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mercoledì 12 aprile 2017

Mirkoeilcane e i gggiovani (resistenti) dell'Italia di oggi



Vedi i casi della vita.
Intervisto un'artista famosa romana per un'occasione speciale che si è tenuta a Recanati una decina di giorni fa e mi ritrovo impallinata ad ascoltare la musica di Mirkoeilcane
A parte il nome d'arte che mi lascia un po' perplessa (nel trascrivere i nomi dei sedici finalisti di Musicultura 2017, l'occasione speciale di cui sopra, avevo cancellato proprio il suo, convinta che fosse il titolo di un pezzo, mica un autore in carne ed ossa), di questo cantautore trentunenne romano che nella vita si chiama Mirko Mancini mi convince praticamente tutto.

Perché, ok, non so nulla di musica, suonavo male pure il flauto delle medie, ma è riuscito ugualmente a lasciarmi di stucco il suo talento mischiato a una notevole intelligenza.
Mirko mi ha passato gli Mp3 del primo album omonimo fatto in casa, quindi, secondo quanto dice lui, imperfetto. I suoi testi sono in rima baciata, vagamente rappeggiati in molti casi, in altri dal sound anni Ottanta che fa molto mia adolescenza (e sua nascita).

Ci deve essere anche una ragione inconscia sul perché la sua musica mi abbia colpito così tanto, per farla breve.

La canzone che ascolterete sopra racconta comunque una generazione che non conosco.
Quasi tutti i suoi testi non mi riguardano da vicino, se non per un punto: quel senso di invisibilità che l'autore si sente addosso o che affibbia ai suoi alter ego in musica e che sovente si mescola alla precarietà del lavoro.

A Musicultura Mirkoeilcane ha portato, come tutti gli altri partecipanti, due canzoni: a colpire la giuria è stata la seconda che si intitola Per fortuna, che, obiettivamente, è molto originale. La prima si chiamava Salvatore.

Ed è proprio di questa che volevo parlare.
Il protagonista della favola suonata è un cassiere di un supermercato, uno che batte i prezzi senza un'oncia di entusiasmo, mentre la gente e la vita gli scorrono davanti.
Nel grigiore generale, Salvatore si lascia però ancora un piccolo margine per sognare una via d'uscita, fosse pure solo ideale, componendo le sue canzoni.

Una storia minima, triste e demotivante, direte. Eppure in quelle poche parole c'è tutta la poesia della nuova Italia, fatta di ragazze e ragazzi che, magari il sabato sera, si mettono gli stessi pantaloni e fanno conversazioni banali, ma che in verità sono solo lo specchio di un Paese che vorrebbe distruggerli e basta. Perché tra loro ce ne sono tanti, ne sono certa, che non vorrebbero affatto passare da una serata uguale a un'altra con lo stesso risvolto e mocassini senza calze, a parlare di piastre per capelli o di nuovo look da postare sui social.

Mirko me l'ha detto: è un tipo polemico. Io avrei voluto rispondergli: e meno male.

Peccato che oltre a questo non avrei comunque potuto dirgli altro, se non, forse, di non mollare. Oppure avrei potuto suggerirgli di buttarsi prima possibile sul suo piano B, ossia fare il cittadino del mondo, pagandosi i viaggi lavorando qui e là.

Ma non lo penso davvero.
Secondo me, quel ragazzo, come gli altri (e le altre, ovvio) dotati di qualcosa da dire devono prendersi lo spazio che meritano non dico subito, ma almeno in tempi ragionevoli per non passare direttamente dall'infanzia alla tomba.

Ce la farà, non ce la farà?
Detto diversamente: ce la faremo, non ce la faremo?

Mi sta scoppiando la testa a forza di pensarci, ma temo di non conoscere la risposta.
E se la conoscessi sarebbe sbagliata, come avrebbe detto Quelo.

Ma la stagione non è adatta alla depressione.
Meglio tornare a parlare di rinascite etc etc.

In bocca al lupo a tutti noi.

lunedì 16 maggio 2016

Maggio e le ripartenze


La foto risale a un paio di settimane fa, avrei voluto usarla in un altro contesto, ma alla fine, come al solito, tutto torna.
"L'offerta è destinata al reparto di oncologia: è per dare un sostegno a pazienti e loro parenti".
Sono le parole che mi ha detto ieri una delle volontarie dell'Anpof, una onlus che lavora con l'ospedale di Fermo, presenti con il loro banchetto di fiori a Donna Rosa, la corsa-camminata di Porto Sant'Elpidio dove sono tornata ieri dopo due anni. Ho scoperto che qualcosa di analogo (e di più grande) era anche a Roma, ma il microcosmo nel quale vivo è in grado ogni tanto di regalare momenti di grande umanità.

A fine corsetta, la mia amica Maria ed io ci siamo fatte un sacco di fotografie. Anche prima della partenza, a dire il vero, ma si capisce, guardando le nostre guance più colorate, quanto sia stato liberatorio lo sforzo fisico.
"Chi ci è passato lo sa", ho risposto alle donne del banchetto allontanandomi con la piantina di lavanda.

Quando ti capita una cosa come quella che succede giornalmente a un sacco di gente, non sei più lo stesso. Per certi aspetti, diventi più lucido, per altri, lo ammetto, molto più disincantato.

Facebook mi ricorda in questi giorni eventi pubblicati uno, due, cinque anni fa.
Maggio è sempre stato un mese pieno, per la sottoscritta, me ne sono accorta proprio grazie allo stupido gioco delle rimembranze socializzate.

Addirittura da prima che sbarcassi su quel mezzo, da molto prima, ho fatto in questo mese alcune delle esperienze più indimenticabili.
Penso alle mattinate tra i boschi vestita da folletto (come una cretina: ma ero giovane, si poteva ancora fare), penso al mio primo mese di lavoro in un grande giornale, le ore di luce lunghissime, le speranze, i profumi, la casa nuova.
E penso anche all'anno dopo, quando tutto questo era già sfumato, e al senso di vuoto e di strana libertà che avevo provato ascoltando un gruppo folk abruzzese in una piazza della mia città natale.

L'anno scorso, poi, giusto in questo giorno ho ritirato le chiavi di casa mia: oggi ho rivisto la mia faccia tirata e sorridente con il mazzo in mano, giusto qui sotto.

Il trasloco è capitato proprio alla vigilia del primo anniversario senza mia madre.
L'assenza è molto più forte quest'anno.

Chi ci è passato lo sa e non ha bisogno di fare ulteriori domande.
Se non quelle giuste.
Sentite le risposte, non si può che andare avanti. Voltare pagina per tempo. O abbandonare la lettura perché ha capito che continuare non vale proprio la pena.
Senza inutili recriminazioni.
Senza dannosi sensi di colpa.

Con la coscienza limpida di chi ha sa che, davvero, accidenti, si vive una volta sola. E si va via molto più in fretta di quanto pensiamo.

Non avevamo capito quello che stava succedendo, non volevamo crederci.
Forse è stato meglio così, almeno abbiamo retto alla brutalità del reale.

Però i sogni continuano (lei compare molto spesso) e mi dicono che ho ancora delle cose da fare, senza paura.

I visi concentrati dei giovani campioni di tennis che affrontavano ieri le finali femminili e maschili mi hanno confermato quanto sia essenziale impegnarsi a fondo nelle cose e poi, una volta dato il massimo, tornare a sorridere. Non sapevo che Serena Williams, tanto per fare un esempio, sfoggiasse uno sguardo così mansueto dopo la guerra condotta a colpi di pallinate.

