Come si vive in Austria? Tolti quelli che la confondono con la Svizzera, agli altri non saprei sinceramente cosa rispondere.
Di sicuro, un'idea di come si vive a Vienna ormai me la sono fatta, ma se proprio fossi costretta a dire qualcosa, vi esorterei a rivolgervi a chi l'ha scelta come patria definitiva.
Mi riferisco agli immigrati di prima e seconda generazione, adottati dalla capitale asburgica in particolare. Una di loro è Melisa Erkurt, la giornalista autrice del libro di cui vedete sopra la copertina.
La storia di questa giovane donna, nata ventinove anni fa a Sarajevo, è emblematica.
Praticamente ancora in fasce, è arrivata a Vienna con sua madre, in fuga dal terribile conflitto della Bosnia Erzegovina, una delle guerre della ex Jugoslavia scoppiata poco dopo la sua nascita.
Il più grande torto subito da chi lascia il proprio Paese è non potervi più tornare, se non un domani come turisti, alla ricerca di qualche traccia delle proprie radici.
Di un viaggio del genere parla per l'appunto Melisa Erkurt nel suo libro, dedicato alle ragazze e ai ragazzi con "Migrationshintergrund", ossia con origini migranti, alle prese con il difficile compito di diventare adulti in una terra straniera, frequentando scuole spesso non adeguate a comprendere i loro reali bisogni.
Del libro della giornalista che ora lavora per la Orf, l'equivalente della nostra Rai, ho parlato durante la mia presentazione al corso di tedesco (la trovate qui), uno dei molti offerti dall'Arbeitsmarketservice (AMS) ai migranti che vogliano inserirsi meglio (almeno si spera) nel mercato del lavoro austriaco.
Ai tempi ne avevo sentito parlare leggendo un articolo sul Wiener Zeitung, il primo quotidiano che ho sfogliato praticamente già appena sbarcata dal treno due anni e passa fa, senza capirci granché.
Inevitabile rimanerne colpita, considerando anche i magnifici occhi chiari su capelli corvini di questa giovane collega, che illuminano di forza e determinazione tutta la figura.
I suoi primi anni qui non devono essere stati facili: in alcune pagine del libro, mi è parso di risentire le parole di una mia compagna del corso precedente, di origine afgana. Dal suo Paese Marzia, così si chiamava la mia ex compagna, è arrivata in Europa a piedi. Con lei c'erano il marito e i figli, che oggi le stanno dando tante soddisfazioni con la scuola e il lavoro. "Non avevamo niente", mi ha raccontato: una volta qui, organizzazioni caritative li hanno aiutati con vestiti e altri beni di prima necessità.
La comprensibile gratitudine per chi ti ha salvato la vita, indirizzandoti verso un futuro migliore, può tuttavia confondere le acque.
Mi piacerebbe infatti parlare con i figli della mia ex compagna per sapere se hanno vissuto, o stanno ancora vivendo, le esperienze che racconta Erkurt nel libro, ossia le piccole e grandi discriminazioni subite dai nuovi austriaci di nome Mohammed (un capitolo si chiama proprio "Muhammed ist ein Urteil", ossia "M. è una sentenza", o qualcosa del genere).
Per chi porta quel nome, oppure per le ragazzine che girano con il capo velato, la vita scolastica, e non solo quella, è sicuramente più dura, sostiene la giornalista.
Particolarmente problematica è la quotidianità delle giovanissime musulmane, che non di rado scelgono il velo per sottolineare la propria diversità, per darsi, anzi, un'identità.
Proprio per questa ragione, sottolinea l'autrice, non ha senso, a suo giudizio, proibirne l'uso a scuola: finirebbe per alimentare il sentimento di separazione tra gli studenti con o senza pedigree.
Semmai, propone apertamente alla fine del libro, bisognerebbe rifondare daccapo il sistema scolastico, affiancando agli insegnanti tout court, altre figure, dal mediatore culturale allo psicologo, per favorire il dialogo tra docenti e discenti e tra i ragazzi stessi, in modo da prevenire e risolvere eventuali conflitti prima che sia troppo tardi.
Troppo tardi per cosa?, direte. Innanzitutto per completare gli studi fino in fondo e con successo. Ancora troppi ragazzi di origine straniera - precisa la giornalista - si fermano all'istruzione dell'obbligo o tutt'al più si avviano alla formazione professionale per accedere prima possibile al mondo del lavoro. I posti ai quali questi ragazzi aspirano sono perciò, nella maggior parte dei casi, di livello più basso, come se, detto in altri termini, tra loro (tra le ragazze in modo particolare) non ci fosse nessuno portato per mansioni più qualificate.
