martedì 29 dicembre 2020

Una grossa fregatura e Borgo Sud: due libri imperdibili dalla mia terra



Ci sto pensando da giorni, ma niente, non riesco a venirne a capo. Per questo motivo, so già che sarà durissima trovare un titolo a questo scritto, che non è un articolo né tanto meno una recensione.

Però sentivo, sento, che avevo bisogno di parlarne in questa forma, forse per trovare, grazie alla disciplina che sono costretta a darmi quando mi rivolgo a un ipotetico pubblico, una risposta

A quale domanda?, direte voi.

Eccola qua.

Che cos'hanno in comune Borgo Sud (Einaudi) di Donatella Di Pietrantonio e Una grossa fregatura (Chiaredizioni) di Marcello Nicodemo? 

Tanto per cominciare, la città in cui si svolgono le due storie: Pescara, vera e immaginaria. Nel libro di Marcello, c'è anche qualche altro pezzo di costa adriatica e vari passaggi in Campania, regione di origine dei suoi genitori, ai quali il libro, dolente e sincero, è dedicato.

Nel libro di Donatella, c'è anche un po' di entroterra, lo stesso che aveva fatto da scenario a L'Arminuta il bellissimo romanzo di cui il nuovo è per così dire il "sequel".

In tutti e due, poi, appare qui e là anche Chieti, la mia città natale.

Conosco personalmente i due autori, ecco un altro punto che hanno in comune. In entrambi i casi, si tratta di una conoscenza che, per quanto limitata, non lo è non abbastanza perché io possa mantenere da loro il giusto distacco che richiederebbe una recensione.

Ma questo scritto, per l'appunto, non è una recensione ed io posso dire apertamente di provare per tutti e due gli autori una grande simpatia.

Coming out fatto. Andiamo avanti.

Ho letto Una grossa fregatura la scorsa estate, portandomelo via da casa dei miei al termine del mio breve soggiorno in patria.

Ho letto Borgo Sud nel viaggio di andata e ritorno da Vienna a Chieti dieci giorni fa.

In entrambi i casi, li ho divorati.

Sul libro di Marcello non avevo particolari aspettative, ma solo una grande curiosità mista anche a un certo timore. Già dalla prima pagina ho colto qualche elemento autobiografico che mi ha rattristato molto. Il padre del protagonista ha un grave incidente e i lunghi e ben descritti giorni di degenza che ne seguono non sono stati, per me, solo l'ossatura principale attorno alla quale ruota tutta la narrazione, ma qualcosa di molto più personale.

Quando ho aperto il libro di Donatella, mi sono accorta invece che in testa mi risuonava la voce dell'autrice, con la sua bella erre arrotata.

Ci ho messo un po' per ritrovare la mia, per lasciarmi andare, voglio dire, al ritmo della storia. Avendo amato moltissimo L'Arminuta, in questo caso, sì, avevo delle aspettative. 

Insomma: avrei bisogno di rileggerli entrambi daccapo per parlarne con maggiore precisione, ma niente, non ce la faccio.

A pensarci bene, è come se avessi subito un incantesimo.

Mi sento un po' come il critico gastronomico del cartone animato Ratatouille, quando assaggia il piatto omonimo che gli ha preparato il topo chef. 

Ogni pagina di Una grossa fregatura e di Borgo Sud mi riporta a casa, tra le colline che scolorano nei tramonti rosa, nella cupezza sonnolenta e umida della pianura, tra i capannoni dell'area industriale in disarmo, e poi giù, fino al mare adriatico, tra le palazzine corrose dalla salsedine della riviera.

I personaggi di Donatella e Marcello parlano della mia gente, spesso gretta e calcolatrice come si può essere solo nelle province minime. La violenza, ben tratteggiata in entrambi i romanzi, ecco, quella io personalmente non l'ho vissuta, o, se c'era, non l'ho vista, coccolata come sono stata fino al termine della mia giovinezza (e pure dopo). 

La morbida protezione familiare non mi ha però del tutto schermata dalla desolazione rancorosa che sentivo aleggiare attorno a me. Ne avvertivo la presenza con una specie di morsa allo stomaco, la stessa che prende, forse, l'Arminuta quando parla con i suoi genitori e in particolare, in questo romanzo almeno, con il padre, una figura che mi pare quasi di aver conosciuto.

Quella desolazione rancorosa è forte, fortissima, nell'ex marito dell'infermiera bionda del libro di Marcello, un uomo verso il quale si prova da subito una mistura di disprezzo e pena.

Per contrastare e poi neutralizzare quella desolazione rancorosa là, che affonda le radici in secoli di servitù e sfruttamento, occorre molta nobiltà d'animo, ma nei due romanzi si capisce che sono in pochi a possederla.

Ne ha da vendere il papà del protagonista di "Una grossa fregatura", ne ha, a ben guardare, anche Adriana, la sorella dell'Arminuta, che condivide con il primo, almeno in parte, la stessa sorte. 

Se e quando leggerete i due romanzi, insomma, non aspettatevi a tutti i costi il lieto fine. Non immaginatevi però nemmeno finali shakespeariani: noi abruzzesi (almeno quelli del teatino - pescarese) siamo comunque dotati di una certa pudica ironia che, se ben esercitata, può diventare anche geniale (vedi quel folle di Maccio Capatonda).

Il riscatto, però, c'è, ve lo garantisco. Bisogna solo coglierlo tra le righe, in particolare ne Una grossa fregatura, in modo leggermente più scoperto in Borgo Sud

Ecco. Lo sapevo: scriverne mi ha aiutato a schiarirmi le idee.

Adesso posso dirlo: il 2020 è stato un anno parecchio duro, va bene, ma almeno mi ha regalato due libri così.

Grazie agli autori per come sono e per le storie che continueranno a raccontarci. Non esiste miglior cura di leggere pagine sanguigne come queste per gente strenuamente in fuga dalle grosse fregature.   

Buon anno di riscatti a tutti noi.

venerdì 11 dicembre 2020

Melisa Erkurt e il futuro dei giovani austriaci di origine straniera



Come si vive in Austria? Tolti quelli che la confondono con la Svizzera, agli altri non saprei sinceramente cosa rispondere.
Di sicuro, un'idea di come si vive a Vienna ormai me la sono fatta, ma se proprio fossi costretta a dire qualcosa, vi esorterei a rivolgervi a chi l'ha scelta come patria definitiva
Mi riferisco agli immigrati di prima e seconda generazione, adottati dalla capitale asburgica in particolare. Una di loro è Melisa Erkurt, la giornalista autrice del libro di cui vedete sopra la copertina.

La storia di questa giovane donna, nata ventinove anni fa a Sarajevo, è emblematica. 
Praticamente ancora in fasce, è arrivata a Vienna con sua madre, in fuga dal terribile conflitto della Bosnia Erzegovina, una delle guerre della ex Jugoslavia scoppiata poco dopo la sua nascita.

Il più grande torto subito da chi lascia il proprio Paese è non potervi più tornare, se non un domani come turisti, alla ricerca di qualche traccia delle proprie radici.

