Ricordo i pianti in cui scoppiavo quando ritornavo a Pisa, con la valigia ancora carica dei cibi materni, del maglione o delle calze nuove.
Poi mi riabituavo e mi riabituo. Anzi, come ho scritto di recente, almeno in questa casa ci sono molti oggetti provenienti proprio da lì.
Però ci si sente molto soli. E la consapevolezza che sia il destino comune a tutti gli esseri umani non mi consola.
Finito di scrivere, mi alzerò, metterò in ordine la stanza, forse uscirò. E pian piano anestetizzerò la malinconia.
Va sempre così. Anche le ferite più profonde si rimarginano. Basta solo darsi tempo. E non intercettare, nell'attesa, nessuno capace di farcele sanguinare ancora.

giovedì 24 novembre 2011

Sentirsi a casa

Il maltempo persiste, impedendomi di proseguire con il mio lavoro fotografico. Del resto, siamo quasi in inverno: era piuttosto probabile che si moltiplicassero le brutte giornate.
Sperimento, così, di nuovo, il vuoto, amplificato dalla mia difficoltà di mutare abitudini. A questo proposito, però, proprio ieri sera ho letto delle righe davvero illuminanti.
Il libro che le conteneva è di John Berger, il tema affrontato in quel punto l'emigrazione e il bisogno per chi si è lasciato alle spalle il proprio paese lontano di trovare comunque una casa. Prima di trascriverle, faccio comunque una precisazione: il senso di estraneità provocato da un posto che non ci ha visti nascere, a mio avviso, non dipende necessariamente da quest'ultimo. Capita infatti di provarlo anche a casa propria, tra volti notissimi. Temo che sia, in definitiva, una condizione esistenziale di quasi tutta la razza umana, benché non tutti la mettano a fuoco durante la vita.
Dicevo, quindi, di John Berger, che scrive:
"Chi è costretto ad abbandonare il proprio paese mantiene la propria identità e si improvvisa un tetto. Fatto di cosa? Di abitudini, credo, della materia prima della ripetizione, trasformata in rifugio".
Ma che cosa intende con abitudini? Lo spiega subito dopo: "Le abitudini vogliono dire parole, battute, opinioni, gesti, azioni, persino il modo di portare il cappello".
E poi aggiunge: "Gli oggetti fisici e i luoghi - un mobile, un letto, l'angolo di una stanza, un certo bar, un angolo di strada - forniscono la scena, il sito dell'abitudine, eppure non sono essi a proteggerci, bensì l'abitudine. La malta che tiene insieme la 'casa' improvvisata è - persino per il bambino - la memoria. Al suo interno si organizzano ricordi visibili, tangibili - foto, trofei, souvenir - ma il tetto e le quattro pareti che salvaguardano le vite sono invisibili, intangibili e biografiche".
Perché mi hanno colpito queste parole?
Innanzitutto, perché anch'io sono un'emigrata, benché, ancora per poco (!), "di lusso". Mi trovo in questa condizione da anni, ormai, e, come scrive Berger in un altro punto, ormai mi sento tale anche quando faccio ritorno a casa. Per fortuna, vi abitano ancora i genitori e diverse persone care che ritrovo, molto piacevolmente, ogni volta; ma i visi estranei o diventati tali di chi incontro e persino alcuni angoli della mia città natale mi restituiscono con una potenza che fa male tutta la distanza emotiva e cronologica accumulata.
L'emigrazione, in sintesi, mi ha cambiata, e non da adesso e indietro, indubbiamente, non si può tornare.
Però che cosa è successo nel frattempo?
La casa in cui abito ora è piena di oggetti che mi sono familiari: a volte, addirittura, quando entro nella camera da letto in cui ho piazzato la sedia a dondolo sotto la finestra, nello stesso punto in cui si trovava prima nell'appartamento della mia infanzia e adolescenza, mi sorprendo a pensare di trovarmi lì e non qui.
Non so dire se provo, almeno non ogni volta, nostalgia per quei giorni sicuramente più spensierati, però mi fa effetto accorgermi che avevo bisogno di circondarmi di questi oggetti per sentirmi, seppur debolmente, a casa.
Su quella sedia, lasciavo i vestiti prima di addormentarmi, sulla base sbattevo i malleoli, esattamente come mi capita adesso. Recuperando quegli oggetti di famiglia, ho potuto riprodurre alcune abitudini e, quindi, sentirmi a casa. Un po' di più, almeno, di quanto non mi sia successo nelle mie precedenti dimore di emigrata.
Però, lo confesso, non mi basta.
Sarà perché il lavoro scarseggia, scavando da sotto le instabili fondamenta della mia quotidianità, e perché in questo posto è più facile non essere distratti dal rumore di fondo delle metropoli, ma negli anni ho cominciato ad avvertire sempre più forte il bisogno di radici. Di andare oltre, insomma, le abitudini cui mi aggrappo ogni giorno per tenermi ancorata a terra e che mi hanno permesso (almeno finora) di mostrare all'esterno quel sorriso bonario e rassicurante di cui ho parlato nel precedente post.
Dall'estate scorsa ho un progetto in testa che va proprio in questa direzione. Non è facile metterlo in pratica: occorre, oltre al denaro, una buona dose di determinazione. E di incoscienza.
Non è detto che, realizzarlo, mi farà sentire davvero "a casa": Berger conclude il suo ragionamento sottolineando il fatto che, "nella più brutale delle circostanze, la tua sola casa è il nome che porti - mentre per i più ne sei privo". 
Già, per i più non abbiamo neanche un nome, sarà anche per questo che ci dà fastidio quando qualcuno si sbaglia nel chiamarci.
Però quanto vorrei poterlo mettere sulla porta di quelli che avranno voglia di suonare.
Oltre alle abitudini, concludo, la materia prima di cui siamo fatti sono i sogni. Almeno, io sono così. E voi?