E dire che Melisa Erkurt di giovani donne capaci come lei ne ha viste diverse. Prima di diventare una giornalista, ha infatti studiato Pedagogia, lavorando, dopo la laurea, come insegnante.
Il suo testo prende spunto proprio dall'esperienza didattica, raccontata con grande passione, in una miscela perfetta con i suoi ricordi personali, che ne agevolano la lettura anche a chi (come me) non ha una conoscenza avanzata del tedesco.
Per come la vedo io, insomma, sarebbe interessante tradurre "Generation Haram" anche in italiano, perché immagino che anche da noi si siano affacciati, ormai da anni, problemi di integrazione analoghi a quelli descritti per l'Austria.
Prima di chiudere la mia sghemba recensione, mi soffermo sul titolo e sul sottotitolo, sperando con questo di invogliare qualcuno ad approfondire l'intera faccenda.
La parola "haram", spiega l'autrice, si riferisce ai temi tabù per la maggioranza delle ragazze e dei ragazzi di origine musulmana. Su tutti, facile intuirlo, c'è la sessualità, un argomento trattato piuttosto male, rimarca Erkurt, anche nei corsi organizzati a scuola.
A saperne poco, d'altra parte, sono pressoché tutti gli adolescenti, precisa l'autrice, che spesso nascondono la loro inesperienza dietro eccessivi moralismi o atteggiamenti machisti (nel caso dei maschi), tipici in quella fascia d'età a prescindere dalle proprie radici.
A maggior ragione, ribadisce Erkurt, diventa perciò essenziale che la scuola "impari a dare una voce a tutti", come recita il sottotitolo del suo libro.
Perché se è vero che storie di successo come la sua già di per sé testimoniano che la direzione giusta sia stata già imboccata, è purtroppo ancora vero che molti di questi giovani di origine straniera rappresentano una "generazione perduta".
A ripeterlo piuttosto spesso, in vari capitoli, è sempre l'autrice, che nella quarta di copertina però precisa come la medesima generazione finalmente sia "pronta a parlare!", scritto proprio così, con il punto esclamativo, assai utilizzato in Austria anche dalla pubblica amministrazione. Ogni volta che ne vedo uno, a dirla tutta, mi viene l'ansia.
Stavolta, invece, auspico davvero che la personale biografia di questa giovane donna non sia un "Ausnahme", un'eccezione, come è scritto sempre nella quarta.
A mio modesto avviso, di generazioni perdute ce ne sono state già troppe, a partire dalla mia, la mitica nata tra i Seventies e gli Eighties, come sostenne un po' di anni fa un illustre ex premier italiano.
Rimanendo nell'ambito della politica, segnali confortanti, almeno qui in Austria, si vedono in Alma Zadic, la ministra della Giustizia del secondo governo Kurz, nata in Bosnia, come Melisa, nel 1984.
Anche di lei la giornalista parla come di un'eccezione, dotata com'era di un talento straordinario per gli studi e lo sport.
D'accordo, due eccezioni non fanno la regola, però aiutano.
La terza, per me destinata a confermarla, è l'apparizione della giornalista in un calendario dell'Avvento interattivo, dove anima una delle 24 finestrelle, insieme con altri Vip austriaci.
Il suo volto, per la precisione, è comparso il 6 dicembre, il giorno di Nikolaus, il vescovo barbuto che nelle terre teutoniche lascia frutta e dolci nelle scarpe dei piccini. In sintesi: un giorno importante per i nativi di sangue bianco rosso, come i colori della bandiera nazionale.
Non casualmente, Melisa consiglia tre libri, il primo dedicato al tedesco, il Deutsch, che lei parla e scrive meglio della sua lingua madre. Lo afferma nel libro, ma lo si intuisce sentendo a quale velocità lo parla.
Grazie alla sua competenza linguistica, rivela peraltro, non di rado ha aiutato i genitori con documenti e burocrazia varia (un vero incubo per tutti gli Ausländer, ve l'assicuro).
E dire che a suo padre non sembrava poi così importante che continuasse a studiare: per lui era essenziale che invece si rendesse autonoma prima possibile.
Considerando l'età che ha e dove si trova, direi che, beh, in fondo non ha affatto tradito le aspettative del papà.
Un giorno, ne sono certa, si chiariranno. Suo padre, in particolare, capirà che cosa fa la figlia e ne sarà orgoglioso.
Quando succederà, quel legame interrotto tra generazioni, l'una radicata per forza di cose più nel passato, l'altra proiettata con energia da vendere nel futuro, porterà frutti ancora più abbondanti.
Un augurio simile lo estendo a tutti i nuovi austriaci, giovani e meno giovani.
Le generazioni perdute hanno fatto il loro tempo.
Pensiamo adesso a quelle ritrovate. E andiamo avanti insieme.
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