Di un viaggio del genere parla per l'appunto Melisa Erkurt nel suo libro, dedicato alle ragazze e ai ragazzi con "Migrationshintergrund", ossia con origini migranti, alle prese con il difficile compito di diventare adulti in una terra straniera, frequentando scuole spesso non adeguate a comprendere i loro reali bisogni.

Del libro della giornalista che ora lavora per la Orf, l'equivalente della nostra Rai, ho parlato durante la mia presentazione al corso di tedesco (la trovate qui), uno dei molti offerti dall'Arbeitsmarketservice (AMS) ai migranti che vogliano inserirsi meglio (almeno si spera) nel mercato del lavoro austriaco. 

Ai tempi ne avevo sentito parlare leggendo un articolo sul Wiener Zeitung, il primo quotidiano che ho sfogliato praticamente già appena sbarcata dal treno due anni e passa fa, senza capirci granché. 
Inevitabile rimanerne colpita, considerando anche i magnifici occhi chiari su capelli corvini di questa giovane collega, che illuminano di forza e determinazione tutta la figura. 

I suoi primi anni qui non devono essere stati facili: in alcune pagine del libro, mi è parso di risentire le parole di una mia compagna del corso precedente, di origine afgana. Dal suo Paese Marzia, così si chiamava la mia ex compagna, è arrivata in Europa a piedi. Con lei c'erano il marito e i figli, che oggi le stanno dando tante soddisfazioni con la scuola e il lavoro. "Non avevamo niente", mi ha raccontato: una volta qui, organizzazioni caritative li hanno aiutati con vestiti e altri beni di prima necessità. 

La comprensibile gratitudine per chi ti ha salvato la vita, indirizzandoti verso un futuro migliore, può tuttavia confondere le acque.

Mi piacerebbe infatti parlare con i figli della mia ex compagna per sapere se hanno vissuto, o stanno ancora vivendo, le esperienze che racconta Erkurt nel libro, ossia le piccole e grandi discriminazioni subite dai nuovi austriaci di nome Mohammed (un capitolo si chiama proprio "Muhammed ist ein Urteil", ossia "M. è una sentenza", o qualcosa del genere). 
Per chi porta quel nome, oppure per le ragazzine che girano con il capo velato, la vita scolastica, e non solo quella, è sicuramente più dura, sostiene la giornalista.

Particolarmente problematica è la quotidianità delle giovanissime musulmane, che non di rado scelgono il velo per sottolineare la propria diversità, per darsi, anzi, un'identità. 
Proprio per questa ragione, sottolinea l'autrice, non ha senso, a suo giudizio, proibirne l'uso a scuola: finirebbe per alimentare il sentimento di separazione tra gli studenti con o senza pedigree.

Semmai, propone apertamente alla fine del libro, bisognerebbe rifondare daccapo il sistema scolastico, affiancando agli insegnanti tout court, altre figure, dal mediatore culturale allo psicologo, per favorire il dialogo tra docenti e discenti e tra i ragazzi stessi, in modo da prevenire e risolvere eventuali conflitti prima che sia troppo tardi.

Troppo tardi per cosa?, direte. Innanzitutto per completare gli studi fino in fondo e con successo. Ancora troppi ragazzi di origine straniera - precisa la giornalista - si fermano all'istruzione dell'obbligo o tutt'al più si avviano alla formazione professionale per accedere prima possibile al mondo del lavoro. I posti ai quali questi ragazzi aspirano sono perciò, nella maggior parte dei casi, di livello più basso, come se, detto in altri termini, tra loro (tra le ragazze in modo particolare) non ci fosse nessuno portato per mansioni più qualificate.

E dire che Melisa Erkurt di giovani donne capaci come lei ne ha viste diverse. Prima di diventare una giornalista, ha infatti studiato Pedagogia, lavorando, dopo la laurea, come insegnante
Il suo testo prende spunto proprio dall'esperienza didattica, raccontata con grande passione, in una miscela perfetta con i suoi ricordi personali, che ne agevolano la lettura anche a chi (come me) non ha una conoscenza avanzata del tedesco.

Per come la vedo io, insomma, sarebbe interessante tradurre "Generation Haram" anche in italiano, perché immagino che anche da noi si siano affacciati, ormai da anni, problemi di integrazione analoghi a quelli descritti per l'Austria.

Prima di chiudere la mia sghemba recensione, mi soffermo sul titolo e sul sottotitolo, sperando con questo di invogliare qualcuno ad approfondire l'intera faccenda.

La parola "haram", spiega l'autrice, si riferisce ai temi tabù per la maggioranza delle ragazze e dei ragazzi di origine musulmana. Su tutti, facile intuirlo, c'è la sessualità, un argomento trattato piuttosto male, rimarca Erkurt, anche nei corsi organizzati a scuola.
 
A saperne poco, d'altra parte, sono pressoché tutti gli adolescenti, precisa l'autrice, che spesso nascondono la loro inesperienza dietro eccessivi moralismi o atteggiamenti machisti (nel caso dei maschi), tipici in quella fascia d'età a prescindere dalle proprie radici. 

A maggior ragione, ribadisce Erkurt, diventa perciò essenziale che la scuola "impari a dare una voce a tutti", come recita il sottotitolo del suo libro. 

Perché se è vero che storie di successo come la sua già di per sé testimoniano che la direzione giusta sia stata già imboccata, è purtroppo ancora vero che molti di questi giovani di origine straniera rappresentano una "generazione perduta"

A ripeterlo piuttosto spesso, in vari capitoli, è sempre l'autrice, che nella quarta di copertina però precisa come la medesima generazione finalmente sia "pronta a parlare!", scritto proprio così, con il punto esclamativo, assai utilizzato in Austria anche dalla pubblica amministrazione. Ogni volta che ne vedo uno, a dirla tutta, mi viene l'ansia.

Stavolta, invece, auspico davvero che la personale biografia di questa giovane donna non sia un "Ausnahme", un'eccezione, come è scritto sempre nella quarta. 

A mio modesto avviso, di generazioni perdute ce ne sono state già troppe, a partire dalla mia, la mitica nata tra i Seventies e gli Eighties, come sostenne un po' di anni fa un illustre ex premier italiano.

Rimanendo nell'ambito della politica, segnali confortanti, almeno qui in Austria, si vedono in Alma Zadic, la ministra della Giustizia del secondo governo Kurz, nata in Bosnia, come Melisa, nel 1984.
Anche di lei la giornalista parla come di un'eccezione, dotata com'era di un talento straordinario per gli studi e lo sport.

D'accordo, due eccezioni non fanno la regola, però aiutano. 
La terza, per me destinata a confermarla, è l'apparizione della giornalista in un calendario dell'Avvento interattivo, dove anima una delle 24 finestrelle, insieme con altri Vip austriaci. 
Il suo volto, per la precisione, è comparso il 6 dicembre, il giorno di Nikolaus, il vescovo barbuto che nelle terre teutoniche lascia frutta e dolci nelle scarpe dei piccini. In sintesi: un giorno importante per i nativi di sangue bianco rosso, come i colori della bandiera nazionale.

