martedì 30 dicembre 2014

Vivere e amare, il resto non conta: buon 2015 a tutti


L'emozione di rivedermi cosi' meravigliosamente ragazzina e' stata grande.
Mi colpisce poi moltissimo l'espressione di papa', fiera - probabilmente - e rilassata.
Sembra quasi che sia lui solo a essere completamente a suo agio davanti all'obiettivo.
Del resto, chi sta scattando e' un giovane uomo che lui ha visto crescere, se non proprio nascere.

L'autore di questa dolcissima foto-ricordo e' infatti il figlio di una persona che tanto ha voluto bene ai miei genitori.
Di Amelia mio padre ha sempre parlato con aperta ammirazione. E' stata lei - ci ha raccontato molte volte negli anni - a partire per prima lasciando laggiu' nel Sud Italia marito e figli per tentare di risollevare le sorti dell'intera famiglia.
Un tentativo coronato da successo, determinato dalla tenacia di questa signora oggi purtroppo un po' malandata ma dal carattere ancora d'acciaio.

Vorrei avere solo un'oncia della sua tempra per uscire dal pantano in cui sento di essermi ficcata. Ma questa e' un'altra storia.
Torniamo alla foto.

Ci e' arrivata alla Vigilia di Natale, intorno all'ora di pranzo. Quando hanno citofonato, io ero sul balcone a godermi il sole caldo che da sempre mi ha reso la casa dei miei tanto gradita. Con il passare degli anni, anzi, mi sembra sempre piu' accogliente, considerate le varie stamberghe nelle quali sono andata a vivere (compresa la dimora fermana, un palazzo gentilizio, si', che pero' d'inverno sembra la residenza siberiana degli zar).

Assorta com'ero nei miei pensieri da felino indolente, sono andata ad assistere all'apertura del voluminoso pacco con neutra curiosita'.
Nemmeno davanti alla lettera appiccicata sul coperchio ho sentito mutamenti interiori. Solo quando ho visto la fotografia racchiusa in una molto appropriata cornice di legno e accuratamente incellofanata ho realizzato.

Mi sono subito uscite delle lacrime e anche mio padre, poco incline ai piantarelli, era visibilmente commosso. I bambini, pero', non capivano che ci fosse tanto da piangere, com'era logico che fosse, per cui tutti  e due siamo subito ritornati in noi, anche se da quel momento in poi mio padre si e' messo alla spasmodica ricerca del numero dell'affettuoso mittente e finche'  non e' riuscito a trovarlo, non si e' dato pace.

"Mi hai fatto tornare in mente il periodo piu' bello della mia vita", gli ha detto quando e' riuscito a parlarci.
Con mia sorella ci siamo fatte un po' di conti.
Ai tempi della fotografia  i nostri genitori erano piu' giovani di come siamo noi adesso. Forse la mamma aveva intorno ai quarant'anni, ma pure di meno, probabilmente.

E' impressionante come abbia conservato l'espressione di allora praticamente fino a quasi gli ultimi giorni della sua vita. La mano si muove nell'aria: sicuramente stava parlando, di certo voleva organizzare qualcosa o puntualizzare un qualche aspetto.

Allora, ma non ne sono certa, non doveva darle ancora fastidio essere ritratta. Negli scatti della sua maturita', invece, finiva sempre per mettersi una mano davanti al viso. Pero' spesso ci giocava pure con malcelata vanita'.

Nonostante le rughe e qualche segno sul corpo, nostra madre ci ha sempre tenuto al suo aspetto, con sobrieta', certo, ma mai con rassegnazione.
Se sia Linda sia io abbiamo potuto prenderci diversi dei suoi vestiti (e io personalmente anche varie borse e pure qualche orecchino e collana) e' proprio perche' aveva stile.

Venendo poi a Linda, pure lei e' straordinaria: che classe i suoi pantaloni con la riga e la posa plastica delle sue braccia magre, identiche (giuro) a quelle che ha oggi.

Sembriamo tutti e quattro quello che effettivamente eravamo: turisti perfetti, con tutti gli accessori giusti per quegli anni. La fotocamera, la cartina, la borsa a tracolla, la sigaretta del papa' al centro, come il suo sorriso, insieme con quello della mamma e al mio appena appena accennato.

Insomma, se mai avessimo avuto bisogno di qualche altra prova, adesso ce l'abbiamo: siamo stati una bella famiglia, come tante altre, ovvio, ma dotate di quella straordinaria normalita' che prima o poi, da adulti, finisce per mancarci come l'aria.

Fino agli anni dell'universita', per dire, io personalmente non avevo idea che potessero esserci famiglie infelici e, pensando ai problemi della nostra, ho realizzato solo molto tardi quanto fossero veramente risibili.

E non sto parlando solo dell'aspetto economico che pure, certo, ha contato assai.
Due genitori che lavorano permettono ai figli una sicurezza davvero miracolosa pure di tipo interiore.

Piu' importante ancora e' stata la sicurezza psicologica e morale nella quale siamo vissute fino a pochissimo tempo fa. Fino alla malattia della mamma, voglio dire.

Solo due anni fa e poco piu', voglio dire, non sono stata del tutto consapevole (parlo solo per me, non so se mia sorella la vede esattamente allo stesso modo) di quanto io abbia ricevuto, praticamente tutta la vita.

Adesso, invece, so che sto ancora ricevendo; ho potuto verificarlo in questi giorni di vacanza, proprio quelli che dovevano essere i piu' tristi, che invece sono diventati i piu' maledettamente belli mai vissuti finora.

Al miracolo ha contribuito anche l'autore di questa fotografia che ringrazio di nuovo dal piu' profondo del mio cuore.
Al resto hanno pensato i miei zii e i miei cugini, che ci hanno letteralmente rimpinzato di cibo e di calore.

Sentirsi vivi e amati e' un privilegio.
Ma per arrivare ad averlo non bisogna avere paura di vivere e di amare noi per primi.
Cerchero' il piu' possibile di non dimenticarlo mai.

Se potete, fatelo anche voi.
Buon Anno a tutti.


giovedì 11 dicembre 2014

Il cuore spezzato e la telefilm-terapia

La grandissima Tyne Daly, alias Maxine Gray nel telefilm Judging Amy

Tornata a Fermo da poche ore, mi sembra di essere al confino dorato più del solito.
Ho lasciato mio padre in buona compagnia, per cui non dovrei (teoricamente) sentirmi in colpa.
Come già successo a maggio, però, ho accumulato diversi miei vestiti, biancheria compresa, nel mio angusto cassetto di ragazza e comincio a non sapere più con precisione di cos'altro avrò bisogno quando tornerò di nuovo a Chieti.
Lo dicevo alla mia cara amica Annalisa giusto qualche settimana fa, rubando la frase, a dirla tutta, a mia sorella.

Ho il cuore spezzato in due, un pezzo qui e un pezzo laggiù, con tutto quello che ciò comporta.
Ho i ricordi a metà, le prospettive di vita a metà e pure i sogni.

Riuscirò a comprare la casa a Porto San Giorgio? O devo comprarla a Chieti?
Continuerò a fare, con più profitto di adesso, il lavoro che ho cominciato a inseguire a 22 anni, o finirò per trovare qualcos'altro, qualunque cosa sia questo altro?
E dove lo troverò, se mai lo troverò?

Alla maggioranza di noi capitano periodi del genere: so benissimo di non essere particolarmente speciale.
I genitori invecchiano, anche noi invecchiamo e vi assicuro che ancora non riesco a credere di essere ogni giorno più vicina ai 44.

Sono costretta a vivere come una fanciulla e come tale sogno e mi lascio andare a questa strana paralisi degli affetti, pronta, questo sì, a scongelarmi al primo segnale di vita nuova che dovesse arrivare.

Lo faccio piagnucolando (ma poco poco) davanti alle ultime puntate del Giudice Amy, in cui la protagonista scopre di essere incinta a quasi 40 anni e discute con la madre di cosa debba fare.
Adoro le risposte che le dà quest'ultima, così coraggiose e aperte.

Mi piace quando la rimprovera dandole della viziata incasinata, anche perché Amy non se la prende e va avanti e se sbaglia, lo fa senza lagnarsi.

In quel telefilm ritrovo il rapporto che ho avuto per lungo tempo con mia madre, bruscamente interrotto con la scoperta della sua malattia.
Da allora ho cominciato a proteggerla, anche da me stessa e dal mio cuore diviso.