Ha ringraziato Dio alzando gli occhi al cielo con una tale naturalezza e semplicità che mi hanno conquistata. Idem la sua avversaria, una bambina dotata di un talento esplosivo che parla di vita e di energia pura.

Bisognerebbe avere il più possibile stati di grazia così, commisurati, ovviamente, alle nostre capacità.

Alla fine è proprio quello che ho imparato da mia madre, entusiasta del suo lavoro, oltre le pesantezze della burocrazia e le piccinerie di alcuni colleghi.

Vorrei qualcosa di simile, per me, ecco tutto.
Vorrei sentirmi parte di qualcosa senza ambiguità e rattristanti ostacoli.

Maggio è il mese ideale per ripartire.
Le strisce sono state rifatte.
La strada è di nuovo sgombra.

Speriamo.

giovedì 5 maggio 2016

Il posto di lavoro ideale? Il catasto di Totò


Fa freddo e sono nervosa. La premessa è necessaria per darvi un'idea climatico-psicologica delle mie prossime parole.
Alla foto che vedete sopra ho dato come titolo "Il posto di lavoro", cancelletto sottostante, tanto per darmi un tono trendy, #arianuova.

Si tratta più di un auspicio che di una condizione, ma davvero, rischio di apparire insopportabilmente pesante, quindi mi fermo qui.

Ieri però c'era il sole e pareva che finalmente la temperatura stesse salendo. Invece niente: indosso il maglione finto anni Ottanta che di solito sfoggio durante l'inverno sopra una felpa nemmeno quella tanto leggera.

Vorrei darvi qualche notizia interessante sulla cosiddetta fase nuova che sto vivendo, ma non ne ho.
Mi sono ritrovata, però, un'oretta fa, ad alzare un po' la voce con il padre anziano, che animato - lo so - dalle migliori intenzioni mi chiedeva aggiornamenti. "Mi stai facendo innervosire come succede a te quando ti chiedono come va la salute", gli ho detto a un certo punto con una certa acidità. Ma era proprio vero. 

Chissà se adesso ha capito che cosa significa per noi affezionate figlie e/o altri parenti quando non sappiamo come prenderlo. 

Mi dispiace davvero di non essere leggera né rassicurante, ma le cose stanno così.
Dopo tutti questi mesi passati a fare un po' come mi pare, lavoricchiando prima, smettendo del tutto poi, avrei voluto affrontare con serenità flutti e marosi connessi a qualsiasi lavoro.

Purtroppo non ci riesco. Non oggi, non in questi giorni.
Provo, semmai, un affanno strano e una tensione che non mi piace. 
Speriamo che gli allenamenti fisici di questi anni mi preservino da colpi improvvisi.

Resta pur vero (e in fondo l'ho sempre saputo) che io tutta questa resistenza allo stress non ce l'ho mai avuta. Lo sappiano i motori di ricerca di lavoro che consulto quasi giornalmente: se mi vorrete mai nei vostri staff, prima mi dovrete portare una bella tazza di valeriana. 

Dovevo lavorare all'ufficio del catasto dei tempi di Totò. E pazienza.

Però leggere ad alta voce con le cuffie sulle orecchie mi piace assai. Se già riuscissi a sentirmi più tranquilla sotto questo piccolissimo aspetto, il disorientamento e la scarsa convinzione che mi zavorrano al momento, almeno mi lascerebbe una traccia negli anni che verranno.

Mi zittisco.
Le trasmissioni riprenderanno al più presto possibile.

Con un umore (e una temperatura!) speriamo migliore.
Buoni giorni di maggio a voi.

domenica 1 maggio 2016

Paura e solitudine. Ovvero il lavoro che c'è


Ho scattato questa foto qualche giorno fa, sulla spiaggia. Poi l'ho condivisa su Instagram, dandole un nome tutto sommato piuttosto banale: "In cammino". Sono rimasta sorpresa dall'alto (per così dire) numero di cuoricini ricevuti (corrispondenti ai like di Facebook) e così ho deciso di usarla per questo post sul primo maggio e il #lavorochec'èenonc'è.
Quello che non c'è, ormai, è piuttosto noto a tutti, al di là dei dati diffusi (ma che strano) giusto alla vigilia della festa odierna.

Vorrei, però, parlarvi, una volta tanto anche di quello che c'è.

Succede che un caro amico ha una promozione e ricomincia dal punto che aveva deciso di mettere (pazza idea) vent'anni fa. Un miracolo, certo, ma anche un cappio. Sei riuscito a tornare a galla? Allora accontentati di questi duecento euro in più contro undici ore di lavoro giornaliere e zitto, che fuori c'è la fila di gente che farebbe lo stesso per molto meno denaro e svariate ore di travaglio in più.

Oppure: vuoi che ti paghi? Eh, ma prima devi aspettare che incassi i proventi della pubblicità. Mica pretenderai uno stipendio tutti i mesi? In fondo siamo una famiglia: se vuoi ti dò un ciauscolo, almeno magni.

Ah, non ti piace come ti trattiamo? Questa è la porta e adiòs, ci frega assai se il sindacato appoggia la tua causa e se noi tuoi datori di lavoro siamo imprenditori milionari.

"Paura e solitudine": è lo stato d'animo vissuto da molti. Si parlava di giornalisti, a dirlo era Guido Besana, sindacalista e dipendente Mediaset, ma di certo non capita solo a loro.

Succede semplicemente un fatto e lo ha mostrato molto efficacemente sempre lo stesso Besana all'assemblea del Sindacato giornalisti marchigiano, più deserta di una riunione di cospiratori.

Il giornalista, omone con barba, ha alzato un braccio per riabbassarlo lentamente subito dopo, con l'intento di mimare la curva discendente dei redditi della mia categoria. Una parabola che la sta portando ad avvicinarsi sempre di più a quella del resto dei lavoratori, con una coda non trascurabile di colleghi che stanno già ben al di sotto della soglia considerata minima dalla cassa previdenziale dei giornalisti (l'Inpgi).

Giusto un paio di numeri, per fingere che servano a qualcosa: secondo Besana, contro una retribuzione media pari a circa 60 mila euro all'anno percepita dai giornalisti italiani dipendenti (mi sfugge, non me lo sono appuntato, mea culpa, quanti siano), ossia quelli con contratto regolare e con una serie di tutele previdenziali e sanitarie che non oso nemmeno immaginare, si è nel frattempo fatto largo (largone, direi) un gruppo di circa trentamila giornalisti che all'anno di euro ne prendono circa 9 mila.

Non voglio tediare i non addetti ai lavori sulla differenza tra pubblicisti e professionisti, ma posso solo dirvi che tra quelli che prendono così poco, ne conosco parecchi, dell'una e dell'altra categoria. E sto parlando di persone che non hanno modo di integrare quelle modeste entrate con altre più serie, sia per questioni di tempo (c'è gente che lavora undici ore al giorno per tenere in piedi attività che altrimenti chiuderebbero) sia per scarso appeal del loro curriculum sul mercato del lavoro.

Chi ha fatto più o meno sempre lo scribacchino, in altri termini, difficilmente riesce a riciclarsi in qualcos'altro, a meno di non avere uno zio buono o qualche altro protettore.

"Oggi ci sono molti più concorrenti a buon mercato di quanti ne avevamo un tempo", ha detto il sindacalista milanese. Che però, bisogna che lo aggiunga, ha parlato anche di una mediazione in corso tra gli editori e la federazione nazionale della stampa per rivedere in qualche maniera il contratto giornalistico fortemente disatteso al di fuori dei media mainstream, per tentare di salvare la truppa sempre più povera dei soldati Ryan dell'informazione.