Non casualmente, Melisa consiglia tre libri, il primo dedicato al tedesco, il Deutsch, che lei parla e scrive meglio della sua lingua madre. Lo afferma nel libro, ma lo si intuisce sentendo a quale velocità lo parla.

Grazie alla sua competenza linguistica, rivela peraltro, non di rado ha aiutato i genitori con documenti e burocrazia varia (un vero incubo per tutti gli Ausländer, ve l'assicuro).
E dire che a suo padre non sembrava poi così importante che continuasse a studiare: per lui era essenziale che invece si rendesse autonoma prima possibile.

Considerando l'età che ha e dove si trova, direi che, beh, in fondo non ha affatto tradito le aspettative del papà

Un giorno, ne sono certa, si chiariranno. Suo padre, in particolare, capirà che cosa fa la figlia e ne sarà orgoglioso.
Quando succederà, quel legame interrotto tra generazioni, l'una radicata per forza di cose più nel passato, l'altra proiettata con energia da vendere nel futuro, porterà frutti ancora più abbondanti. 

Un augurio simile lo estendo a tutti i nuovi austriaci, giovani e meno giovani. 
Le generazioni perdute hanno fatto il loro tempo.
Pensiamo adesso a quelle ritrovate. E andiamo avanti insieme. 

mercoledì 2 dicembre 2020

Un matrimonio riuscito


Non se n'era mai andato, ma è da qualche giorno che ne avverto la presenza nitidamente. 

Sto parlando del volto di mia madre, ma non solo di quello.

La vedo a figura intera, in alcune sue pose tipiche.

La sera dopo cena spesso la trovavo seduta in cucina nel suo modo bizzarro. Poggiava le ginocchia sulla sedia, sempre la stessa, dal lato dei fornelli, e i gomiti sulla tavola. A volte si teneva il mento tra le mani, altre volte sfogliava i giornali del mattino in quella posizione, come se volesse dominarli dall'alto con il suo busto, avvolta nella vestaglia, lunga e materna. 

La schiena la teneva piuttosto piatta, vagamente inarcata all'indentro, come quando si fanno certi esercizi di ginnastica. Nelle sere d'inverno, quella posa piaceva moltissimo a Sancio e Stino, i due gattoni di casa.

Non di rado se li ritrovava addosso, un peso enorme, tutto considerato, per il quale, chiamandomi a gran voce, rideva fingendo sconforto. 

Sono sicura di avere una foto in cui l'ho ritratta così, con quei due vitelli a pesarle sulla bella schiena di mamma.

Aveva anche un'altra postura stravagante, che poi le ho rubato. Seduta al solito posto, girava la sedia verso la televisione e, per guardarla, poggiava i piedi sulla sediolina impagliata della nonna. Per la precisione, di solito li infilava sul sostegno orizzontale delle piccole gambe di legno. Non sia mai che dovesse rilassarsi del tutto.  

La schiena, però, le si piegava un po' in avanti, soprattutto quando poggiava i gomiti sulle ginocchia e si teneva, stavolta sì, il mento tra le mani. A pensarci adesso, in quei momenti sembrava più vecchia di come fosse in realtà.

E d'altra parte, non ho mai ben capito perché, nonostante avesse sonno, amava restarsene lì in cucina fino a tardi, spesso fino a dopo mezzanotte, la porta della cucina accostata per trattenere ancora un po' il calore dei termosifoni ormai spenti e forse per non disturbare mio padre e, quando c'ero, anche me.

Dopo aver chiuso la tv in sala, prima di andare a letto passavo dalla cucina per salutarla, spesso le davo proprio il bacio della buonanotte, anche da grande.

Una volta, però, mi ha scioccato.

Mia nonna, sua madre, era morta da pochi giorni e lei era davvero a pezzi. 

Io ero appena uscita per sempre dal liceo: negli ultimi due anni avevo dormito spesso dalla nonna, via via che la sua salute si faceva più precaria. 

In genere andavo da lei volentieri: mi piaceva il latte bollente (mi pelavo proprio la lingua) con il Nesquik e i biscotti Atene Doria (sempre quelli) che la nonna mi faceva trovare tutte le mattine nel soggiorno, dopo aver lasciato la tazza sulla stufa a gas, per tenermela meglio in caldo.

Ricordo il tratto in macchina che separava il nostro appartamento dalla sua grande casa. Partivamo dopo cena, mentre guidava la mamma mi dava spesso una breve carezza sul ginocchio sinistro, quello più vicino al cambio. Poi arrivavo dalla nonna e aprivo io con le chiavi: lei mi salutava dal letto, gli occhiali sulla punta del grande naso. 

Tutto questo, dicevo, un giorno d'estate è finito e forse me ne sento ancora un po' in colpa. 

Gli esami si avvicinavano e io avevo bisogno di concentrarmi. Ho espresso questo mio desiderio probabilmente a entrambi i genitori, con la mia proverbiale veemenza. Oppure, chissà, quella volta la veemenza ce l'ha messa mio padre, sempre così pronto a farsi in quattro per le sue bambine.

Come sia andata, insomma, non lo ricordo più. So solo che quello è stato uno dei rari casi in cui ho visto mio padre alzare la voce con mia madre. Pareva proprio l'avvocato della pubblica accusa durante l'arringa finale, la mamma la controparte messa rabbiosamente nell'angolo.

La nonna, però, stava male davvero e, a posteriori, capisco quanto mia madre, sua figlia, dovesse essere preoccupata. Come posso lasciarla da sola?, si sarà detta, Chi veglierà su di lei durante la notte? Alla fine la scelta è ricaduta su mia sorella, tornata da Roma, dove frequentava l'università, non so bene se richiamata apposta o perché in pausa tra un esame e l'altro. 

Proprio a mia sorella è toccato effettivamente soccorrere la nonna nei drammatici momenti finali. Quattro giorni dopo il mio esame orale, ci ha lasciato. Eravamo annichiliti. Il voto finale, per me, alla fine, non è contato più nulla.

Molto più importante, era invece riuscire a trovare un modo per stare vicino alla mamma, affranta come mai l'avevo vista.

Non potevo sopportare che soffrisse, è stato così anche molti anni dopo, quando si è ammalata. Solo in un'altra circostanza, qualche tempo prima, l'avevo trovata distesa sul divano della sala, senza forze. Chissà se aveva l'influenza o se era solo un ciclo particolarmente doloroso, fatto sta che io ero nel panico. 

Ricordo di averla quasi sgridata: "Dai, su, alzati!", penso di averle detto e lei mi ha sorriso debolmente e mi ha risposto, qualcosa del tipo: "Sì, sì, domani sto meglio". Chissà se lo pensava davvero o se voleva solo rassicurarmi.

Stavolta la sua infelicità aveva un'origine diversa, non sapevo proprio come maneggiarla. Gli strepiti non sarebbero serviti e nemmeno altre lacrime.

Però una sera sono entrata comunque in cucina per il solito saluto della buonanotte. La mamma non piangeva più. Seduta davanti alla tv con i piedi sulla seggiolina, aveva la fronte corrugata di chi già da minuti stava rimuginando su un pensiero preciso e sgradevole. 