Perché spezzata lo ero anche prima che mia madre si ammalasse, incapace come sono stata per tutti questi anni di trovare davvero il mio posto nel mondo.

C'è, in questo esilio dorato, qualcosa che ha funzionato.
L'ingresso nella mia vita dei due quattrozampe, per esempio, e la palestra-balsamo per il mio corpo e il mio cervello tormentato.

Ci sono alcune persone importanti che non avrei mai incontrato se non fossi venuta qui e anche alcune situazioni che ho vissuto piuttosto stimolanti.

Il mio cuore, però, è rimasto spezzato. Incapace di ricomporsi da solo, bisognoso di consigli e di stritolamenti, forse, che la solitudine non ha favorito.

Non sono speciale, ma sì, però sono consapevole di essere piuttosto esigente, come i personaggi di Amy e di Maxine, e come prima di loro la mitica, favolosa, Lorelai Gilmore.

Negli ultimi anni di questo lungo, esistenziale, spaesamento, insomma, mi sono curata spesso così: guardando telefilm e immedesimandomi come una idiota nei miei favourite characters.

Avrei voluto parlare ancora a cuore aperto con mia madre, continuando a mostrarle la donna (incasinata ma vera) che sono diventata.

L'ho fatto al cimitero la scorsa settimana e per tutta risposta mi si è rotto il telefonino giusto mentre stavo uscendo da lì.
Ho perso la foto che avevo associato al suo numero, ma non quella che fa da sfondo pure sul nuovo apparecchio, identico al precedente.

Non ho capito bene se ho ricevuto un segno, come nel simpatico film Magic in the moonlight visto domenica scorsa, ma in ogni caso, nel rimemorizzare i numeri che per fortuna avevo ancora sull'altro telefono, sono stata indotta a un'ulteriore selezione tra l'utile e il superfluo.

Se messaggio c'era, era indirizzato verso la semplificazione.
E io ho semplificato, come faccio sempre quando sono più lucida.

Però la confusione non è una buona consigliera e neanche le spaccature del cuore.

Che cosa faresti tu, mamma?
Da dove devo ripartire con la mia vita?

Per quanto possibile, cercherò di non escludere mio padre dai cambiamenti che verranno. Tenterò di non proteggerlo oltre il necessario, come ho fatto oggi ripartendo.

Tu me l'avresti consigliato, su questo sono sicura.

lunedì 24 novembre 2014

Le attese (e i telefilm) del cuore


Ispirata dal doodle di google di oggi, rubo questo magnifico ritratto di Henri de Tolouse Lautrec, alto 131 centimetri (vicino a lui mi sarei sentita una gigantessa... lasciamo perdere). Non lo conoscevo, lo trovo veramente bellissimo.

Sono in attesa di avere notizie da mio padre, secondo i miei calcoli ancora in ballo tra i reparti.
Sembra, ma lo dico pianissimo, che stavolta abbiamo incontrato personale medico di altra pasta, compresa, tra l'altro, la giovane dottoressa albanese, a mio personale avviso incrociata sul nostro cammino come risarcimento per la precedente non proprio positiva conoscenza.

E comunque sia, ci riflettevo giusto in questi giorni.
Il mio cuore è cambiato. Ho sempre abbastanza terrore di ospedali, malattie e disgrazie varie, ma mi sono ritrovata a percorrere i corridoi del grand hotel della salute teatina (si fa per dire, ovviamente) con molta maggiore leggerezza di quella che mi sarei aspettata.
Che dire? Speriamo bene.

Quando avrò un po' più di tempo, scriverò dell'altro, non di specifico su questa faccenda.
Vorrei raccontarvi, per esempio, del telefilm, vecchio naturalmente, che sto seguendo in questo periodo su Giallo.
Parlo del Giudice Amy, Judging Amy in English, nel quale, tolti i buoni sentimenti tipicamente americani, ho trovato un molto verosimile rapporto madre-figlia che mi ha allargato quel muscolo di cui sopra.

Mi piacciono moltissimo gli scambi tra le due attrici, Tyne Daly (la madre) e Amy Brenneman (la figlia). Leggiucchiando qua e là in rete, ho scoperto che la figura del giudice incarnata dalla riccia Amy si ispira alla sua madre vera. E la cosa, immaginerete, me l'ha resa ancora più simpatica.

Insomma: ci tornerò su.
Sotto vi linko un breve frammento del trailer iniziale, ovviamente in English (quanto mi piace fingere di saperlo):




See you later, friends.

lunedì 17 novembre 2014

Firmo tutto... triste epilogo dell'affaire trattamento tricologico



E alla fine la verità, triste y solitaria, è venuta fuori: avevo effettivamente sottoscritto un contratto di finanziamento. Se sono qui a scriverlo, peraltro, è solo per un motivo: distogliere eventuali signore, affette come me dalla sindrome della firma facile, dal commettere il mio stesso errore.

Inutile ripercorrere le tappe dell'intera vicenda.
Vi dico solo che il mio cugino avvocato, alla fine, è riuscito a farsi mandare la metà mancante del contratto che credevo consistesse nell'unico foglio in mio possesso.

Vagamente mi pareva, in effetti, di aver messo più firme (sono come Totò-Della Buffas in Totò Tarzan o come Ciampi Azeglio ai tempi del suo mandato da Presidente della Repubblica), ma a me era rimasta quell'unica copia carbone, peraltro assai difficile da scannerizzare.

Sulla base della sola carta in mio possesso, l'avvocato affine ha tentato di liberarmi dall'inghippo sostenendo che io nulla avessi a che fare con la Cofidis, ossia la società finanziaria che mi ha tampinato nei mesi scorsi, servendosi anche di poco simpatici recuperatori del credito.

Purtroppo, però, io avevo eccome a che fare con loro.
Lo prova il contratto che la Finanziaria in perzona perzonalmenti, alla fine, gli ha spedito via mail.
Questo è successo tipo lunedì scorso. Benché, peraltro, mio cugino me l'avesse girato subito, io ho realizzato l'enorme gravità della cazzata commessa solo sabato scorso, a casa di mia zia.

Ve lo giuro, non potevo credere ai miei occhi: in quel foglio, stampato per bene, in un bianco e nero contrastato come si deve, c'era scritto non solo che avevo fatto richiesta di finanziamento per il ciclo di trattamento tricologico da fare in parte a casa in parte dalla mia (ex) parrucchiera, ma soprattutto che per ottenerlo mi appellavo alla generosità della già citata finanziaria affinché mi rilasciasse il suddetto finanziamento, dichiarando un reddito mensile netto di ben 1.740 euro, garantitomi da un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

A tempo indeterminato c'è solo il mio incommensurabile scuorno.
Di quel foglio, comunque, non avevo traccia alcuna nella mia memoria, il che dimostra solo una cosa: siamo parecchio suggestionabili.

Perché vedete: io, in quel negozio di coiffeur, mi sentivo protetta. L'ambiente giovane, la parrucchiera simpatica, i discorsi leggeri, in questi anni non esattamente facili, mi hanno sollevato alquanto.

Pur andando di rado a farmi i capelli, quando prenotavo il taglio o i colpi di sole, ero contenta. Sapevo infatti che avrei trascorso un paio d'ore in una bolla calda-umida, compiacendomi delle mie patetiche battute e del tentativo di sentirmi normale.

Magari prendessi 1.740 euro al mese, netti. Magari avessi potuto spendere a cuor leggero i 1.500 euro del finanziamento che mi è stato gentilmente concesso sulla base di una dichiarazione mendace, di cui, ahimè, non sono stata consapevole fino allo scorso sabato.

Tornando, ancora sotto shock, a casa dei miei genitori, mi è tornato in mente un dettaglio: quel foglio, stando alla rappresentante della Tricomef che mi ha così carinamente convinta a sottopormi alle loro solerti cure, sarebbe stato un semplice pro-forma. Ed è anche probabile che la bionda mesciata signorina ne fosse effettivamente certa. Perché, d'altra parte, se io mi fossi effettivamente servita dei loro prodotti, mai sarei venuta a scoprire il per me arcano mondo delle finanziarie e del recupero crediti.

Nella parte di contratto che non mi avevano rilasciato c'era infatti scritto che era mio diritto farne richiesta. Il problema è che io l'avevo completamente cancellato dal mio cervello troppo concentrato su ben altro.