Potrebbe nascere una specie di collaboratore-dipendente-a-orario-ridotto, però a tempo indeterminato. Una specie di mix in tono minore tra l'articolo 1 dell'anacronistico contratto giornalistico e i collaboratori esterni di una volta, quelli che in redazione potevano giusto entrare per farsi dare incarichi/ramanzine, senza la possibilità di lavorare al desk (ossia titolare, sistemare pezzi altrui etc etc).

Io non so dirvi se mai nascerà quello che ironicamente qualcuno ha battezzato "articolo x". E tutto sommato, francamente, penso che al grosso della gente non interessi affatto.

So solo che se devo continuare ad aggirarmi in questo mondo, mi toccherà confrontarmi con il presente. E con il futuro. Camminando sulla sabbia senza affondare, come nella foto.
Finché morte non ci separi.

Tiè.

Buon primo maggio a tutti, amici.

mercoledì 27 aprile 2016

La cucina di mia madre e i cambiamenti



Nello spogliatoio della mia amata palestra, si parlava di fritto di qualità. Una mia simpatica omonima, in particolare, diceva che per Pasqua voleva assolutamente il menu tradizionale e che se non fosse stato possibile a casa di non so quale parente, ci avrebbe pensato lei.
Parlava di "agnello fritto" (eh, lo so, per i miei eventuali amici vegetariani e vegani è un bel colpo), ma soprattutto di zucchine fritte.
Mi sono tornate in mente, altro che Proust, le zucchine impanate a fili di mia madre. E le sue alicette pastellate e spruzzate di limone.

Qualche giorno fa mi è successo qualcosa di simile mentre cucinavamo, mia sorella ed io, i carciofi ripieni. Essendoci avanzato parecchio impasto a base di pane sbriciolato, preparato da una eccezionale infermiera cuoca che aiuta mio padre, ma rafforzato da mia sorella con prezzemolo, aglio e olio, ho avuto l'idea di aggiungere qualche patata, debitamente scavata e riempita.
L'accostamento del tubero all'ortaggio era abituale per mia madre: me l'aveva ricordato qualche settimana prima una zia, nel mostrarmi i suoi ottimi carciofi cotti come i nostri in padella.
La mamma, in verità, non usava quasi mai l'aglio né cucinava i carciofi sui fornelli, bensì in forno, ma è stato comunque, almeno inconsciamente, un mio tentativo per celebrarla.

Quello stesso giorno, nella nostra casa di Francavilla, abbiamo fatto pulizia di oggetti e vestiti non più utilizzabili. Tra questi ultimi, ahimè, c'erano anche i suoi costumi. Alcuni mai messi: almeno, io non glieli ho mai visti.
Ma lei era così: comprava un sacco di roba anche per il mare, ma poi, non si sa bene per quale processo psicologico (a noi figlie ci sembra ogni tanto che volesse punirsi di qualche colpa immaginaria), metteva sempre gli stessi costumi, le stesse vestagliette. Una di queste è finita nel mio bagaglio e ora è nel cassetto. So già che difficilmente la indosserò: mia madre aveva tipo una quarta di reggiseno e un paio di taglie in più di me, ma non ce l'ho fatta. E poi chissà, magari me la metto lo stesso.

Non so che cosa mi sta succedendo, ma ogni tanto mi pare che sia tutta colpa dei cambiamenti che sto vivendo in questi giorni se, all'improvviso, senza un motivo apparente, mi tornano alla memoria questi micro-flash del passato. Non mi riferisco solo a mia madre, ma anche ai profumi ritrovati della mia adolescenza, in un primo pomeriggio di giorni fa sul balcone della casa dei miei, e ad altri ricordi più recenti (dieci, quindici anni fa) di quella che ero e non sono più.

Mi stupisco, a tratti, della mia età attuale e in altri mi sento la stessa energia e la stessa voglia di fuggire che avevo da ragazza. Quella nutrita da giovane adulta, voglio dire, prima che il dolore si abbattesse sulla nostra famiglia. Prima che arrivassero le malattie e i doveri di una figlia di padre anziano.

Fuggire, ho detto. Forse non è esatto.
Vorrei solo che davvero la fase che sto vivendo sia la mia occasione per ricominciare daccapo.
Qualcuno con più fede di me direbbe che già solo desiderarlo fortemente è un buon segno. Sinceramente, la mia testarda razionalità (quella che spesso mi frena più del necessario, lo so) mi impedisce di crederlo fino in fondo. Ma comunque io ci sto: afferro quello che sta arrivando e cerco nel tempo libero di lasciarmi scivolare ciò che viaggia in senso opposto, miei scetticismi compresi.

Sono incuriosita dalle persone con cui ho cominciato a lavorare ed è obiettivamente una gran cosa.

Ieri mi si è rotto il gancio del laccio porta ciondolo con la fotografia di mia mamma.
Qualche settimana fa ho perso il suo portachiavi (e le relative chiavi, mannaggia a me).
Il mio lato animistico-abruzzese mi suggerisce che siano tutti segni delle energie che circolano intorno e forse anche dentro di me.

Questo corpo che non è riuscito ad accogliere una nuova vita, probabilmente, vuole comunque essere vitale e fecondo. Lo sento. E stavolta la testa non c'entra.
Speriamo davvero di poter dimostrare chi sono e cosa posso diventare quando mi sento nell'ambiente giusto. Non solo agli altri, ma soprattutto a me stessa.

Chi vivrà vedrà.
Alla prossima, cari amici.

mercoledì 20 aprile 2016

Da Fermo... a Fermo Attivo!



Non lo faccio quasi mai, ma oggi mi rilancio (sempre per via del mio rapporto passato-presente con Fermo).

Chi può, vada sul Colle del Girfalco dal 23 al 25 aprile: ci troverete ben due manifestazioni artistiche e culturali. 
Io, invece, molto probabilmente, sarò nella terra natale.

Buoni giorni.

lunedì 11 aprile 2016

Da Fermo a Fermo... ad maiora!

Foto scattata nel 2011 a Fermo, in via Mazzini, poco prima della statua di San Savino

La didascalia, stavolta, riassume più o meno tutto.
Stamattina sono tornata proprio nella via dove ho vissuto per sei anni. L'anno prima ero sempre a Fermo, ma in un'altra, fondamentale, casa.
Durante i sette anni passati sul Colle del Girfalco, come sapete, mi è successo un po' di tutto.
Credo di averlo già scritto, ma è bene ripeterlo: credo di essermi trasformata in una donna adulta proprio durante questi cruciali, a tratti dolorosissimi, sette anni.

Vado molto cauta con la novità che mi ha portato di nuovo alla base del punto più alto della cittadina marchigiana. Per ora mi limito a osservare che sembra davvero l'inizio di una fase nuova.
Detto in altri termini, forse davvero era necessario che lasciassi la collina per potermici riavvicinare con un altro spirito

Comunque andrà a finire, oggi, dopo tanto tempo, ho risentito il gusto di un mestiere che credo mi abbia scelto, non il contrario, manco fosse una vocazione mistica. 

Certe volte penso sul serio che sia tutto scritto e che conviene rilassarsi e lasciare che il giorno X si avvicini senza inutili resistenze. In altri casi, credo ancora di più che bisogna volere fortemente il cambiamento e concentrarsi per non farci cogliere impreparati.

Sono tutte sciocchezze, ma sì. 
Dirò di più tra qualche tempo. E il tempo lo farà con me.