Con una certa cautela mi sono avvicinata a lei, l'ho abbracciata e discretamente l'ho baciata sulla guancia magra.

Stavo quasi per allontanarmi quando l'ho sentita dire: "Voglio il divorzio".

Rammento di essere rimasta lì accanto a lei qualche istante, atterrita. Ma come? Ma perché? Papà aveva sbagliato, certo, o comunque non aveva capito la gravità della situazione, d'accordo, ma addirittura il divorzio. E io? E noi? Possibile che tutto dovesse finire così?

L'episodio mi è tornato in mente ieri, sentendo la rassegna stampa mattutina sulla radio, un'abitudine di famiglia ereditata dal nonno paterno che non ho mai più perso.

Fino a poco tempo fa anche mio padre la ascoltava sempre, non di rado a un volume piuttosto alto, negli anni più recenti, da suo lettone di vedovo. 

La mamma no, la mamma guardava la televisione, non rammento di averla mai vista armeggiare con manopole e frequenze. Se fosse stata ancora tra noi, forse avrebbe visto in tv qualche servizio sui cinquant'anni dalla legge sul divorzio, l'anno in cui era incinta di me.

Chissà che cosa ne pensava ai tempi, chissà che cosa ha votato, quattro anni dopo, al referendum. 

Di nostro padre parlava di tanto in tanto come di un uomo bravo, intelligente e serio, lodandolo particolarmente per le sue qualità di padre. "Quello che dite voi, per vostro padre, è legge", asseriva. Di solito tirava fuori questo discorso mentre era impegnata in qualche attività domestica, nello specifico mentre spazzava, ed io, a volte vagamente annoiata, ma in verità registrando ogni sua parola, l'ascoltavo dal piccolo divano dello studio, con un libro in grembo.  

A sentirla parlare, insomma, il suo era un matrimonio riuscito, anche se ripetutamente a me e mia sorella ha detto che il vero collante che tiene in piedi qualsiasi unione, all'epoca sua come ai tempi in cui abbiamo messo famiglia noi figlie, è la donna.

Credo, sinceramente, che avesse ragione, anche se, almeno lei, ha lasciato che nostro padre gestisse i conti e altre attività storicamente considerate maschili, mentre lei, pur lavorando, ha voluto mantenere il controllo della casa e della nostra educazione affettiva. Per quella intellettiva, da un certo momento in poi, ci ha pensato invece papà, spinto dal grande desiderio di farci studiare, un'attività per la quale lui stesso era molto portato, come ribadiva sempre la mamma.

E dire che lei ha insegnato, aiutando a crescere generazioni di bambini, con una passione pura e vitale, che oserei definire violenta, in certi istanti. La mamma non amava le mezze misure, anche se all'esterno, soprattutto negli anni più maturi, fingeva una pacatezza per la quale spesso l'ho presa in giro.

Se non fosse stata così, così passionale e assoluta, intendo, non avrebbe detto mai quella frase, davanti a me diciannovenne, intontita e sognatrice com'ero.

A pensarci adesso, in queste ore in cui mi appare davanti con i gatti sulla schiena e gli occhi che le si chiudono dal sonno, sono contenta di aver vissuto quel momento. Quello squarcio di verità di donna offesa, ancora giovane, ancora forte e in grado di conquistare tutti, donne e uomini, con la sua bella figura e la sua autorevolezza.  

Chissà come hanno fatto pace, chissà se papà le ha chiesto scusa, chissà in che modo l'avrà fatto, considerando la sua dolce goffaggine di uomo poco abituato alle smancerie. 

In ogni caso sono rimasti insieme fino alla fine, ma temo che non sapremo mai quanto sia stata dura, per papà, vederla andarsene giorno dopo giorno.

Non ho mai pensato davvero che avrebbero divorziato, mai più, almeno, dopo quella volta. 

Non so che cosa avrei fatto né come sarebbe stata la mia vita se fossi stata figlia di genitori separati. So invece com'è stato essere una figlia amata, una figlia che ha fatto fatica a crescere e che oggi fa fatica ad invecchiare.

Sono però grata a tutti e due per come erano e come saranno per sempre, diversamente ansiosi, ugualmente pratici, leggeri, pesanti, attenti.

Grazie, mamma, per essere sempre con me, con noi. Ti aspetto presto, davanti a me, dentro di me. Intorno a me.

E tu, papà, resisti. Pure io lo farò. Per te e per me. 

sabato 14 novembre 2020

Vienna e i cestini dei rifiuti in arancio: "bennezza" geniale!


 

Credo di aver notato questo cestino della spazzatura già dal mio primo giorno a Vienna. Anche se adesso viene, ahinoi, utilizzato per indicare le zone a contagio Covid un po' più alto, l'arancione è un bellissimo colore

A me, comunque, piace un sacco, e soprattutto in questa città, dove il cielo è in prevalenza grigio, trovo assolutamente sensato l'uso di un colore acceso per invogliare i cittadini a gettare i rifiuti nel posto giusto.

Nel mio subconscio, doveva avere insomma fatto centro quella scritta là, Hasta la mista, dal sapore spagnoleggiante. Ai tempi, però, di sicuro non avevo fatto caso al gioco di parole.

Dubito infatti che le reminiscenze piuttosto sbiadite del tedesco mi bastassero per ricordare che Mist, auf Deutsch, significa spazzatura

O meglio: è una delle molte parole adoperate in tedesco per indicare la monnezza, "mista", per l'appunto, di materiali di non meglio comprovate origini.

A dirla tutta, il mio Langescheidt online Tedesco - Italiano e viceversa traduce la sopradetta parola con "letame" o "porcheria". E non pensate che si tratti di metafore, no no: il Duden Deutsch - Deutsch parla proprio di Vermischte Exkremente, un'espressione che non credo abbia bisogno di ulteriori spiegazioni. 

Ma, a questo punto, qualcuno di voi forse si starà chiedendo: sì, ma a noi che ce ne cale?

Poco, probabilmente. Epperò la storia che c'è dietro questi arrotondati e colorati cestini dei rifiuti, e delle molte scritte che si vedono qui è là per Vienna, è molto simpatica (direi proprio geil, più o meno l'equivalente di cool...) e io ve la voglio raccontare.

Ho bisogno di più input

Ad idearli e installarli ci ha pensato il Magistrat 48, ossia il dipartimento della città che si occupa della gestione dei rifiuti, oltre che della cura del verde urbano.

"Hasta la mista" è insomma solo la punta dell'iceberg di un servizio che occupa presumo diverse centinaia di persone che, con le loro ramazze e bidoni a rotelle, raccolgono cartacce & monnezza varia e spazzano via le foglie dalle piste ciclabili che ho percorso ogni giorno in questi mesi diretta al corso di tedesco. 

Oltre a loro, ci sono gli addetti appesi ai camion, pure questi ultimi muniti di scritte. Negli ultimi tempi li ho incrociati spesso, qualche volta anche sbuffando per l'odore non proprio di rosa che esce fuori dalla loro enormi bocche di lamiera. 