Insomma, l'affaire tricologico si risolve con un bel 1.500 a zero per la sottoscritta.
Sembra, tuttavia, che mio cugino sia almeno riuscito a strappare la possibilità di rateizzare il mio debito in tre tranche, come ho richiesto io stessa.

Voi direte: perché vuoi affrettarti a pagare?
Perché sì.
Perché ogni giorno in più che trascorro appresso a questa sciocca rogna che mi sono auto-procurata, m'impedisce di archiviare i momenti più bui vissuti appena l'altro ieri.

Perché quando guardo l'unico kit che ho ritirato dalla mia ex parrucchiera, non posso fare a meno di pensare agli ultimi giorni di mia mamma, quando parlavo di questa inutile storia a qualche parente e lei, guardandomi dal suo letto d'ospedale, che ho tanto odiato e che ogni tanto mi riaffiora davanti agli occhi, con la fronte corrugata e gli occhi già un po' assenti, se n'è uscita con "non ho capito niente", che io ho interpretato come un "ma perché diavolo parli di questa cazzata qui davanti a me che sto così male?".

Non dovevo perderci così tanto tempo, insomma.
Quindi pago e zitta.

Ma ve lo assicuro: non firmerò mai più niente.
E se troviamo casa, prima faccio leggere tutto a mio cugino. E poi, forse, firmo.

Promesso, cari genitori.
Non farò più come quando, a diciott'anni o poco più, vi ho abbonati a Euroclub, un altro episodio che avevo rimosso e che mi è stato crudelmente risvegliato dalla mia amica Annalisa sempre il sabato appena passato.

E però ribadisco: che firmiate o meno facilmente come me, non siate mai troppo sicuri di voi stessi, prima ancora che degli altri.
Da parte mia dovrei aver imparato la lezione.

Era ora.

giovedì 13 novembre 2014

Donatella Di Pietrantonio a Fermo: un miracolo destinato a sedimentare


Io credo nei miracoli che la gente può fare, canta Cristina Donà nel penultimo album: del suo pezzo ho sentito qualche settimana fa la versione acustica con kazoo, uno strumento che ho imparato a conoscere e amare con il "mio" Maestro astigiano.
Più di qualcuno mi ha accusato di essere un po' buonista, anche se in genere me lo hanno detto in tono scherzoso.

Sapete che vi dico? A volte vorrei esserlo davvero: solo così potrei, forse, risparmiarmi questa continua alternanza di speranza e disillusione.

E in ogni caso io ai miracoli ci credo per davvero.
Esattamente come canta Cristina, quelli migliori vengono proprio dalla gente che tanto ci spaventa.
Dalla medesima, certo, possono arrivare anche discrete batoste, ma che bisogno c'è di ribadirlo ogni volta?

Quel che ho vissuto sabato scorso al Centro San Rocco di Fermo, per dire, è un esempio del tipo uno (più zuccheroso del diabete).
In un luogo nel quale normalmente mi sentirei a disagio, ho invece vissuto momenti di infinita armonia. Il merito è tutto di Guglielmina Rogante, la mia cara amica professoressa-ricercatrice che fa parte del centro culturale fermano.
E' stata lei a propormi di dialogare con Donatella Di Pietrantonio, la scrittrice abruzzese che ho conosciuto due anni chiamata (letteralmente) dal suo esordio nel romanzo, Mia madre è un fiume, trovato per caso in una libreria di Pescara.

Davanti a una platea attenta, in una sorta di trance concentrato, ho posto le mie domande a Donatella, favorita grandemente dall'introduzione di Guglielmina, che con la sua consueta (per me e per chi ha avuto occasione di ascoltarla) preparazione e sensibilità, è riuscita a cogliere diversi aspetti della produzione letteraria della scrittrice nativa di Arsita, nel Teramano, ma da anni residente a Penne, un incantevole borgo del Pescarese, predisponendo quest'ultima al confronto aperto e sentito che poi ha avuto seguito.

Tra le osservazioni di Guglielmina mi ero annotata, forse per dominare un po' la mia ansia, le seguenti parole: "lingua che non si autocompiace", "sguardo femminile", il terremoto aquilano come "metafora di tutti i crolli"; e poi ancora "evoluzione impercettibile dei sentimenti dei protagonisti" con conseguente "metamorfosi interiore di tutti i personaggi".
Il tutto era riferito non solo al primo romanzo, evidentemente, ma anche a Bella mia, il secondo dedicato all'Aquila e alle lacerazioni soprattutto interiori che tuttora albergano nei cittadini del capoluogo abruzzese a distanza di quasi sei anni dal sisma.

Di Donatella Di Pietrantonio Guglielmina riconosceva poi la sua appartenenza fortissima all'Abruzzo, nella lingua "pietrosa" e nell'attenzione quasi inconscia alla memoria collettiva della sua gente: una gente dedita alla cura della terra e alla pastorizia, rimasta in massima parte povera per millenni, oggi strappata a quei ritmi antichi da una globalizzazione forse ancora più disorientante.

Come si riemerge dal lutto, interiore e sociale, sembra chiedersi pagina dopo pagina Donatella?
Quando si comincia davvero a farlo, le ho chiesto a mia volta a un certo punto del nostro dialogo?

Donatella lo ha mostrato con precisione in entrambi i romanzi.
Ho trovato davvero illuminante quando, riferendosi al primo, lo fissa in quell' "adesso basta", che pronuncerebbe dentro di sé l'io narrante, la figlia di Esperina Viola, colei che deve accettare, volente o nolente, di non essere stata sufficientemente amata dalla madre che ormai le si presenta come un albero secco sotto la cui ombra non si può più giustificare.

E ho in cuor mio ringraziato moltissimo Donatella quando ha esposto pubblicamente il rovescio della medaglia di ogni amore, persino di quello verso i figli. Non c'è alcun "ti amo" che non nasconda anche un "ti odio", ha detto proprio la scrittrice. Ed è solo oggettivando i nostri sentimenti, pure i più crudeli, che possiamo cominciare a guarire.

Non ha, tra l'altro, neanche avuto paura di confessare i suoi lunghi anni di analisi: per lei sono stati anzi fondamentali per imparare a scrivere per davvero.

E io credo che abbia proprio ragione: la rabbia, per esempio, va riconosciuta, va per l'appunto "oggettivata" in qualche maniera, per poterla raccontare.
In parte, mi è successo così quando ho narrato su questo blog del terribile incubo ospedaliero.
Temo però di non essere ancora del tutto guarita: ogni tanto, mi sveglio nel cuore della notte, e mi ricordo di tutto.

Mi ha molto sollevato, pensandoci per un breve flash, durante l'incontro di sabato scorso, sentire dalla bocca di Donatella la definizione che Ennio Flaiano, altro grande abruzzese, benché emigrato nella capitale, dava del medico contemporaneo, da lui chiamato "il cretino specializzato".

E mi ha emozionato alquanto percepire l'imbarazzo che la scrittrice sottolineava di aver provato nel presentare la sua storia aquilana nella città ferita. Chi sono io, si è detta, per parlare di un dolore che non ho vissuto direttamente?

Ed è esattamente per questo motivo che bisognerebbe sempre pesare le proprie parole, soprattutto quando presuppongono un pubblico.
Chi scrive per mestiere ha una grande responsabilità, insomma. E anche chi lavora con il dolore altrui.

Per tutte queste ragioni, sono davvero contenta del miracolo di un incontro destinato a sedimentare.
Sono certa che mia mamma, con me nella gonna che indossavo e non solo in quella, è stata felice per me.

Alla prossima, belle donne.
:-)

domenica 9 novembre 2014

I nipoti, i fratelli Dalton e il senso della meraviglia



Nell'estate più desolante che abbia finora vissuto, ho fortunatamente passato qualche giornata in compagnia dei nipoti. Le più belle (oltre che le più faticose) sono state quelle in cui ho esercitato in maniera ufficiale il mio ruolo di zia.

Non erano mai stati fuori casa senza entrambi i genitori: se l'avessi realizzato prima di accettare di ospitarli qui sulla torre fermana, probabilmente mi sarei fatta cogliere da una smisurata ansia da prestazione. Avrei comunque acconsentito, questo sì, ma non mi sarei fatta così entusiasticamente travolgere.