Oggi è meglio godersi il pomeriggio assolato, il primo con un cielo blu che ti spingerebbe a strapparti i vestiti e buttarsi a mare (ma la brezza lo sconsiglia, diciamo dai quaranta in su).
Rubando il motto all'altro blog, posso concludere solo in questo modo: ad maiora!


giovedì 31 marzo 2016

Il guizzo dei pesci, dal film di Alessandro Valori alla mia vita



Come saltano i pesci di Alessandro Valori è un piccolo film ambientato nelle Marche, per la precisione a Porto San Giorgio e Amandola, sulle pendici Monti Sibillini.
Sapevo del debutto nelle sale italiane previsto proprio oggi e, per una volta, ieri sera mi sono servita del mio tesserino per partecipare all'anteprima locale organizzata nella multisala di Fermo.

Mi ha molto colpito la partecipazione di massa di amici, parenti e autorità, ma su tutto ho apprezzato la leggerezza dell'atmosfera e, tutto sommato, anche della pellicola.

Senza lanciarmi in una recensione dettagliata (nella quale, inevitabilmente, scriverei anche quello che non mi è piaciuto), posso dirvi che il film scorre e che, se per caso doveste vederlo, non credo che vi addormenterete.
Anzi: è particolarmente simpatica la ragazzina "con il cromosoma in più", come dice la medesima attrice affetta dalla sindrome di Down, Maria Paola Rosini, che interpreta il personaggio di Giulia.

Altrettanto azzeccate le due vicine di casa della maestra Anna, morta nell'incidente stradale incipit dell'intera storia: si tratta di due signore che parlano nel vernacolo locale, vagamente italianizzato in modo da renderlo comprensibile anche al di fuori dei confini fermani.
Per certi aspetti, mi ricordano le zie della mia famiglia, anche se le stesse, come sapete, vivono piuttosto al di sotto del fiume Tronto.

In tutti i modi, avevo voglia, ve lo dico apertamente, di celebrare in qualche maniera la mia scelta di vivere in questa provincia d'adozione non proprio facilissima per una persona come me.
I locali, come succede in tutte le province italiane, fanno abbastanza gruppo a sé ed entrarvi non è proprio agevole.

Io, poi, sono piuttosto esigente, in fatto di gusti e di relazioni. E in generale, in qualsiasi posto, un conto è andarci in vacanza, un altro è viverci.

Detto questo, il mare, con quell'azzurro da medio adriatico che mi è così familiare, è proprio quello lì che appare sul grande schermo. E anche se non è più pulito del pezzetto lungo il quale sono cresciuta, anni e anni fa, mi piacerà sempre. Idem il porto e le barche che beccheggiano sotto il sole del luglio scorso, il mio primo luglio a Lu Portu (intervallato dai lunghi giorni teatini: sarà per questo che non mi sono accorta che stavano girandovi un film: alcune riprese sono state fatte a due passi dal palazzo in cui vivo).

A distanza di quasi un anno dal mio trasferimento sulla costa, non sono cambiate moltissime cose, ma vi garantisco che ogni volta che approdo nella stazione sangiorgese (anche l'ultima volta, che arrivavo da Venezia), io mi sento a casa.

Speriamo solo di passare dai sentimenti ai fatti, un giorno o l'altro.

Di avere quel "guizzo" con cui i pesci saltano fuori dalle reti dei pescatori per ributtarsi nel mare-lago della mia vita.

Buona fortuna, piccolo film.

E per quanto riguarda me, salterò dalla rete, o sì se lo farò.

martedì 22 marzo 2016

La pace resta un valore, anche nel Medioevo versione 2.0


Sui social si è scatenato per l'ennesima volta lo scontro tra gli amici dell'Occidente e quelli che lo odiano (i bastardi che mettono bombe di sicuro non lo amano).

Non voglio unirmi ai cori digitali, ma una parolina sulla pace proprio non riesco a evitarla.
Noi esseri umani siamo ipocriti e contraddittori, ovvio, ma la pace è davvero un valore essenziale per la civiltà e ogni tanto va detto e ripetuto.
A meno di non volersi dichiarare del tutto incapaci e inani alla lotta per la preservazione della medesima.

Potrebbe, in effetti, essere proprio così: forse non abbiamo gli strumenti giusti per difenderci da assassini così ben organizzati ed equipaggiati.

Ma io, comunque, non sono Luttwak né qualche altro finissimo analista della guerra, quindi lascio sullo sfondo ciò che penso delle missioni di Caschi Blu e affini.

Mi amareggia solo, non potete capire quanto, di essere diventata adulta in anni così terribilmente senza speranza.

Ho compiuto trent'anni il 20 luglio del 2001, il giorno in cui è stato ammazzato Carlo Giuliani. Stavo facendo un indimenticabile stage alla Repubblica di Milano. Tornata con pizzette e pasticcini da offrire ai colleghi, li ho visti tutti lì davanti alla tv a commentare l'orrore in corso in quel momento a Genova.

Il giorno dopo la fine del mio stage, l'inferno dell'11 settembre (ma non sarà che porto sfiga? Ogni tanto, nei miei deliri narcisistici, mi viene da pensarlo).
Da quel momento tutto è cambiato. E oggi siamo qui, a piangere gli ennesimi morti.

Detto per inciso, l'incidente di ieri in Spagna, mi aveva già abbastanza rattristato: anche lì, come a Venezia, c'erano ragazze di questa splendida gioventù nata a metà degli anni Novanta, talenti sottratti al pianeta, che va morendo non solo per via delle guerre.

L'attentato di oggi, invece, è stata solo l'ulteriore, davvero raggelante conferma, di vivere in un Medioevo molto più buio di quello che ho conosciuto sui libri di storia (e sulle storie di Dago, anno più, anno meno).

La mia personale giovinezza se n'è pressoché andata insieme con l'avanzare delle tenebre. E se, come succede sempre, prima o poi tornerò, torneremo, umanamente e fragilmente, a sorridere, dubito che il futuro riservi davvero il sereno.

Mi dispiace di essere così cupa, ma oggi va così.

Se sapessi pregare, lo farei.

Polemicamente, voglio dedicare a tutti noi, anche ai più cinici o finti tali, la canzone che troverete sotto.
Aiutamoci, per quanto possiamo.



lunedì 21 marzo 2016

Arte Laguna Prize a Venezia e la meglio gioventù del XXI secolo


Forse dalla foto non si capisce, ma sappiatelo: quelle cose tondeggianti che tappezzano la struttura a cono decapitato sono patate tagliate a metà, le piccole orizzontalmente, le grosse longitudinalmente.
A darci le indicazioni su come operare è stata Anna, la ragazza russa con la salopette che vedete arrampicata sulla scala. A suggerirci, invece, il metodo migliore per spalmare la colla e il misterioso "catalizzatore" è stato Giacomo, il tipo in primo piano con il berretto in testa e un sorriso da burlone toscano.

Chi sono, anzi, chi eravamo, a ricevere gli input? In rigoroso ordine alfabetico (tolta la sottoscritta): Benedetta, Chiara e Matilde, tre davvero splendide ragazze che ho avuto il privilegio di conoscere durante gli ultimi due giorni e mezzo dell'allestimento di Arte Laguna Prize, un premio per artisti provenienti da tutto il mondo che quest'anno celebra la decima edizione alle Nappe dell'Arsenale di Venezia

Sono certa di tornare di nuovo sull'argomento, per cui non mi dilungo per ora sugli aspetti tecnici dell'evento. Vi dico solo che l'allestimento è visitabile gratuitamente dalle dieci alle diciotto fino al prossimo 3 aprile e che esiste anche una sezione di arte digitale nell'elegantissimo cortile della Fondazione Tim, a due passi da Rialto. Se le mie info non vi bastassero, visitate il sito di Arte Laguna e avrete quello che vi serve.