Il fastidio odorifero è però terminato il giorno in cui mi è apparso LUI, il camion dico, più figo della storia della nettezza urbana:


Impossibile non far caso alla faccina sorridente, e contemporaneamente, stavolta sì, anche alle parole, vista la rinfrescata nel frattempo sopravvenuta (ma sempre in corso) alla lingua tedesca.
"Rimanete ottimisti - dice la scritta - ci curiamo noi della vostra spazzatura". La traduzione, in verità, non è letterale.

Più precisamente avrei dovuto scrivere: "Rimanga Un ottiMISTA. Ai Suoi rifiuti ci pensiamo noi".

E' chiaro, però, che in italiano la scritta non funziona. Nella nostra lingua avremmo bisogno di un altro gioco di parole, uno in cui, che so, far suonare insieme monnezza e bellezza.

Ma adesso non mi viene in mente e poi non c'entra. 

E invece, a pensarci bene, c'entra, considerando il sistema scelto dal Magistrat 48 per selezionare le varie scritte attaccate ai cestini.

Le origini della fortunata iniziativa risalgono addirittura al 2009, anno in cui il dipartimento viennese ha coinvolto nella gestione della comunicazione un'agenzia di pubblicità, che ha utilizzato la chiave umoristica per sensibilizzare la popolazione al rispetto del decoro cittadino. 

A raccontarmelo, è stata un'addetta alle relazioni con il pubblico del Magistrat 48, che molto gentilmente ha risposto alle mie domande (in tedesco, natürlich!).

L'exploit delle scritte più originali è stato raggiunto nel 2015, quando il dipartimento viennese ha chiamato in causa direttamente i cittadini, invitandoli a mandare idee per nuove frasi. Al concorso hanno partecipato anche i dipendenti del Magistrat: i migliori giochi di parole sono stati individuati con un voto online. 

Sempre nel 2015 - ha precisato l'impiegata - il Magistrat ha pensato di cavalcare l'appuntamento dell'Eurovision Song Contest, qui molto più seguito che in Italia. Un'analoga strategia è stata seguita l'anno dopo, in occasione degli Europei di calcio:



Stessa cosa è successa quest'anno con l'esplosione della pandemia. Le mascherine chirurgiche, si sa, non sono riciclabili, difficile peraltro ironizzarci sopra. In qualche maniera il Magistrat ci ha provato con questa scritta qua:



La frase è in "wienerisch", il dialetto viennese. Io l'avevo tradotta con "le vecchie maschere appartengono ai secchi", cioè vanno buttate nei cestini, non per strada, ma la mia preziosa amica bulgara poliglotta mi ha appena scritto che no, si traduce più semplicemente con: "Le mascherine usate vanno buttate!". Che, come dice lei, fa pure rima :)

Non so bene quanto siano efficaci le frasi nell'idioma locale, ma comincio a credere che lo siano eccome, a giudicare dal discreto di numero di cestini in wienerisch che man mano vado scoprendo:


Per la frase sopra, contrastano alquanto le traduzioni offertemi dall'amica poliglotta e dal cognato tedesco, che pure non scherza quanto a competenza linguistica.

Facendo una mediazione tra i due, opterei per una salomonica traduzione: "Fai centro!", intendendo con questo: "Butta i rifiuti e le tue cicche nel posto giusto!".

Non me ne vogliano i puristi germanofili, ma oggettivamente l'è dura.

Andando avanti, un paragrafo a parte di questo mio viaggio nei "magistrali" cestini è rappresentato da quelli con scritte in tedesco "hoch", come a dire in italiano-italiano, ma comunque fortemente evocative:


Bel colpo! 😅


Prego, nutrire 😉

Alcune, personalmente, le trovo un po' troppo sibilline, ma pensando, per esempio, ai nostri comici preferiti (ognuno avrà il suo), non tutte le loro battute ci fanno sempre spanciare dalle risate. O no?


"La posso liberare di qualcosa?" 

"Buco nero cerca materia di scarto"... più o meno si traduce così!

Insomma, l'idea è forte, la realizzazione anche, al punto che anche altre città, come Berlino (vedi cestino sotto), Amburgo e Innsbruck, hanno seguito l'esempio di Vienna, sempre stando a quel che mi ha detto l'impiegata del Magistrat 48. 


Wow wow! Fantastico come abbiate impacchettato il "manufatto"  
dei vostri quattrozampe e l'abbiate smaltito da noi! 😆

Ora che guardo meglio il cestino berlinese, mi accorgo di un dettaglio che avevo tralasciato, da non fumatrice quale sono. 

Anche i cestini viennesi sono dotati di un apposito sotto - cestino per le sigarette

Ecco, forse è stato proprio quel tubo cilindrico bianco, culminante con il filtro arancione (munito anch'esso di scritta che ora non decifro), a colpirmi già dal mio primo giorno a Vienna.

All'inizio, insomma, potevo credo già apprezzare la finezza di una frase come questa



"Sono dei geni", diremmo la mia amica poliglotta ed io, guardandola.

Solo lei poteva peraltro scovare questo:

Anziché "Rest" o "Mist", il Magistrat in questo caso ha usato il sinonimo Müll. Il gioco di parole è oggettivamente da Nobel: 

"Sarei volentieri un Mullionario". Applausi, sipario.

Tra un attimo, bitte.

Sì, perché mi resta l'ultimo, fondamentale cestino, scovato nemmeno dieci giorni fa a due passi da casa mia:


Quando si dice il caso o il destino, eh?

Buona monnezza a tutti! :)

venerdì 6 novembre 2020

Vielen Dank, Vienna e... #schleichdichduoaschloch!

 




Poco fa un amico mi ha segnalato un pezzo uscito sul Resto del Carlino, cronaca di Fermo, con il mio post precedente. Ho autorizzato io la collega a saccheggiarlo liberamente, per cui mi becco, diciamo così, il momento di gloria e vado avanti.

Avevo scritto quelle parole a caldo, dopo una notte pressoché insonne e una profonda tristezza nel cuore. 

Nel frattempo, sono successe alcune cose personali direi anche belle, viste le circostanze che le hanno generate.

Ho potuto seguire molto da vicino la cronaca del giorno dopo e di quello dopo ancora, coinvolta da un giornalista della Rai, che aveva bisogno di aiuto con il tedesco, fondamentalmente. 

Grazie a questa inattesa occasione di lavoro, sono riuscita ad entrare, forse per la prima volta un po' meglio, nello spirito di Vienna.

La capitale della verde Austria e i suoi abitanti sono spesso scontrosi, all'apparenza possono risultare piuttosto distaccati, due caratteristiche difficili da digerire, soprattutto per noi italiani del sud. 

Per fortuna, sono anche altro.

Sono anche quelli che hanno risposto immediatamente all'assassino, urlandogli da una finestra: "Vattene via, stronzo!".

La frase "Schleich di, du Oaschloch!" è stata pronunciata in viennese stretto. L'avevo anche fotografata con la mia Nikon, ma non l'avevo capita.