A farne le spese, è stato principalmente lo zio Bipede, che dopo una mattinata di tuffi pazzi, si è ritrovato con la schiena bloccata. Io invece ho dosato meglio le energie, arrivando ancora intera, pure se un tantino ammaccata (soprattutto internamente) alla fine della loro trasferta in terra marchigiana.

A pranzo e a cena, gli unici momenti di pausa: davanti ai Dalton, i cartoni tratti dalla saga di Lucky Luke che mandano a ripetizione su uno dei canali satellitari dedicati all'infanzia.
Non sono mai riuscita a guardarne un episodio per intero, né durante la loro vacanza qui da me, né a Francavilla. La tv accesa sui quattro fratelli galeotti, disegnati in scala, come le canne di un organo (come ha giustamente osservato il mio cognato tedesco), è infatti stata utilizzata da mia sorella innanzitutto, ma alla fin fine un po' da tutti gli adulti (ahimè la maggioranza) di famiglia per drogarli un po'. E zittirli.

Durante le mezz'ore di Dalton, come succedeva negli anni passati con i Barbapapà, le Banane e qualche altro cartone, genitori, nonni (quest'anno solo il nonno) e zii ne approfittavano per sparecchiare, lavare i piatti. E per chiacchierare di argomenti non strettamente legati al meraviglioso, quanto totalizzante, mondo under 10. 
Salvo essere di tanto in tanto esortati, con un certo tono di rimprovero, ad abbassare la voce dai suddetti principini stravaccati in poltrona con occhi a palla e telecomando sotto i dolci (e insabbiati) piedi.

Sia come sia, quei pochi frammenti dei Dalton che ero riuscita a cogliere mi erano piaciuti assai.
Finalmente, mi dicevo tra me e me, un cartone non buonista, non melenso come quelli che propinano alla femmine, persino un pochino rude, all'inglese maniera.

Dentro di me, insomma, mi sentivo orgogliosa di quei due, le facce vispe nonostante l'ipnosi catodica.
E alla fine ho gettato la maschera. Mettendomi pure io a guardare i Dalton.

E' successo domenica scorsa, a casa dei miei genitori. 
Sibillinamente, dopo colazione, il nipote maggiore ha cominciato a parlarmi del blues scoperto con la madre durante i giorni di influenza che aveva appena passato.

Si trattava, mi raccontava J., della sigla di apertura di un cartone scoperto per caso su Youtube. Voleva a tutti i costi farmelo vedere, idem il fratellino D., una teppa con due occhioni marroni grossi come castagne.

E così abbiamo fatto. 
Avremmo dovuto limitarci alla sigla. E invece.

Non ho mai riso così sinceramente davanti a loro
Ignoravo che si trattasse di un lungometraggio realizzato nel 1978, durante gli anni della mia infanzia. La sceneggiatura è di René Goscinny, lo stesso di Asterix, dai miei nipoti amatissimo, indottrinati in questo dal padre, grande cultore del Gallo più simpatico che c'è.

Guardatelo, quando avete un po' di calma, e lasciatevi conquistare dalla storia. 
Io l'ho fatto spontaneamente ed è stato davvero un regalo grandissimo che poteva venire solo dai bambini. Dai miei nipoti, in particolare, certo, ma quel che voglio dire è un'altra cosa.

Invecchiando, ci si stupisce sempre meno, senza accorgersene.
Per indole amo entusiasmarmi e quando passo troppi giorni, mesi addirittura, senza provare meraviglia per qualcosa, mi sembra di spegnermi.

Chi ha a che fare con i bambini, insomma, ha più occasioni di non smarrire questo senso della meraviglia, che forse potremmo considerare come il settimo senso, il più vitale di tutti. 

Per questo, forse, mia mamma amava così tanto il suo lavoro di maestra. 
Oltre la cretina burocrazia, oltre l'imbarbarimento del sistema nazionale d'istruzione, restano loro, i bambini, così pieni di futuro, l'unico dal quale si può attendere qualche cambiamento.

Non tutti i bambini sono uguali, certo. Qualcuno già mostra i segni dello stronzo che diventerà, ma si può imparare qualcosa pure dal bullo di turno. Ed è una grande responsabilità occuparsi proprio di quest'ultimo.

Con J. e D., per certi versi, è proprio facile entrare in sintonia.
E però bisogna stare attenti. E, per esempio, non nascondere (troppo) chi si è, i propri limiti e i propri dolori. In questo il nonno è più bravo di me. Noto che i nipoti lo amano, anche quando quest'ultimo li rimprovera. 

E poi, certo, bisogna educarli.  
E insegnare che non si dice idiota a tutti, come fanno ogni due per tre i fratelli galeotti.

E però, sotto sotto, un sacco di volte c'hanno ragione loro... solo che non glielo si può dire.

Buona visione, amici.

mercoledì 5 novembre 2014

Tempus fugit, ma finché c'è vita...




Purtroppo non riesco a trovare la scena di Totò che gira per agenzie alla ricerca di alloggio, per cui rimedio con questa.
Tra gli appartamenti che ci avevano proposto, ce n'era effettivamente uno che si affacciava sul camposanto.

E vabbè.
L'appartamento di cui ho parlato ieri è saltato: pare che il secondo agente l'abbia venduta al prezzo più basso, quello che aveva proposto a noi, a un terzo. Mio marito non ci crede: più probabilmente, visto il casino che c'era dietro, ci hanno tagliato fuori. 
Comunque sia andata, è andata.

Nel frattempo il tempo scorre (tempus fugit, è proprio il caso di dirlo), ma siamo ancora vivi. 
Almeno sembra.

Grr.

martedì 4 novembre 2014

AAA, casa cercasi... come Totò



Oggi sono arrabbiata. Arraggiata alla Montalbano.
E quando sono in questo stato rischio di dire qualche corbelleria.
E un sacco di parolacce (che ho effettivamente detto).

A farmi inferocire, ci ha pensato in parte la burocrazia, che detesto con tutta me stessa, in parte le sole che mi auto-infliggo. Firmando.

Come sapete, ho firmato il dannato contratto per il trattamento ai capelli che poi non ho mai fatto (né mai farò), con il risultato che ora sono a un passo dalla causa (se me la fanno loro, eh: perché di certo non gliela intento io. Malaccorta sì, ma non fessa).

Non solo. Ho firmato ancora, stavolta in un'agenzia immobiliare, dove la regola è "prima firmi e ti impegni a concludere eventualmente l'affare con me e poi vedi la casa".

Quell'appartamento aveva "good vibrations": già avevo cominciato a fantasticare su come disporre i nostri scombinatissimi mobili. Perché, comunque, almeno per i primi (e i secondi) tempi, mi dovrò comunque tenere la mobilia raccattata tra casa di mia nonna, dei miei e di mia suocera.
Come ebbe a dirmi una conoscente di queste parti che ormai non frequento più, il nostro arredamento è composto in massima parte da "mobili vecchi".
O, più elegantemente, vintage.

E insomma. Sarei stata ben felice di trasportare tutta la mia roba demodè in sessanta metri quadri (con garage).
Avete presente nei cartoni animati la nuvoletta dell'immaginazione sul tizio che sogna a occhi aperti e di come sparisce, con suono annesso (tipo POUF!) quando poi torna alla dura realtà?
Ecco.

Il giorno appresso vado a vedere tre appartamenti con un'altra agenzia (messaggio subliminale per i miei ipotetici creditori: non avrete neanche un euro dei miei risparmi. Pago tutti, ma non voi) e che succede?
Dopo le prime due autentiche stamberghe, l'agente ci conduce su una strada ridente, in lieve salita, sotto un sole quasi estivo. Da lontano il mare sempre più blu. La riconosco immediatamente, solo che non ci posso credere. No, dico, sarà un altro appartamento sulla stessa via, ma pensa tu la coincidenza.

Era proprio lo stesso. Il secondo agente che ce la mostra, però, ha anche le chiavi del garage. Che non è una piazza d'armi, ma è più che sufficiente per confermarmi nei miei progetti di trasloco (qualche mobile vecchio avrebbe finalmente trovato la sua più consona collocazione. A vantaggio dei pezzi migliori della mia generosa famiglia di provenienza. Ingrata che non sono altro).

Trasecoliamo ulteriormente quando il mediatore chiama il venditore e, mettendocelo in viva voce, gli dice che ha due clienti che potrebbero prendere la casa praticamente subito a... circa quindicimila euro di meno di quelli che ci aveva prospettato il primo  agente.
E quello risponde: "E' andata".