In questo post, invece, voglio parlare della meglio gioventù nata sul finire del ventesimo secolo che ho incontrato.
Ho scattato anche il ritratto che vedete sotto, ma ho preferito non metterlo troppo in evidenza perché, purtroppo, non conosco il nome della ragazza immortalata: 


La fanciulla stava pulendo con l'acqua ragia le macchie residue di vernice e altre schifezze da cantiere che non saprei nominarvi e io, anziché aiutarla, l'ho omaggiata così.
Oltre a lei, ce n'erano molte altre che si sono massacrate, letteralmente, perché tutto nello spazio immenso delle Nappe fosse pronto per l'inaugurazione di sabato scorso.

Sul grosso dei loro visi ho visto concentrazione e determinazione. Il lavoro era molto e non sempre piacevole (non so chi abbia pulito i bagni, ma posso garantirvi che erano tirati a lucido), ma il clima è rimasto nel complesso festoso ed energetico. 

Mi hanno contagiato con la loro bellezza giovane e insieme mi hanno profondamente intenerito.

Potrei dirvi molto altro su che cosa abbia significato per me passare quattro giorni da sola
Vi accenno solo alla trasformazione che si è compiuta in me in meno di ventiquattr'ore: la sera dell'arrivo ero un tantino triste, ma già rinvigorita dalle conoscenze fatte durante il primo pomeriggio all'Arsenale.

Il giorno dopo ero così soddisfatta dall'essere stata coinvolta nella realizzazione dell'opera "patatosa" (come l'ho chiamata facendo il verso a petaloso, strappando una risata generale) concepita dal misterioso artista russo (Fiodor Pavlov Andreevich) di cui parlerò meglio in uno dei prossimi post, da dimenticarmi del tutto della solitudine.

Sabato notte, poi, non ho proprio avvertito il passaggio dalla veglia al sonno e infine domenica, mentre andavo alla stazione, ho provato solo una grande, piacevole, malinconia.

Per ora mi fermo qui: non vorrei tediarvi troppo. 
Aggiungo solo che ho lavorato fisicamente, quindi ho avuto esattamente quello che desideravo.

Sarà dura, adesso, riprendere le fila interrotte e fare come dicevo a una delle ragazze che vedete sotto (Giorgia, vero leader in un corpicino da bambina) e cioè non mollare. Non è giusto, infatti, raccontare a chi sta diventando adesso donna o uomo che schifo è sentirsi più o meno sempre al punto di partenza.
Non va fatto in generale con nessuno perché, invece, il tempo scorre (corre) e io, probabilmente, dovevo provare l'esperienza complessiva di assistant e di viaggiatrice solitaria adesso. Proprio adesso.

Quindi, grazie di cuore, ragazze. E grazie all'unico ragazzo del gruppo degli assistant, Nicolò, che mi ha raccontato di aver rinunciato a un contratto da apprendista operaio pur di passare un mese all'Arsenale, un luogo davvero affascinante. C'è sempre tempo (eccome) per lavori di m., come dicevamo: continua così.

Dimenticavo l'ultimo, fondamentale, ringraziamento per l'ideatrice del premio Arte Laguna (con Beatrice Susa che purtroppo non ho conosciuto): Laura Gallon, una donna tenace e attenta, dalla quale non si può che imparare un sacco.

In bocca al lupo a tutti. E buona vita.

Sotto alcuni degli altri scatti, con dida incomplete, perché, purtroppo, non conosco tutti i nomi... pardonnez moi!
















Chiara e Ilaria

Nicolò e Laura Gallon
L'inaugurazione!



Al centro, Giorgia. A destra, Elettra.










Beatrice Susa


Silvia e Ilaria alla Fondazione Tim, sede della sezione arte digitale della mostra





martedì 15 marzo 2016

Verso Venezia, dal viaggio mentale alla realtà con tutta l'energia possibile


E' ufficiale: da questo momento in poi sono entrata in clima pre-partenza.
Non riesco ancora a crederci che a quest'ora, tra due giorni, sarò (almeno spero!) dentro l'Arsenale di Venezia a dare il mio non meglio precisato contributo agli artisti (in qualità di "assistant") che già da qualche giorno hanno cominciato ad allestire i propri spazi.

Come leggete nel manifesto, i partecipanti alla decima edizione del premio Arte Laguna sono 120 e provengono da 35 nazioni diverse. 
Da quel poco che ho visto su Facebook e Youtube, di lavoro ce n'è ancora molto, ma, davvero, non ho la più pallida idea di quello che andrò a fare.

Per questo, forse, ieri non ho spiegato nulla nemmeno alla mia premurosa zia la quale pensava, in verità non so come mai, che fossi già partita e tornata.

Nella mia testa, in un certo senso, è davvero così: pur essendo all'apparenza svagata, dentro sono una macchina da guerra dell'organizzazione. Sui dettagli (tipo parrucchiere e smalto) sono piuttosto carente, ma, per esempio, per la preparazione del bagaglio sono già giorni che l'ho preparato mentalmente.

Che altro aggiungere? Nulla: spero solo di non fare figure barbine, da Calimero attempato, e di godermi anche un po' la città, per me un posto davvero speciale.
Diversamente, detto chiaro chiaro, non mi sarei imbarcata in quest'avventura.

Magicamente, almeno così mi sembra, l'ansia è circoscritta e sotto controllo.
Sarà che nei giorni scorsi ho fatto allenamento su altri fronti sensibili.
Oppure sarà davvero che sto diventando cuore di pietra.

Evito, il più possibile, di cadere in abusati schemi di comportamento.
Stavolta più che mai mi servirà quello che un tempo mi pareva un mio punto di forza: lo spirito d'adattamento.

Invecchiando, secondo me, un po' lo si perde, almeno lo si circoscrive ai soli ambiti in cui, davvero, non se ne può fare a meno. Tipo quando sei in mezzo a gente di cui non te ne frega nulla, ma verso cui devi mantenere un certo contegno, oppure quando, la butto lì en passant, devi apparire più sicura di come ti senti giusto appena sotto la pelle.

Nel resto del tempo, invece, mi sono convinta che sia di vitale importanza schivare le rotture di balle (per non dire di peggio). In altre parole, che sia assai più sano NON adattarsi.

Mai farsi violenza, amici, davvero. Mai.
Ecco: a Venezia in solitaria vedrò di mettere in pratica la mia nuova solo teorica saggezza.

Ho quasi pensato di portarmi il pc, ma alla fine, nel mio bagaglio mentale, ho capito che non c'era posto. E' facile che io posti foto e altre frasi sciocchine sui social, ma per un vero resoconto, spero anche fotografico, dei miei giorni in laguna, bisognerà che sia di nuovo tornata qui, alla base marchigiana.

Avrei potuto scrivere un pezzo classico sull'evento, sugli organizzatori etc etc, ma lascio che scopriate di che si tratta dai link che ho sparso qui e là.

Mi mancheranno i gatti, ma spero di incontrarne almeno qualcuno nei vicoli, manco fossi Corto Maltese.