Il cognato tedesco mi ha spiegato che corrisponderebbe più o meno al romano "vatteneammorìammazzatoastronzo!".

Ecco: quella frase lì è diventata virale. Si può proprio considerarla come la versione viennese di #jesuischarliehebdo

Personalmente, la preferisco alla frase francese, perché incarna alla perfezione, a mio parere, l'immagine di una città e di un popolo, schivo sì, a volte provinciale, certo, ma disponibile ancora ad accogliere tutti, oltre ogni razza, religione e appartenenza politica.

In questa città così lontana dall'Italia (provate a venirci in macchina o in treno: vi accorgerete di quanto sta in culo al mondo), si può vivere benissimo, a patto di rispettare le regole. Poche e semplici regole, come pagare le tasse, i mezzi pubblici e l'affitto. 

Per il resto, vivi come vuoi, ti dice lo Stato, e te lo ribadiscono i partiti, anche quello di centro-destra del giovane Cancelliere Sebastian Kurz e del ministro dell'Interno Karl Nehammer, che qualche giorno fa avevo preso in giro con mio marito, per la sua idea di controllare gli ingressi dei migranti irregolari con i droni.

Nessuno dei due, né tantomeno il presidente della Repubblica Alexander Van Der Bellen, né il sindaco di Vienna, Michael Ludwig, hanno alzato la voce l'uno con l'altro. Certo, qualcuno ha parlato di falle nei Servizi Segreti e ha invocato una rapida riforma della giustizia, ma il tutto si è svolto con i toni civili tipici di un popolo orientato al fare. 

Nonostante il Covid e il peso dell'incertezza mondiale, qui si immagina ancora il futuro. 
A Vienna vivono molti giovani di nuova immigrazione di ogni nazionalità. Numerosi sono anche gli anziani, verso i quali già dal primo lockdown le istituzioni hanno mostrato massima attenzione.

Una ferita come questa, certo, non si rimargina solo con uno slogan virale, ora riproposto su magliette e altri gadget (comprese le nostre ahinoi ormai abituali mascherine), ma quello slogan racconta l'orgoglio di chi sa di aver costruito tanto, al punto da guadagnarsi per ben dieci anni di seguito il titolo di città dalla migliore qualità della vita.

I più informati (tipo il direttore di Die Presse, Rainer Nowak, intervistato dal giornalista del Tg2) dicono che ci si aspettava da un momento all'altro che un orrore così potesse succedere.

Altrettanto non inaspettata, forse, è anche la reazione dei viennesi per chi la conosce meglio.

Ma io sono qui da poco, per cui non potevo sapere. Non potevo immaginare quanto mi sia già nel profondo affezionata a questa città, quanto mi piaccia attraversarla in bicicletta e farmi sorprendere dalle sue strade solo all'apparenza ordinate. 

Per questo voglio ringraziarli dello slogan, e non solo di questo.

Grazie, Vienna, grazie, viennesi, per avermi ricordato quanto sia fondamentale difendere la nostra dignità, personale e nazionale.



martedì 3 novembre 2020

C'era una volta Vienna




 La chiamavano la città dalla migliore qualità della vita. Sono, erano dieci anni che Vienna continuava a restare in vetta alle classifiche internazionali che analizzano le condizioni più favorevoli di esistenza per il lavoro, l'ambiente e la sicurezza. L'ultima volta è successo solo nel febbraio di quest'anno. Praticamente un secolo fa, considerati tutti gli avvenimenti di questo lungo, assurdo e doloroso 2020.

Tutto questo, ieri sera, mentre lavavo i piatti, è finito.

D'ora in avanti Vienna sarà una normalissima capitale europea, come Parigi dopo il Bataclan e Charlie Hebdo, come Berlino e Strasburgo dopo gli attacchi ai mercatini di Natale, dopo e prima la decapitazione del prof Samuel Paty e le vittime di Nizza. Tra queste ultime c'era anche il sacrestano Vincent Loquès, 54 anni. Quando l'abbiamo saputo, con mio marito abbiamo riso amaramente, visti i contatti di lavoro che abbiamo, lui in particolare, con la Chiesa italiana di Vienna. La bellissima Minoriten Kirche, che ospita una pregevole riproduzione sotto forma di mosaico del milanese Cenacolo di Leonardo, si trova a due passi dai luoghi degli attentati di ieri sera. Noi, per fortuna, abitiamo a mezz'ora di bicicletta, nostro unico mezzo di trasporto dall'arrivo della pandemia.

A proposito. La pandemia e il lockdown scattato proprio alla mezzanotte tra ieri e oggi.

Gli attentatori sono come attori. Sanno quando entrare in scena e quando ritirarsi, lasciandosi dietro, non il fragore degli applausi, bensì lacrime e terrore.

Tutti, ormai, avranno guardato i numerosi video che circolavano già pochi minuti dopo i primi spari (qualcuno li aveva presi per fuochi d'artificio). Ce n'è uno particolarmente agghiacciante, girato immagino da un balcone. Negli stessi istanti la Polizia viennese pregava i cittadini di non condividerli assolutamente, ma nel frattempo i miei occhi avevano già visto il sangue sul ginocchio di un ferito e ascoltato le urla di chi stava scappando in cerca di un riparo.

Mentre scrivo queste righe, la caccia ai terroristi sta continuando. I quotidiani austriaci e la Orf, l'equivalente della nostra Rai, parlano di 17 feriti gravi e 5 morti, compreso uno degli attentatori. Non è ancora chiaro se l'obiettivo del primo attacco fosse davvero la Sinagoga di Seitenstettengasse. Di uno degli attentatori si sa che fosse un simpatizzante dell'Is, una notizia che ha spinto la Comunità musulmana dell'Austria ad esprimere immediatamente la propria vicinanza alle persone rimaste coinvolte nei tragici avvenimenti di queste ore.

Man mano si saprà tutto quello che c'è da sapere e, spero, man mano tornerà il silenzio.

Quel che non tornerà più, purtroppo, è l'immagine che finora più o meno tutti avevamo di questa città.

Una capitale che non ha nemmeno i tornelli alla metropolitana, una città dove ci si sposta che è una bellezza da un punto all'altro, un centro di due milioni di abitanti che spesso sembrava poco più di un paesone, soprattutto durante il Wiener Wiesn, l'equivalente austriaco dell'Oktober Fest, e durante i turistici mercatini di Natale.

La magica, fiabesca atmosfera ottocentesca che si respira in ogni statua del meraviglioso parco di Schönbrunn, in ogni siepe ingiallita dall'autunno, in ogni rosa del romantico Volksgarten, altro luogo che ho imparato ad amare, non c'è più. Non ci sarà mai più.

Certo, tutto passa, anche il Covid 19 finalmente un domani ci lascerà tranquilli di reinfettarci come ci pare, ma ieri è cominciata una nuova fase anche qui, nella ex capitale imperiale, l'ultimo avamposto pacifico, rassicurante e un po' provinciale della nostra Vecchia Europa.


sabato 24 ottobre 2020

Vivere all'estero - genesi ed epilogo di un esercizio di tedesco

Lo so, continuo a violare l'Abc della comunicazione online, ma direi che a quasi cinquant'anni me lo posso anche permettere.