Peccato che io (...) mi sia impegnata formalmente (dimenticavo la fotocopia del documento di identità. Sì, ho fatto anche questo) a concludere EVENTUALMENTE l'affare con quello del giorno prima.

Torniamo a casa, il Bipede ed io, piuttosto disorientati. E mò che succede?
Mi consulto con mio padre, nel fine settimana parlo pure con mio cugino avvocato, quello con il quale a breve andrò in tribunale per via dei miei disgraziati capelli, e niente: tutti mi dicono che una "roba acsè" non l'hanno mai sentita.

Eppure succede anche questa. Garantito.
Quindi?
Beh, per il momento posso solo dirvi che da good le mie vibrations sono diventate very bad.
Anche perché il venditore ha detto al secondo mediatore, che ci ha prospettato un prezzo e una provvigione più bassi che lui, proprio lui, non ne vuole sapere nulla.

Ma come? Chi ha dato l'appartamento a più agenzie? Melilla, o come diavolo si diceva a Chieti una volta?
Oltretutto, scorrendo gli annunci, mio marito ha fatto un'altra scoperta: l'appartamento è proposto pure da una terza agenzia!
Raccontando il casino a una mia cara amica di palestra, consideravo: ma quanti duplicati della chiave circolano in questo momento?

Ripensando, ridendo un po', stamattina al dubbio che le avevo esposto, mi sono così ricordata di Totò cerca casa, il fenomenale film di Monicelli e Steno con Totò nella parte di uno sfollato con moglie e figli.
Prima del tragicomico finale (che non vi rivelo, casomai non l'aveste mai visto), Totò si imbatte in una banda di ladroni che gli vendono, dietro pagamento del milione vinto dalla moglie grazie a un concorso a premi, un lussuoso appartamento che danno in affitto anche a un gruppo di turiste ungheresi, a un commerciante cinese e ai coniugi arabi da Totò già incontrati (scontrati sarebbe più esatto...) in un momento precedente del film.

S'intuisce che la faccenda debba finire a schifìo. Peccato che nel nostro caso non si tratti di un film. Forse. Come scrivo spesso.
Perché certe volte mi sembra davvero che la realtà sia tutto un cinema, non di grande qualità. Esattamente come la maggioranza dei film italiani. E non sto parlando della da me molto amata pellicola con cui apro questo post.
E non ditemi che sono disfattista e che nel paese d' 'o sole e 'o mare si vive sempre bene, perché allora sì che mi arrabbio per davvero.

E comunque, una cosa è certa.
Non firmerò mai più niente.
Anche se si dice che non c'è due senza tre...

AIUTOOOO!

mercoledì 29 ottobre 2014

Paolo Conte e le ore lievi (grigio-celesti) di cui abbiamo bisogno



Giornata grigiastra, com'è piuttosto frequente in questo periodo dell'anno.
L'aggettivo declinato in "stro/a", mi fa sempre pensare a Paolo Conte, come consideravo l'altro giorno con una cara amica del Nord. Nelle parole e negli atteggiamenti di quest'affascinante donna, ci vedo molto del Maestro astigiano, "even though", sebbene, lei e lui abitino in due zone del Settentrione d'Italia molto diverse.

Quanto vorrei andare nell'Astigiano, la terra di nascita dell'avvocato baffuto. Nelle sue canzoni, infatti, oltre agli zzzarazz e alle note alla Duke, ci vedo tanta nebbia ghiacciata e lunghe notti brumose.
Dicevo sempre all'amica contiana nell'anima, che in Snob, il nuovo album dell'amato artista piemontese, non ci sono brani che mi abbiano più di tanto commosso. Il che non significa affatto che non mi sia piaciuto.
Come ho scritto nell'altro post che gli ho di recente dedicato, l'ho solo trovato più leggero, come se l'avvocato, lavorando di gomma, abbia volutamente sfrondato le sue note e le sue parole di tutto ciò che potesse risultare troppo enfatico.

Non siete d'accordo? Pazienza, me ne farò una ragione.
Però, se ci pensate un attimo, prendete, per esempio, Tra le tue braccia, da Nelson, e L'amore che da Psiche. Entrambe, nella costruzione della melodia e nei testi, vorrebbero spingerti a esacerbati sospiri d'amore, seguiti da lacrime di disperazione amara.
In Fandango, invece, quel "non mi guardare, non farmi pensare più a te", assecondato (anzi: affiorato sul) dal tema musicale prescelto, sembra dirci l'esatto contrario.
Basta lacrime, basta lacerazioni del cuore, voltiamo pagina.

Snob, in definitiva, lascia le emozioni forti sullo sfondo, preferendo tinte pastello sfumate, celestino-grigiastre, per l'appunto. Su tutto, mi pare proprio di vedere il sorriso da gatto di Conte, che deve averne viste talmente tante da desiderare solo l'armonia.

Snob è dunque, per me, un disco dispensatore di pace, anche esteriore.
Mi fa sorridere, sognare, a tratti persino ridere.
Tutt'altre sensazioni ho provato al contrario con canzoni come Gioco d'azzardo, Come mi vuoi?, Elegia (una delle più belle scritte dal Maestro) e qualcun'altra.

In Snob ci vedo tracce di Stai seria con la faccia ma però (Wanda, per farla breve), di Via con me, pezzo perfetto e immortale, e pure di un po' di "napule" sabauda che tanto mi diverte.
L'unico brano che, forse, potrebbe alla lunga farmi scendere qualche furtiva lacrima è Tutti a casa, un walzer (almeno penso sia un walzer!) che mi dà una nostalgia per un'Italia che non ho mai vissuto che davvero non saprei spiegare. Parlo dell'Italia dei film di Don Camillo, di Totò, delle cucine povere come quelle di mia nonna, il riscaldamento precario (come il mio di adesso...) e cose così.

C'è infine una canzoncina tenera che sembra parlare direttamente alla sottoscritta, come di sicuro penseranno molte signore e signorine innamorate della musica del Nostro.
Parlo, per l'appunto, di Signorina saponetta, allietata dal ticchettio della macchina per scrivere, una Olivetti, come c'è scritto nelle note del disco, chissà se proprio la stessa che aveva anche mio padre, sulla quale mi dilettavo da bambina.

Anche in quel caso niente lacrime, solo occhi che si illuminano, alla Amelie che, ahimè, sono stata per davvero.
Che cos'altro posso aggiungere?
Meno male che ci sei, Maestro.
Di ore lievi abbiamo bisogno. Di evasioni innocenti pure (Battisti era un altro che la sapeva lunga).
Per sopportare meglio le pesantezze del tempo, troppo spesso privo di "ore inglesi".

Di nuovo buon ascolto, amici.

giovedì 23 ottobre 2014

Affidarsi alla vita, oltre il dolore: parola di Simona Atzori




A un certo punto bisogna lasciarsi andare alla vita, che racchiude anche la morte, inevitabilmente.
Sono certa che mia mamma sarebbe stata d'accordo.
Spero un giorno di riuscire ad andare oltre la rabbia che ancora, a tratti, mi fa vibrare.

Conoscere, seppur solo virtualmente, Simona Atzori è stato in ogni caso un bel dono.
Prima di parlarci era un po' sospettosa: come si fa a condividere una perdita così, mi domandavo.
E invece, parlandoci e vedendola negli incontri pubblici caricati in Rete (oltre che guardandola ballare), mi sono resa conto che la sua è un'energia autentica.

Ognuno ha la sua, come Simona sa perfettamente, ed è proprio il rispetto in se stessi che la ballerina-coreografa orfana della mamma che ha contribuito a renderla ancora più in gamba di quanto, forse, non sarebbe stata comunque, riesce a suscitare in chi la ascolta.

Non sapevo che cosa fosse il coaching motivazionale: quello che pratica lei, ad ogni modo, mi piace.

Il mio grazie è insomma sincero, più di quanto possa sembrare dall'intervista, per forza di cose dal tono un po' più istituzionale di quello che adopero qui.

Finché abbiamo sangue pulsante non rinunciamo a vivere. Chi se n'è già andato non ce lo perdonerebbe mai.
Supererò la rabbia.
O comunque la incanalerò in qualcosa di positivo.