In bocca al lupo a me (vi assicuro che ne ho bisogno). 
E a voi buon ingresso nella primavera!

venerdì 11 marzo 2016

Sibilla Aleramo e Dino Campana, un incontro a Porto San Giorgio carico di domande. Aperte



L'incontro al Teatro di Porto San Giorgio sulla storia d'amore tra Sibilla Aleramo e Dino Campana è partito con spezzoni del film Un viaggio chiamato amore con Laura Morante e Stefano Accorsi. A sceglierlo, gli organizzatori del terzo dei quattro appuntamenti chiamati  I giovedì dell'arte, un ciclo di lezioni voluto dai Licei artistici di Fermo e del paese ospitante.
Accorsi, ve lo confesso, non mi piace granché, per cui è probabile che abbia alzato il sopracciglio (destro o sinistro) senza accorgermene. I pregiudizi sono una brutta bestia, difficile da domare, ma quel poco di sale in zucca che mi è rimasto ha permesso al resto del mio corpo di restare incollata sulla sedia della platea del bel teatrino e di mettermi in ascolto.

Sinceramente: le lettere che la Aleramo scrisse durante l'anno d'amore con il poeta tosco-emiliano (lette dal vivo da Carla Chiaramoni) mi sono sembrate sciocchine, non troppo dissimili da quelle che potrebbe scrivere qualsiasi persona molto innamorata. Eppure, il loro legame, giunto in una fase della vita di questa donna affascinante e contraddittoria, morta nel 1960 a 84 anni, è assai letterario. Inevitabile, insomma, che se ne ricavassero film e che si moltiplicassero emuli di ogni risma.

Le poesie di Dino Campana, poi, o almeno, quelle lette (da Carlo Pagliacci) durante la lezione, mi sono sembrate bellissime. Non ne avevo idea, sono sempre più ignorante, per cui bene così.

Ho trovato molto brava, come già l'anno scorso a Belmonte Piceno, Sabrina Vallesi, la professoressa moderatrice: spero davvero che stia allevando almeno qualche fiore speciale tra i suoi studenti.
Ad averne di prof così.

In sala c'erano rappresentanti di tutte le generazioni, dai liceali alle signore dell'Università dell'educazione permanente e del tempo ritrovato di Grottazzolina: piccole perle di vita di provincia, di quelle che ti fanno dimenticare, almeno per qualche ora, problemi presenti e futuri.

Nota a margine sul poeta fermano Franco Matacotta, di cui lungo conoscevo solo la lapide sul corso cittadino, all'altezza della sua abitazione: doveva essere un bell'opportunista, di quelli con la O maiuscola, almeno stando alla lettera di addio che gli scrisse la Sibilla.
Certo: sarebbe facile malignare sulla quarantennale differenza d'età tra loro (lei, naturalmente, la vecchia della coppia), ma se è vero che il nostro vip locale sottrasse le lettere tra la scrittrice e il poeta orfico non è che ci faccia proprio una gran figura.

Davvero: non ne so nulla, per cui mi limito a queste impressioni a caldo.

Mi domando, in ogni caso, se le multi-relazioni di questa antesignana del femminismo non siano dipese anche dalla violenza dalla medesima subita a soli sedici anni, dall'uomo che poi le famiglie costrinsero a sposare. Da quel che ho capito, non si trattò di un episodio isolato, per cui non oso immaginare quanta sofferenza si possa accumulare giorno dopo giorno, anno dopo anno.

Dino Campana stesso, affetto da seri disturbi mentali, finì per essere accecato da gelosia morbosa e, manco a dirlo, di nuovo violenta, al punto che la scrittrice visse reclusa in un paesino alle pendici della Val di Susa per tentare di non vederlo mai più.

Antesignana del femminismo, certo, ma anche costretta ad abbandonare il figlio pur di allontanarsi dal marito-padrone. Sibilla non lo vide mai più: quanto una scelta del genere finisca per segnarti nessuno può saperlo.

Insomma: l'incontro di ieri mi ha lasciato svariate domande aperte.

Un giorno, forse, leggerò Una donna, l'autobiografia di Sibilla Aleramo, il cui cognome, ho scoperto da un pezzo della Ventisettesima Ora del Corriere della Sera, è l'anagramma di amorale, come questa signora (che nella realtà si chiamava Rina Faccio, era di origine alessandrina, ma girovagò tra Civitanova Marche, Milano, Firenze e poi Roma), scelse di chiamarsi.

Amorale non significa, ovvio, immorale.
A me dà l'idea che, invece, una morale ce l'avesse eccome.
La morale della libertà, con tutte le conseguenze che la medesima comporta.

Mi piace pensare che i suoi multi-amori abbiano placato almeno un po' il vuoto che più o meno ci afferra tutti. Sarà stata almeno qualche giorno davvero felice?

Non dò risposte. Non ne ho.
Buone domande a voi, amici.

mercoledì 2 marzo 2016

In viaggio/bis con l'amazzone Loretta Emiri. E le nostre autiste nel cuore

Loretta Emiri firma il suo libro "Amazzone in tempo reale" per le "meninas" di Servigliano

Sono proprio contenta di come sia andata lo scorso lunedì a Servigliano: Loretta Emiri è riuscita a incantare le signore, anzi le meninas, le ragazze alla portoghese maniera, intervenute all'incontro organizzato dall'Università dell'educazione permanente e del tempo ritrovato di Grottazzolina alla Casa della memoria ricavata nella ex bellissima, vecchia stazione della cittadina fermana.
Io pure mi sono guadagnata ben due mazzi di fiori, nonché svariate eccezionali frittelle di mela "dop" preparate da una cortesissima associata. Soprattutto, mi sono sentita accolta e valorizzata. Davvero grazie.

Cos'altro aggiungere?
Questo: stamattina il Corriere Adriatico ha pubblicato buona parte delle righe di resoconto che avevo inviato a Utete e al mio contatto in redazione. E' una piccola cosa, ma anche in questo caso sono lieta che per una volta tutto sia filato senza intoppi.

Mentre guidavo sotto la pioggia battente con Loretta affianco, ho mantenuto una calma lucida che mai avrei immaginato di provare: sembrava quasi che a condurci fossero altri autisti. Altre autiste, di nome Anna Luisa e Ada, le nostri amazzoni generatrici che da qualche tempo ci seguono da un'altra parte.

Non volevo ammetterlo neanche con me stessa, ma era inevitabile che già durante i giorni che hanno preceduto la conferenza di lunedì mi sarei ritrovata ad associare il nostro secondo incontro pubblico al precedente di due anni fa, quando questa seconda o terza fase della mia vita doveva ancora cominciare.

Loretta è stata più diretta di me e ha aperto il suo dialogo con la platea serviglianese proprio partendo dal ricordo di sua mamma. Inevitabilmente ho finito per tirare dentro anche la mia, ma ho cercato di non cedere, almeno non troppo, all'autobiografia per lasciare il doveroso spazio a lei e al suo bel libro Amazzone in tempo reale.

Devo dire, però, che il contesto così caloroso si prestava alla fuoriuscita di emozioni più personali, per cui va bene così.
Ho, peraltro, apprezzato moltissimo il modo in cui Mara Cherubini, la presidentessa dell'Utete, ha presentato l'autrice e la sottoscritta. Avrebbe dovuto pensarci un'altra persona (il bravissimo e impegnatissimo Stefano Bracalente), ma questa mitica donna è riuscita in poco tempo a organizzare un discorso simpatico e vivace. Accidenti che professionista.

La sera di lunedì, ve lo confesso, ero distrutta: si capisce da questi particolari quanto mi sia disabituata a stare in mezzo alla gente.
A distanza di due giorni, sono ancora parzialmente in palla. Ma va benissimo così: ve l'ho detto, è bello e onorevole stancarsi.