Dopo questo incipit garrulamente sarcastico, aggiungo una breve precisazione sull'immagine sopra riportata, fitta di oscure parole germaniche.

Si tratta di un esercizio di scrittura, che mea sponte ho voluto ammannire al prof di tedesco. Mancano ormai poche settimane alla fine del mio secondo e presumo ultimo corso di questo splendido 2020, per cui ho deciso di farlo fruttare finché Corona non ci separi.

Eh sì, perché non è mica detto che riusciremo a concluderlo in presenza, vista la crescita di casi persino nella Felix Austria, dove la gggente ha fatto scorta come ogni fine settimana di birre&carta igienica, felice stavolta di avere un giorno più per sfondarsi.

Mi spiego meglio: qui lunedì è la Festa della Repubblica, ossia tutto chiuso e sbarrato a partire dalle 18 di oggi fino a martedì prossimo, un lungo auto lockdown che farà impazzire di gioia prima i consumatori seriali di lattine, dopo l'efficiente (speriamo) sanità nazionale.  

Scusatemi, ma una volta che mi parte la vena sarcastica, faccio fatica a controllarmi.
Torno al punto. 

In vista della lezione di ieri, il prof ci aveva chiesto di riflettere sul tema "Vantaggi e svantaggi di vivere all'estero". L'argomento era stato scelto democraticamente dalla classe. Ognuno di noi avrebbe dovuto indicare quali fossero i personali Pro e Contro e da lì, sempre secondo il prof, avremmo dovuto "streiten", discutere.

Bene: pur se dotata della vena sarcastica di cui blateravo poco fa, non amo molto i dibattiti, forse per via della mia piccola voce. Perché è sicuro che a un certo punto di qualsiasi scambio di pareri, anche del meno acceso, intendo, finirà per predominare chi parla più forte.

Nella mia classe, ad esempio, c'è un russo, simpaticissimo, brillante e ironico come pochi, che però, ahimè, non è capace di modulare il tono. Il suo banco monoposto (senza rotelle) è nella fila dietro la mia e, a occhio e croce, tra noi ci saranno almeno due metri. 
Eppure: ogni volta che parla, è come se mi condannassero a stazionare nei pressi della mia lavatrice quando parte la centrifuga. Provate un po' voi a sovrastare il suono di una centrifuga rumorosa. Io, di certo, non gliela fo.

Quindi, con sano e demodé spirito pratico teatino, ho buttato giù i miei "Vorteile" e "Nachteile" dello stare in Austria, in maniera anche da avere una traccia scritta, in caso di necessità.

Il russo di cui sopra ha vissuto in vari Paesi, quindi la sua visione non poteva che differire totalmente non solo dalla mia, ma anche dalla maggioranza del resto della classe.

Di certo, ascoltandolo (in silenzio, aspettando che tacesse per potergli fare delle domande senza rischiare di compromettere le corde vocali), ho capito che di sicuro non potrei vivere né in Svezia né in Norvegia. "Troppo freddo, mica come qui a Vienna?", ha detto il nostro biondissimo giramondo.

Insomma, alla fine non c'è stato un vero dibattito: anche se non tutti abbiamo esattamente la stessa idea dell'Austria, ognuno ha potuto raccontare la propria esperienza, in un'atmosfera distesa, benché sottilmente malinconica. 
 
A dirla meglio, ho avuto proprio l'impressione che tutti, compresa io, volessimo farci forza a vicenda ascoltando il racconto dell'altro.

Il vantaggio principale?
Imparare una lingua nuova. E' incredibilmente arricchente e tiene il cervello in allenamento, ha detto mi pare la sveglia giovane mamma rumena. La sua vicina di banco, una dolcissima trentenne di origine bulgara, molto più minuta di me, ha aggiunto che vivere all'estero aiuta ad "allargare gli orizzonti". Gliel'avevo già sentito dire, ma stavolta mi ha fatto ancora più simpatia, perché ho pensato alla fatica che sta facendo per mantenersi, lavorando nella cucina di un pub, tra austriaci che le parlano in dialetto.

"Qui c'è la sicurezza", ha precisato la giovanissima afgana, la mia vicina di banco velata, due occhi da principessa mediorientale, che ha parlato di quanto sia stato difficile all'inizio, circa due anni fa, capire e farsi capire. Nonostante qualche sguardo critico rivolto al suo capo coperto, dice che Vienna le piace perché è piccola (!) e piena di cultura e natura.

Il principale svantaggio?
La distanza dagli affetti, dalla famiglia in particolare, più che dagli amici. Di questi ultimi, la giovane mamma rumena ha raccontato di come i suoi siano spariti, dopo un po' che si era trasferita. "Eppure ci sono le tecnologie, potremmo sentirci facilmente - ha precisato - ma evidentemente non erano interessati davvero a me". 

Per la lontananza dalla famiglia soffre molto la giovane mamma moldava, la Miss della classe, dotata di un incantevole visino di porcellana. Con una voce se possibile ancora più flebile della mia, ha detto che le manca la vita che faceva nel suo Paese (che ho scoperto essere un grande produttore di vino, grazie a un altro esercizio che ci aveva assegnato il prof). Le manca sua madre, ha sottolineato, e poi, povera, l'infanzia che ha trascorso lì.

Per chi ha figli, come lei e qualcun altro, ho l'impressione che possa essere ancora più complicato interagire con i nativi. 
Il vicino di banco della moldava, un cantante lirico rumeno molto amabile e scherzoso, ha parlato dei gruppetti di bambini che giocano rigorosamente divisi per nazionalità, come ha potuto osservare quando accompagna suo figlio al parco. 

Razzismo in Austria? Il tema è stato solo sfiorato, ma nessuno, in effetti, ne ha parlato apertamente, forse perché è sempre troppo vivo in tutti gli Ausländer, che cercano di costruirsi una nuova vita, il ricordo delle file dal Magistrat per farsi rilasciare i documenti, la scortesia di alcuni impiegati, i controlli di polizia, presumo più severi per i non europei. 

Tutto liscio, nessuna polemica? Direi di no. C'è stato però un solo intervento, quello del giovane istruttore subacqueo egiziano, che ha asserito, piuttosto lapidario: "Integrazione? No, grazie: non ne ho bisogno". 

Che cosa voleva dire?
Nulla, o per meglio dire, tutto.
Quando era ancora al Cairo, ha raccontato, si è sentito non di rado un "Außerseiter", ossia uno che stava da un'altra parte, uno fuori dal coro. 

"Anziché parlare di come gli austriaci vedono gli stranieri, ognuno di noi si dovrebbe chiedere: ma quando vivevamo a casa nostra noi personalmente quanti stranieri conoscevamo?", ha sottolineato, "quanti, voglio dire, erano nostri amici intimi? E non parlo solo degli stranieri, ma anche degli altri 'diversi', omosessuali, trans e via dicendo. Che cosa vuoi che conti la razza? Wir sind alle Tiere!".
Che significa: "siamo tutti animali". 