Buoni giorni, amici.

lunedì 20 ottobre 2014

L'energia vitale di mia mamma e l'intelligenza di Cristina Donà


Mio padre non mi ha riconosciuta. L'ha guardata, piccina e scuretta tra le mie dita, e ha detto: "e chi è?". Ma come chi è?
A mia madre non sarebbe mai successo.
Ho ritrovato questa fotografia in un porta-gioie sepolto in fondo all'armadio, sotto i suoi vestiti che dovevo selezionare.
Confesso di aver provato più ansia che dolore: man mano che soppesavo fogge e modelli degli abiti più vecchi di mia mamma, mi sentivo quasi come un addetto qualunque del Mercatino, alla ricerca di eventuali falle nelle stoffe.

E poi c'è stato anche un momento divertente: accanto al porta-gioie bianco avorio, lavorato come un ciocco di legno intagliato, c'era una busta rossa rettangolare, di quelle che un tempo contenevano gli Lp. La prendo, convinta di trovarvi per l'appunto qualche vecchio 33 giri dei miei. E invece no.
Apro la scatola quadrata bassa, dalla copertina rigida, e chi ti rivedo? Juan Del Diablo, alias Palomo-qualcosa, l'attore della celebre soap opera Cuore Selvaggio, da mia madre amatissima. Raffigurato in pose vagamente sexy, una per ogni mese dell'anno 1995, il capelluto attore prematuramente scomparso mi ha strappato un sorriso.
La scatola conteneva anche un cd di sue canzoni, che il giorno dopo ho fatto partire dal computer di mio padre. Sentendo la musica, quest'ultimo è venuto a vedere: "che stai a fà"', mi ha chiesto.
Gliel'ho spiegato.
Ho buttato il calendario, ma non il cd.

Nel 1995 mia mamma aveva 53 anni: da come me la ricordo io, pensando almeno a una foto di tre anni prima che ho ritrovato per caso non rammento più dove negli ultimi mesi della sua vita, aveva pochissime rughe sul suo viso magro e allegro.
Forse proprio per questo motivo, chissà, ai tempi di Cuore Selvaggio sognava ancora l'amore romantico, forse pure la passione, nutrito anche da una grande attrazione per i paesaggi esotici e colorati.
Ricordo che quasi per giustificarsi della sua simpatia per Juan e per la storia con la sua amante fedifraga, mi diceva con foga che le piacevano moltissimo le ambientazioni: il Messico doveva apparirle una specie di Eden dei desideri perduti.
Forse proprio in quel periodo, ma non ne sono certa, le regalammo anche un dizionario di spagnolo o forse un manuale.
Molti anni dopo, dopo l'avvento del satellite, aveva preso l'abitudine di guardare le soap direttamente in spagnolo. Orgogliosa, mi diceva di aver imparato anche qualche "parolina".

Proprio gli ultimi mesi le ho dato in prestito il mio manuale di John Peter Sloan e insieme abbiamo fatto anche qualche esercizio.
Era malinconica, mia mamma, e anche un po' bambina.
E profondamente innamorata di noi figlie.

Rivedermi in quella foto-tessera così gelosamente conservata in fondo all'armadio, in mezzo a strani e disparati oggetti (la chiave di una camera, non so quale, un anello spezzato, dei bottoni spaiati), affianco al calendario di Palomo, mi ha intenerito profondamente.

Non ho pianto: le uniche lacrime che stavo cominciando a versare sono state ricacciate indietro dalla telefonata di mia zia. In quel momento stavo guardando un altro porta-gioie, quello sul comò nel quale io stessa ho depositato la sua fede e il suo orologio, accanto a un'altra foto-tessera, sempre vecchia, stavolta di mio padre, e bigiotteria varia.
Scavando, ho tirato fuori una strisciolina di carta di giornale su cui c'era scritto "Santurbano senza rivali". Ho sorriso pure lì. Non ho invece potuto trattenere la tristezza davanti all'aggiunta a pennarello di mia mamma sulla sua "intelligenza sopraffina". Scherzava spesso in questo modo con mio padre.
La telefonata è sopraggiunta proprio in quel momento, per cui niente pianto, giusto qualche lacrima sugli occhiali.

Stamattina ho riascoltato la mia telefonata con Simona Atzori, la ballerina dalle braccia rimaste in cielo, come aveva scritto Candido Cannavò, la quale ha dedicato il suo secondo libro, intitolato Dopo di te, alla mamma scomparsa quasi due anni fa.
Tra le cose intelligenti che mi ha detto c'è proprio la questione della durata del lutto, delle ondate che lo compongono, ciascuna con modalità e tempi differenti per ognuno di noi.
Oggi pomeriggio dovrò scriverla, ma prima di fissare sulla carta il suo percorso, verso cui provo grandissimo rispetto, ho sentito forte l'urgenza di ripassare di qua e fissare quel momento, uno dei tanti che stanno segnando il mio "dopo di te".

Ieri sera ho assistito al bellissimo concerto di Cristina Donà e Saverio Lanza nel teatro comunale di San Ginesio, e la mia mente è corsa a lei, che ha fatto in tempo a vedere la sintesi dello spettacolo di Massimo dedicato a Enzo Tortora, tenutosi la scorsa primavera nel medesimo luogo. Il suo entusiasmo commosso mi aveva, adesso posso ammetterlo, un po' sorpreso, conoscendo la sua scarsa propensione a lasciarsi andare alle emozioni più forti.

Eppure, nel suo intimo, amava eccome il coinvolgimento forte: altrimenti non avrebbe conservato per così tanti anni Juan Del Diablo. E anche me, in quella fotina bellissima, come possono essere solo i bambini.

Era dolce, mia mamma, oltre che molto aspra, quando voleva esserlo.
Era viva, era generosa, e attraversata da forti, fortissimi sentimenti.
Possedeva un'energia vitale che penso di aver ricevuto in eredità.
L'energia di cui parla Cristina nelle sue canzoni, quella che ci mette nell'interpretarle, donandosi (letteralmente) al pubblico con grande intelligenza.
Solo chi ha molto sale in zucca e forti ideali, voglio dire, è in grado di svelarsi nascondendosi.
Ed è forse questo il segreto del fascino vero, di quello che vince il tempo, molto più di una buona crema anti-rughe.

Ringrazio molto la vita per avermi dato una madre così e un gusto, posso dirlo, non facile da accontentare.
Ringrazio Cristina e il suo partner musicale per avermi mostrato concretamente che cosa significhi fare bene, molto bene, quello per cui si è nati.
Anche mia mamma è stata un'ottima maestra. Ed è una gran cosa essere sua figlia.


Ciao, mamma.

mercoledì 15 ottobre 2014

Paolo Conte e la magia che si rinnova. Crescendo ancora

Gli anticorpi non collaborano, ma cerco di non pensarci concentrandomi piuttosto su ciò che di bello mi è successo non meno di ventiquattr'ore fa.
Sotto il piatto rovesciato della cena ho trovato Snob, l'ultimo album del Maestro Paolo Conte.
A regalarmelo, naturalmente, il suo omonimo fumatore di pipa, che ha così facendo anticipato l'acquisto che già aveva in mente di fare per me. E' riuscito a sorprendermi: anzi, sono riusciti a sorprendermi entrambi.

Perché se è vero che nel nuovo disco dell'avvocato astigiano si trova, inevitabilmente, l'eco di sue canzoni e pezzi del passato (le parentesi mi contraddistinguono: non potrei smettere di usarle neanche volendo, come Conte con il kazoo e le sue note sgangherate alla Duke Ellington), in Snob ho trovato anche una freschezza tutta nuova, che per esempio non c'era in Nelson, uscito a troppa pochissima distanza dalla scomparsa di Renzo Fantini, grande amico e mentore del Nostro.

Molto originale è per dire l'impostazione del brano che dà il titolo all'intero album, che vola via in soli 49 minuti e una manciata di secondi: la melodia è malinconica, francese come solo un italiano savoiardo (all'incirca!) può essere, ma le parole sono sottilmente, sfacciatamente, ironiche.
Quanto si deve essere divertito a giocare con i suoi stilemi più conosciuti: l'amore che muore, il tinello marron e l'italiano che non parla il tedesco, tornano potenti in questa canzone così apparentemente semplice, poche note cucite con una classe e una sapienza da capo indiano che mi hanno davvero scaldato il cuore.