Al prossimo massacro, amici.

giovedì 25 febbraio 2016

Servigliano (Fermo) incontra Loretta Emiri, amazzone in tempo reale


A distanza di due anni, eccoci di nuovo qua, cara amica Loretta Emiri, scrittrice e indigenista, madrina, non solo spirituale, degli Indios Yanomami che hai ben conosciuto nei quasi vent'anni trascorsi laggiù al confine tra Brasile e Venezuela.
Lunedì prossimo 29 febbraio, a partire dalle 16, dialogheremo infatti alla Casa della memoria di Servigliano, ed io, esattamente come la volta scorsa, cercherò di sparire dietro alle domande che ti porrò per lasciare spazio al tuo libro Amazzone in tempo reale, ma soprattutto a te, che meriti tutta l'attenzione del caso.

Preparandomi a riparlare della tua ultima fatica stampata, ho scoperto quanti altri tuoi testi circolino sul Web e non solo. Mi dirai, ci dirai, anzi, a noi che verremo ad ascoltarti, quali siano gli elettrizzanti nuovi progetti in cui ti sei lanciata. 

Sei davvero unica, lasciatelo dire: mai conosciuto una donna con una forza e una sensibilità come le tue. Continuo, a tratti, a provare nei tuoi confronti una certa soggezione, perché invece io continuo grandemente a svicolare. 
Hai scritto della paura provata in altre fasi della tua vita per gli eventuali successi che avresti potuto raccogliere, buttandoti. Alla fine, il carattere ha avuto la meglio e l'hai fatto: ed è una gran fortuna per noi che ti abbiamo conosciuto e per chi lo farà in futuro.

Non conosco direttamente le terre degli indigeni d'America da te narrate nei brani che compongono il libro dalla copertina verde riprodotto nella locandina che vedete sopra, ma la tua scrittura vivace e insieme sorprendentemente carsica me le hanno fatte amare.

Sono, devo dirtelo, piuttosto pessimista sul destino della battaglia per la conservazione di quel che resta di territorio, costumi e tradizioni originarie di tutta l'America del Sud (quanto è successo nell'omologa del Nord non lascia ben sperare), ma, al contempo, credo che si debba continuare a lottare, come fai tu anche a distanza, qui in questo enorme e contraddittorio vecchio mondo, scosso dal suo interno da altrettante giustissime rivendicazioni di nuova vita e spazi da parte di altrettanti esodati da casa loro. 

Dici bene: dare voce a chi non ce l'ha è un impegno morale, difficile da mantenere, certo, presi come siamo più o meno tutti dal nostro privato, ma a tratti, pure brevissimi, noi occidentali ce la dobbiamo fare.

Il mio piccolo contributo è, dunque, proprio questo: il post che sto scrivendo e la conversazione che avremo insieme lunedì. E tutte quelle che seguiranno ogni volta che vorrai e si potrà.

A voi che mi leggete, se siete in zona, una preghiera: partecipate numerosi.

Agli amici lontani, se volete scoprire bellezze e tristezze di sconosciuti popoli d'Oltreoceano, nonché la donna eccezionale che ne ha scritto, comprate il libro di Loretta. 
E allargate, come è successo a me, gli orizzonti. 

Grazie all'Università del tempo ritrovato e dell'educazione permanente di Grottazzolina per aver organizzato l'incontro come due anni fa.
Grazie a voi che verrete ad ascoltarci.
Grazie a Loretta, ancora di più.

giovedì 18 febbraio 2016

Stancarsi fisicamente è bello... a Venezia ancora di più!



Negli ultimi mesi ho deciso di essere più diretta in ciò che scrivo, essenzialmente perché ne ho bisogno io, ma anche perché mi sono convinta che per le chiacchiere da bar ci sono altri spazi.
Poi però succede che tocchi un tema sensibile come il lavoro, come mi è successo nel penultimo post, e ti ritrovi a doverti calare nella parte di quella che non crede nella lezione dei nostri padri e nonni.

Non ho mai pensato che il lavoro manuale sia di serie B: semmai, l'hanno pensato proprio i nostri avi che hanno fatto il possibile, con sacrifici immani che io non ho mai sperimentato, per liberare le nuove generazioni dal giogo della fatica fisica tout court.

Mi citava giustamente mio padre l'altro giorno un vecchio proverbio abruzzese sui pastori che pascolano le proprie pecore: solo in quel caso il peso del sudore, della sporcizia e della lunga solitudine passata sui monti non era percepito come tale. Lo stesso pastore, costretto a pascere il bestiame di qualcun altro, di certo sarebbe stato meno contento. E oltretutto, quanti abruzzesi hanno spinto i loro figli e nipoti ad abbandonare i prati montani pur di non vederli gemere di patimento?

Detto ciò, a me spiace, sul serio, di non aver imparato alcun mestiere pratico. Negli anni, certo, ho capito più o meno come si fanno le pulizie, come si stira, volendo, sarei in grado pure di fare biscotti e pane se avessi una famiglia numerosa da crescere e ho un certo talento per il bricolage (salvo bucare pareti con chiodini non adeguati a sorreggere suppellettili eccessivamente gravose).

Se posso dare una mano a spostare oggetti, sollevare pesi, etc etc, sono sempre felice.
Mi piace massacrarmi fisicamente. Il punto è solo uno: quando lo faccio, è per una mia libera scelta.
Chiediamolo ai ragazzini siriani costretti a raccogliere la frutta per i padroni libanesi di cui leggevo stamattina su Internazionale quanto sono felici di alzarsi alle cinque al gelo, un pomodoro ripieno per pasto, e di svenire sotto il sole che brucia.
Trovo terribilmente ingiusto che ce ne siano così tanti nel mondo e che, da questa parte dell'Europa, invece, si stia tentando di affossare una legge giustissima come la Cirinnà solo per manovre elettorali.

Purtroppo, però, qui vivo e qui, salvo improvvisi colpi di testa, resterò tutta la vita.
Come dare sfogo al legittimo bisogno di sentirsi utili per la società con o senza compenso, usando, magari, pure quel poco di fisico che mi è ancora rimasto?

Andando a Venezia al premio Arte Laguna a fare la "assistant" per l'allestimento di uno spazio espositivo all'Arsenale. Oggi ho partecipato a una faticosa riunione telefonica (ah, le tecnologie) organizzativa. Il messaggio che mi è arrivato forte e chiaro dalle organizzatrici è che sarà un "lavoro faticoso". Molto bene: è proprio quello che volevo. Tra le compagne d'avventura (manco a dirlo, siamo in stragrande maggioranza donne), due almeno potrebbero essere mie figlie, ma anche questo è bene. Ho bisogno di confrontarmi con gente in carne e ossa ed eventualmente cambiare di nuovo opinione su qualcosa.

In questo periodo di nullafacenza totale, infatti, quello che più mi spaventa è l'immobilità fisica più che mentale.
Non so come mi sia arrivata la mail che mi segnalava il bando per curare il backstage di questo premio: fatto sta che una mattina me la sono ritrovata lì tra altre newsletter.

Sarà il segnale dei Numi che stavo aspettando?
E chi può dirlo.
Io, comunque, ci sto: ben coperta (pare che all'Arsenale ci sia un notevole freddo-umido) e il più possibile equipaggiata psicologicamente, tra un mese esatto sarò già lì dentro a farmi "schiavizzare" dagli artisti che ne avranno bisogno.

In fondo, ho già fatto una cosa simile, in piccolissimo, a Fermo in quell'ambiente sicuramente freddo-umido (l'ex mercato coperto che vedete sopra in foto) che ho continuato a frequentare negli anni anche dopo il primo da pseudo-assistant.