Il giovane egiziano ha due occhi neri neri e una parlantina molto vivace. 
Non è felicissimo dell'Austria, me l'ha detto a parte una volta, durante una pausa, ma evidentemente l'origine del suo scontento non ha niente a che fare con la razza, la sua e quella di chi ci ospita. 

E in effetti, riflettendoci, gli dò ragione.

Se dovessi riassumere in una parola qual è il sentimento che accomuna tutti noi espatriati, userei spaesamento.

Prima o poi lo proviamo tutti. Per qualcuno non va via facilmente, altri lo mettono a tacere pur avvertendolo sempre almeno un po'. Altri ancora, i più fortunati, dal mio punto di vista, smettono di soffrirne. 
E si sentono finalmente a casa.

Non so dirvi se mai succederà anche a me, tenendo conto anche delle ragioni che mi hanno spinta fin qui. 

Però, come ho scritto nell'esercizio, sufficientemente diplomatico per essere diffuso nell'universo telematico (per chi riuscirà a decifrarlo: apropos, riporto la versione corretta dal prof. Se ci sono errori residui prendetevela con lui!), sono curiosa di vedere che cosa mi riserva il futuro.

Ma la cucina austriaca non mi piacerà mai! 
 
Scommettiamo?
;) 

martedì 13 ottobre 2020

Auf Wiedersehen, Italia


 

Lo ammetto. Me lo sentivo che stavolta non ce l'avrei fatta, ma evidentemente la vita ha in serbo per me nuove sorprese. Belle, coinvolgenti e concrete sorprese. Voglio crederlo ciecamente.

Sto parlando della preselezione del Concorso Rai, la seconda sostenuta negli ultimi cinque anni. La prima mi era andata meglio: ero riuscita a superarla, piazzandomi alla fine di quella lunga cavalcata 210ma sugli iniziali circa tremila partecipanti.

Stavolta concorrevo per le Marche, quindici erano i posti in palio su circa 270 vincitori da distribuire anche in altre regioni.

Come i partiti di quattro gatti che non riescono a superare la soglia di sbarramento alle elezioni, ecco, stavolta pure io sono stata segata. E il bello che ho anche capito perché, anche se fino a mezz'ora fa ho sperato nella classica botta di deretano imprevista.

Non ho risposto a dieci domande volutamente, perché la risposta sbagliata sarebbe stata valutata negativamente, mentre quella non data avrebbe avuto solo zero. Avevo fatto così anche l'altra volta, solo che l'altra volta, probabilmente, ne avevo tralasciate di meno. 

Che cosa mi ha fregato? La Storia dell'arte, la mia amatissima quanto sconosciuta Storia dell'Arte (due erano di una facilità sconcertante, ma in quel momento avevo il vuoto totale). E poi le altre, paradossali, sul contratto giornalistico 2013-2016.

Quando le ho lette, quasi non ci potevo credere. Mi era balenato il dubbio che me lo dovessi rileggere, ma ripassando per l'ennesima volta tutto il ripassabile, ho ritenuto - errando - che un contratto scaduto già da quattro anni non potesse essere una valida materia d'esame. E invece lo era e io sono una fessa.

Una cosa simile mi era successa all'esame di Diritto Privato all'università. Era il mio terzultimo esame, avevo aspettato a lungo prima di darlo, ma non volevo lasciarlo proprio alla fine per evitare di arenarmi a un passo dalla laurea.

Da brava studentessa avevo frequentato tutto l'inverno il seminario della prof, una specie di Cerbero in gonnella piena di capelli grigi. Facevo anche domande, esattamente come mi succede adesso al corso di tedesco. Ero così "fleißig", come si dice qui dei secchioni.

A ridosso della prova, mi capitano sott'occhio gli appunti su un argomento molto specifico (ricordarselo adesso, quasi trent'anni dopo, sarebbe inquietante) e io mi dico che no, non valeva la pena riguardarselo, figuriamoci se me lo chiedono.

E invece il grigiocerbero lo tira fuori. Ricordo bene le mie gambe irrigidite sotto la scrivania, e, non so perché, totalmente divaricate, in una posizione oserei dire ginecologica. Comincio a rispondere arrampicandomi sugli specchi, aiutandomi con la mia una volta proverbiale memoria fotografica.

Casco argenteo non abbocca, capisce che ce sto a provà e infatti mi fa osservare l'incompletezza delle mie argomentazioni.

E lì viene fuori lo spirito un filino polemico e paraculo che ogni tanto si affaccia sul mio faccino raggrinzito. "In effetti - oso dirle - l'argomento non era molto chiaro neanche durante il seminario".

L'occhialuta creatura dantesca si agita vagamente sulla sedia e ribatte: "Signorina, sia seria, non usi questi mezzucci da leguleio. L'ho vista a lezione, per cui le offro 23. Che fa, accetta?".

Ma certo che accetto. Vielen Dank, professoressa Rottemeier e a mai più rivederci.

Ecco. Se mi avessero dato la possibilità di parlare, avrei fatto notare il paradosso di chiederci qualcosa sul contratto che, diciamolo, è diventato come l'Eldorado per i cercatori di pepite. 

Però, obiettivamente, come l'argomento che non avevo ripassato all'epoca, ci stava qualche domanda sul mezzo con cui, bontà loro, i novanta colleghi cominceranno un domani il loro percorso professionale da Mamma Rai. Sperando, tra l'altro, che nel frattempo lo rinnovino. Finalmente. 

Un po' più paradossali le domande sulle Marche, più adatte - a ridaje il leguleio e i suoi tristi mezzucci - agli studenti di Beni Culturali che a noi (leggi: a me) eruditi a metà.

Insomma, non è andata.

Mi consola, parzialmente, vedere tra gli ammessi molti giovani, gente, intendo, nata tra il 1991 e i secondi anni Ottanta. 

A loro auguro lunghe e felici carriere, sperando che un domani si ricordino di noi vecchietti che abbiamo pagato l'iscrizione all'Ordine, i contributi all'Inpgi2 (e io per brevi, fortunati periodi anche all'Inpgi) per anni, confidando che un giorno il vento sarebbe girato.

E' già da tempo che non credo più che il giornalismo fosse davvero la mia strada. L'ho amato molto, moltissimo, tutte le volte che ho potuto scrivere anche una sola riga e persino in quest'ultimo mese, in cui mi è toccato rispolverare manuali e leggi professionali, come quasi vent'anni fa.

So bene però qual è il motivo che mi ha portato a Vienna e credo di aver fatto la scelta giusta, nonostante la delusione lavorativa iniziale.

E adesso che succederà?

Keine Ahnung. 

O meglio. Intanto finisco il corso di tedesco (apropos, come dicono qui: giovedì ho la simulazione dell'esame finale. Mortaccen, devo studiare).

Dopodiché (direi nel frattempo) continuerò a cercare un lavoro, come fanno tutti, come fa chi sa che, comunque andrà, andrà bene.

Punto e a capo. 

Auf Wiedersehen, Italia.