Seduta sul divano rattoppato che tanti momenti ha visto del mio più antico e recente passato, mi sono lasciata andare all'ascolto in cuffia dei quindici pezzi che compongono il nuovo lavoro contiano, alternando brividi, sorrisi interni, sorrisi aperti, battere di piedi e qualche lieto aggrottare di sopracciglia, come solo con lui mi succede.
Avevo quasi scordato che effetto mi fa ascoltarlo. 
Sono successe troppe cose negli ultimi mesi, troppo dolore, troppa rabbia, troppa poca buona vita.

Ieri sera, dopo tanto tempo, mi sono re-innamorata di lui e della sua musica, come nel brano (tra quelli che mi ha richiesto un ascolto più attento) che ha chiamato Gente, che ha per sottotitolo un acronimo che per l'appunto significa "che si innamora di noi".
Mi sono immaginata, leggendone le parole, che sia stato scritto per parlare dei fan, di noi fan, stregati e avvinti come bambini davanti ai cartoon.

Non mi ha richiesto nessuno sforzo, invece, innamorarmi di Fandango, nella sua commovente perfezione. Sono anzi sicura che sarà successo lo stesso a chi segue il Maestro praticamente da sempre.
Mio cognato Massimo Del Papa ha giustamente ricordato che sono ormai quarant'anni che l'avvocato con i baffi da gatto si è trasformato in un cantautore: mi sto sempre più convincendo che la mia nascita giusto agli esordi del decennio più difficile della storia italiana recente (tolto il momento presente, che però non riesco, ovviamente, a comprendere appieno) abbia segnato per sempre anche i miei futuri gusti non solo musicali.

Dovevo incontrare, un giorno, il Maestro astigiano: era scritto nel mio Dna, nelle nebbie abruzzesi così diverse da quelle della pianura padana, ma così simili per il romanticismo sottotraccia che mi si è appiccicato addosso.
Come Conte, sono una provinciale anch'io, abituata a cibi "sostanziosi", come scrive sempre in Snob, a canti "che van bene per soldati e muli", alla presa in giro di chi, di più nobile lignaggio vero o presunto, se la tira, l'unica arma di difesa possibile contro chi sarà sempre più educato e colto di noi.

E chissà se quella nostalgia per anni che non abbiamo mai vissuto non sia stata provocata dall'essere cresciuti in luoghi appartati, eternamente vintage nonostante la globalizzazione, in mezzo a quegli odori di campagna che ogni tanto si fanno largo pure nella piazza principale della città, protetti da quei maglioni blu dei papà ragionieri e le gonne a metà ginocchio delle mamme maestre, coccolati dagli zuccheri saturi dei diplomatici della domenica e delle patatine consumate lungo la strada del ritorno dalla messa con l'amichetta del cuore.

A differenza sua, però, a casa mia non circolava musica jazz, ma molta (non sempre buona) musica italiana. L'omonimo con la pipa mi ha preso in giro per anni per una musicassetta (un nastro, come diceva sempre mio zio Gigi) di Fausto Papetti. Ovviamente, non era mia, ma ne rammento vagamente la copertina, così simile a una delle peggiori, anche per lo stesso Conte, della sua produzione anni Settanta.
Volente o non nolente, insomma, anche sul Maestro sono rimasti attaccati quegli anni là, quelli del suo esordio: ai colori acidi delle Polaroid delle ricorrenze di famiglia, mi riportano diversi brani del nuovo disco, in particolare Glamour, con quel tedesco veramente improbabile e perciò simpatico, poi, almeno in parte, Incontro e soprattutto L'uomo specchio, con quella costruzione del testo presa pari pari dalla Settimana enigmistica.

Non sono in grado di cogliere la maggior parte dei giochi linguistici del Nostro, vista la mia totale imperizia con sciarade e rebus (mentre sono praticamente un asso con i crittografici), ma ho la certezza assoluta che i suoi momenti di relax siano spesso impiegati nella costruzione di calembour e boutade di varia natura.

Me lo figuro mentre ride da solo per qualche invenzione un po' demenziale, mentre si arrotola i baffi ghignando contento.
Immagino che abbia una fantasia immensa e meravigliosa, direi, finalmente, cinematografica.
Ve lo confesso: finora non avevo mai completamente capito perché più di qualcuno abbia attribuito questo aggettivo alla musica di Conte.

Posso dirlo di averlo compreso pienamente solo adesso, con Snob, ascoltando in particolare, tra i pezzi di sapore sudamericano, Argentina e Manuale di conversazione, più che Tropical, la canzone che ha anticipato l'uscita dell'album, e Maracas.

Perché mi sembrano cinematografici? Semplice: perché ho proprio visto, chiaramente, davanti a me, l'autista peruviano di camion che carica l'autostoppista italiana e che alla fine è contento che scenda, non essendo in grado di imbastire neanche la più banale delle conversazioni, e gli italiani emigrati che frustano le scarpe dei ricchi fazenderos, sotto un cielo bianco che fa star male per la nostalgia.

Ha giocato più volte, Paolo Conte, con i ritmi e le suggestioni dell'altro capo dell'Oceano Atlantico, ma soprattutto nella produzione più matura, penso in maniera particolare all'album Elegia, la freschezza di brani come Messico e Nuvole e Sudamerica avevano lasciato il posto alla fatica del vecchio proprietario del Mokambo, che non si rassegna al tempo che non torna più.
Cinematografici anche quei brani, sì, ma in modo triste, quasi tragico, direi.

In Snob, invece, la leggerezza è tornata a spruzzare di amore per la musica tutti e quindici i pezzi, alcuni dei quali, c'è da scommetterci, appartengono a epoche passate, come il ritratto di copertina del Nostro, che pare arrivare direttamente dagli eterni Seventies.

Se non li aveva ancora tirati dal cassetto, evidentemente, non erano ancora maturi: potrà sembrare strano, ma sono assolutamente certa di ciò che sto per scrivere.
A settantasette anni suonati, Paolo Conte è cresciuto ancora, passato com'è da un lutto così serio come la morte del suo sodale Renzo e dalle morti, presumo altrettanto dolorose, di un sacco di persone fondamentali nella sua spero ancora lunghissima esistenza.

Sto parlando anche di me, è evidente, ma la grandezza di Paolo Conte è talmente universale da lasciare davvero disorientati tutti quelli che vorrebbero mettersi lì a cercare di capirlo, fingendo una gravità che il Nostro assolutamente non possiede.

Più invecchia, anzi, più prende in giro. Sé, innanzitutto, e gli altri.
Perché l'unica cosa da prendere sul serio è la musica.
Quella per cui è nato.
Basta solo assistere a un suo concerto, senza paraocchi e abiti sbagliati, per comprenderlo pienamente.
Non vedo l'ora di rivivere quella magia.

Grazie ai Paoli della mia vita.
E buon ascolto a tutti noi.

lunedì 13 ottobre 2014

Il senso delle cose secondo Cristina Donà



Buon ascolto.


E ho capito che mi basta, 
mi basta il tuo nome, 
per far esplodere le rose 
su questo balcone...

Troppo bella.

E tra poco... Paolo Conte!
Meno male la musica.

venerdì 10 ottobre 2014

I libri inutili e i cambi (necessari) di stagione


Il periodo è quello giusto: il cambio di stagione va onorato anche con una bella selezione tra i libri della nostra vita. Finora non ne avevo mai buttato neanche uno, ma ultimamente mi sono resa conto che non c'è niente di più sbagliato (almeno per me) della sacralità imposta.
Chi decide che un libro meriti di essere conservato più di un paio di scarpe o di una spugnetta abrasiva?
Non tutti i libri sono utili. Non tutto, in generale, è veramente indispensabile.

Tornando al tema, alcuni libri, in particolare, mi parlano di periodi morti e sepolti che non ho alcuna voglia di ricordare.

Fino a ieri pomeriggio avevo ancora il raccoglitore contenente il primo anno di numeri della Voce delle Marche. Adesso non ce l'ho più. L'ho lasciato sul bidone della carta, in piedi, aperto.
Chissà se i netturbini l'hanno sfogliato giusto un attimo prima di mandarlo al macero.

Nel novembre di dieci anni fa ho preso i miei primi contatti con Fermo. A inizio 2005 ho cominciato a lavorare nel settimanale diocesano, ormai mitizzato nella mia memoria.
I tre anni successivi sono stati tanto belli quanto dolorosi da rievocare. Ogni volta che ne parlo mi risale una rabbia che non ha più senso.

Perciò era ora che mi privassi di quel raccoglitore. Oltretutto, in cantina staziona ancora la collezione completa che avevo fatto da sola, da brava formichina, numero dopo numero.
Qualcosa mi dice che finirò per buttare anche quella.