Una parola inglese, a proposito, che sta all'incirca per custode-assistente allestitore.
Non vedo l'ora, non posso negarlo.

Numi, avanti, continuate così.

lunedì 15 febbraio 2016

Non lavoro ma non crollo: forza numi, fatevi sentire

Tyne Daly, la grandissima Maxine Gray nel "Giudice Amy", da oggi di nuovo su Giallo

Non ho ancora capito bene il funzionamento di google +, principalmente per pigrizia. Ringrazio, in ogni caso, quell'anima buona che spesso aggiunge un secondo "più" al mio, cliccato da me medesima abitualmente per rilanciare le sciocchezzuole che vado digitando.

Oggi è una giornata uggiosissima: speriamo che le mie piantine non se ne abbiano a male, visto che proprio ieri, per ansiogeno scrupolo di coscienza, le avevo annaffiate. Mi sento un po' come Moretti in Bianca che alla fine ne butta una di sotto dal terrazzo, dopo essersene uscito con "vuoi più acqua, meno acqua?", preso dal tipico sconforto di noi pollici grigi.

E però, a proposito di grigi, l'erba gatta è cresciuta eccome, contro ogni mia previsione, e pare piaccia alla felina dalle cinquanta sfumature della polvere. Inutile: mi sta troppo simpatica quando esce tutta entusiasta sul balcone e si butta con il corpicino sui ciuffi verde brillante. Dicono che debbano mangiarne con moderazione, altrimenti si drogano, ma capire se sia o meno sotto stupefacenza erbivora è davvero difficile. Bice (la grigia) ha una personalità piuttosto bizzarra già di suo: non mi pare che l'aggiunta di erba gatta alla sua dieta ne abbia alterato il comportamento. Che poi che male c'è a stordirsi un po'? Ha parlato Madama la lisergica, proprio: a me basta un bicchierino di qualsiasi cosa per entrare in tachicardia per tutta la notte successiva. Farà bene?

Ieri, in verità, ho bevuto un po' di più di un bicchiere: ma quell'americano era così dolce che non credevo fosse roba alcolica. O sarà che c'ho un'età e che non esco praticamente mai (faceva un caldo in quel bar: per chi gira in genere con due maglioni e doppi calzini i locali alla moda sono i Tropici).

L'occasione, però, era davvero lieta: compiva gli anni una delle mie insegnanti della Fermo 85. Una compagna di corsi ha avuto la bella idea di organizzarle una festa a sorpresa. Riuscitissima.
Tiziana (questo il nome della festeggiata) non se l'aspettava assolutamente ed è stato davvero tenero vederla con le lacrime agli occhi dalla commozione, quando ci ha trovati tutti lì ad applaudirla.

Ho passato una serata molto piacevole, insomma, anche se, ahimè, non sono sufficientemente di buon umore, nonostante gli incontri e i sorrisi sinceri.

Ho bisogno di lavorare: oggi guardavo le prime due puntate dell'ennesima replica del Giudice Amy e mi sentivo esattamente come Maxine, neanche la figlia, direttamente la mamma anziana voglio dire, che si era costretta a stare a casa lasciando il lavoro per occuparsi di figlia e nipote, ma si capisce lontano un miglio che proprio non ce la fa. Per buona parte del telefilm, infatti, la si vedrà nelle vesti di assistente sociale, con tutta l'umanità e la grinta che ci vogliono per affrontare storie spesso tremende, raccontate, se posso dirlo, da questo telefilm, con una poesia dal gusto retro che trovo tuttora un antidoto prezioso contro lo squallore diffuso.

Vedendo lei e anche Amy nei rispettivi posti di lavoro, avresti voglia di fare come loro, di massacrarti come sembrano fare i due personaggi per tenere insieme tutto, spese, educazione della piccola di famiglia, affetti e amicizie.
Purtroppo nel mio presente c'è solo una piccola parte di ciò che vedo sullo schermo e a volte, francamente, tutto questo mi stanca. Non lavorare stanca, lavorare gratis pure, ma, davvero, meglio lavorare gratis per qualcosa che ci piace, che aspettare un cambiamento che non verrà.

In tutta onestà, non rimango mai troppo ad aspettare. Anzi: molto spesso riempio i vuoti con qualche azione. Vanno benissimo tutte quelle che riguardano la sistemazione della mia casa, ne sono convinta, però mi manca la vita, mi manca quella sensazione di non aver abbastanza tempo per tutto.
Continuo a leggere di gente che corre, che non si ferma neanche per mangiare in santa pace: a me non succede praticamente mai. Mi ritrovo qualche volta a prendermi un tazzone d'orzo a metà mattina con un libro o un giornale affianco, seduta al tavolino un po' sconnesso di mia nonna (uno di quegli arredi che meno mi convincono e che nel mio attivismo vorrei far sparire).

Anche adesso, per dire, scrivo per riempire un vuoto, "per passare il tempo", usando un'espressione abituale di mio padre che mi ha sempre terribilmente appesantito, non per colpa sua.

Non dovrebbe mai succedere, in nessuna fase della vita, ma meno che mai nel pieno dell'età adulta, di fare qualcosa tanto per ammazzare il tempo.
Sento di bambini iper-organizzati che non saprebbero sopravvivere ai momenti di noia, ai buchi nell'agenda. Posso dirlo? Se andiamo avanti così, impareranno molto presto a gestirli: chi lo dice a queste schiere di ragazzini che oggi vanno a ginnastica, a calcio, a musica etc etc, che a trent'anni potrebbero essere costretti a fare lo stesso pur di non restarsene a ciondolare con le mani in mano?

Capisco bene quando mia sorella si augura che i suoi figli riescano un giorno a emigrare.
E però, davvero, non voglio fare la solita tirata sull'Italia che non va e sulle generazioni perdute etc etc. Oggi un africano che cerca l'elemosina davanti all'Eurospin mi ha chiesto un passaggio in auto per andare alla stazione: non aveva nemmeno i soldi per la tachipirina, sul suo viso ho letto una disperazione che io non ho mai provato. Certo: non mi posso sentire in colpa per questo, ci mancherebbe altro. E da un certo punto di vista, almeno stamattina il mio essere senza lavoro ha avuto un perché.

E' solo che ogni tanto è dura non saper cosa rispondere alla conoscente di turno che ti consiglia di dare ripetizioni, come se io non ci avessi già pensato da sola o, peggio, a quell'altra anziana, dotata per sua fortuna di pensione, in procinto di un soggiorno a Parigi di chissà quanti mesi, che non sto snobbando le ripetizioni (semmai sono le ripetizioni a snobbare me) e che farei ben più di quelle oggi stesso se mi si presentasse l'occasione.

Se mi si restituisse la possibilità di avere delle occasioni. Che è ben diverso.

Che fare? Continuare a cercare, a incontrare, a dire anche stupidaggini se succede (con i quasi estranei dovrei evitare di lasciarmi andare, lo so, ma non sempre ci riesco), a leggere, a scrivere, a pensare. E a sperare che quei piccoli segnali di cambiamento che intravedo oltre il grigio di oggi, siano davvero tali.

Mi auguro solo, quello sì, di avere abbastanza coraggio. A volte non ce l'ho avuto. E ne sto pagando le conseguenze ancora adesso.
Forse è proprio qui il punto, ma visto che l'ho vergato, adesso bisogna davvero che vada accapo.

Santi numi di qualsiasi natura, please, siate con me. E con chi sta vivendo analoghe turbolenze.
In bocca al lupo a noi.