Necessito di spazio. Di pulizia disco, quella che non faccio mai sul mio pc, sottoponendolo a sforzi eccessivi. Ogni tanto, infatti, il mio povero portatile va in tilt, esattamente come me.

Anche la casa dei miei genitori ha bisogno di un cambio di stagione. Non sarà facile liberare un po' d'armadio per mio padre, ma lo faccio per lui. E anche per mia mamma che approverebbe.

Quindi, tra poco, parto.
Compiendo un viaggio all'indietro che indietro non è.

mercoledì 1 ottobre 2014

Quando ringiovanirò imparerò a parlare inglese


Ho cominciato a scrivere questo post un po' di settimane fa, ma non ce l'ho fatta a terminarlo, semplicemente perché non sono riuscita a capire tutto il testo di questa bella canzone di Joe Cocker.
Alla fine l'ho cercato su internet, ma almeno, questo sì, non ho avuto bisogno della traduzione in italiano.
Per le canzoni di Mark Knopfler, invece, non ce la faccio proprio: sono davvero complesse. Ieri, per dire, ho riascoltato l'ultimo album (Privateering), mentre facevo la cyclette, ma pur con il libretto davanti, non capivo almeno la metà delle parole. E d'altra parte pure questo è uno stimolo ad andare avanti nello studio dell'inglese

Vi riporto quel che ho capito da sola:


Imparerò a suonare la chitarra blues
Guiderò veloce le auto ...
Salterò dagli aerei in volo
Andrò a cercare Dio e ne diventerò il testimone
Mi guarderò dentro e cercherò di capire 
che cosa penso della vita e di ciò che ho intorno

Quando ringiovanirò (due volte)

Ballerò con i folli e prenderò in giro i re
dirò il meglio sui miei genitori...
...

smetterò di fumare per il mio bene,
cercherò le parole perfette per dire
che cosa amo di più ...


Quando ringiovanirò (due volte)

Ci sono un sacco di cose da fare
dovrò fare di tutto prima di non esserci più


Per il resto, ascoltatela da voi.

E, comunque, più che ringiovanire, si è costretti a fare i giovani.
Poi, da un momento all'altro, trà, ci si ritrova più rugosi di Dorian Gray nello specchio.

E pazienza.

Nel frattempo, ripeto mentalmente il mantra che mi ha insegnato mia sorella.
E il cambiamento arriverà.

martedì 16 settembre 2014

Le fotografie di mia madre e i tratti distintivi del suo carattere


Mia mamma mi ha vista così, credo due anni fa, a giugno. Deduco il periodo dell'anno dal colorito che ho normalmente, prima del breve periodo di rosolatura estiva. Il posto in cui è stata scattata la fotografia mi è molto familiare. E se è crudele passarci tutte le volte, andando e tornando dal mare, lo è stato ancora di più vederlo in immagine.

Ci abbiamo festeggiato così tante riunioni familiari, che dubito che riuscirò a rimetterci piede tanto presto. Anche mio padre sembra pensarla come me, ma d'altra parte poi il tempo passa e ammetto di essere stata contenta che abbia giocato a carte con gli amici della spiaggia, giusto due giorni fa, alla fine di questa estate così triste.

Sfogliando le fotografie scattate da mia madre, però, devo ammettere di aver più volte sorriso.
Abbiamo passato molti momenti felici, naturalmente felici, di quella normalità intima priva di aneddoti rilevanti se non per la stretta cerchia parentale, che tutti meriteremmo di avere.

Guardando i momenti del nostro passato comune resi inconsapevolmente immortali (salvo sbiadirsi negli anni o disperdersi nel cimitero dei byte), capisco ancora di più quanto io sia stata fortunata.
Mi sono rivista mentre giocavo a racchettoni con zio Gigi, mentre prendevo il sole con il quotidiano spaginato sulle ginocchia, con indosso i pigiami vecchi che continuiamo a metterci mia sorella ed io quando andiamo nella nostra casa da ragazze. E poi ho visto gli zii, i cugini, i nipotini prestarsi all'obiettivo con quel misto di ritrosia e vanità che mia mamma stuzzicava sempre quand'era in loro, in nostra, compagnia.

A volte ci fotografavamo vicendevolmente, in un gioco infantile che dava piacere a entrambe.
Ho scovato anche un suo ritratto in cui sfoggiava una parrucca verde fosforescente e sorrideva molto divertita. Ne ho una analoga di me, con un'espressione straordinariamente uguale, solo il colore della parrucca è diverso.

Da lei, credo, di aver preso un po' di spirito canzonatorio.
A fine mese mia zia farà dire una messa dal suo padre spirituale: gli ha passato un po' di parole chiave che vorrebbe che dicesse per ricordarla.
Io ne ho aggiunte due all'elenco per il resto veritiero composto dalla sorella: ironia e fierezza.

Per lo meno, io l'ho vista anche così.

Più passano i giorni e più mi convinco che non avrebbe mai potuto sopportare di diventare un vegetale. Noi avremmo voluto che restasse di più con noi, ma poi, come si dice dei figli, bisogna accettare che le persone che si amano di più prendano altre strade.

Non riesco ancora a provare granché conforto nel saperla sepolta accanto ai suoi genitori, ma al contempo, non posso fare a meno di percorrere il viale di cipressi soffermandomi ad ascoltare il gracchiare dei corvi e di qualche altro uccello a me sconosciuto.

Sei con me, sei con noi, in ogni momento.
Guidaci, se puoi, ancora un po'.
Ciao, mamma. Adesso sono io che vado a guidare: il cambiamento è cominciato dalla macchina nuova. Speriamo che ne arrivino anche altri.

So che tu ci credi. Cercherò di crederci anch'io.

domenica 7 settembre 2014

Più forte del fuoco

Sembra che Cristina Donà, la mia scoperta di questa strana estate (in verità, è merito della mia ex compagna di liceo, Simona, se l'ho conosciuta. L'ho già ringraziata una volta, lo faccio di nuovo) verrà da queste parti verso ottobre. Dovrebbe suonare/cantare al teatro di San Ginesio, in provincia di Macerata, lo stesso in cui si sono esibiti mio cognato e suo fratello, detto anche (quest'ultimo) il Bipede Paolo. Ora che ci penso, uno degli ultimi discorsi fatti con mia mamma è stato proprio sullo spettacolo dei DelPapa boys e sulla bellezza di quel piccolo teatro di provincia. E insomma, vorrei andarla a sentire anche per questa ragione. Spero di non dovermene pentire.

Anche perché le sto per affidare un ruolo davvero importante.
Dedico una delle canzoni del suo ultimo album alla mia mamma, a tre mesi dal nostro (chissà se solo figurato) addio.
Si chiama Più forte del fuoco (sotto nella versione unplugged) ed è stata a sua volta dedicata dall'artista lombarda "alla nostra stella Olivia". Chissà chi è. Perché anche Olivia "è" in ogni caso, dovunque sia.

"Più forte del fuoco c'è solo l'amore. Esiste da sempre". Proprio così. Lo conferma una che ha già provato le ortiche. Altro che se le ha provate. Sotto, effettivamente, può esserci la seta. Anche se faccio ancora fatica a riconoscerla. Sono sicura che ci riuscirò. Oggi più che mai.

Ciao, mamma. Grazie di tutto.



lunedì 1 settembre 2014

Settembre, risaliamo. Facendo quel che si può



Un pezzetto(ino) alla volta, spero proprio di fare più o meno come in questa canzone.

Verso fine mese esce il nuovo cd di Cristina Donà, una bella scoperta di questa strana estate in chiusura. Credo che me lo procurerò e, se è il caso, ne parlerò.

Buon settembre, amici. Facciamo tutto quel che si può.
Per risalire.
Lo sto già facendo adesso.
Sì, lo sto già facendo.

sabato 23 agosto 2014

Le foto di famiglia e l'amore che non muore


Per fortuna non era andata persa. Per fortuna ci passiamo quasi sempre le fotografie che scattiamo.
L'avevo cercata tanto nei giorni in cui volevamo scegliere l'immagine ricordo, ma niente, era sparita dall'hard-disc esterno. Sul pc, ovviamente, non c'era: quello precedente all'attuale ha smesso di funzionare di punto in bianco, senza preavviso.

E invece eccola qui. Bellissima. L'ho scattata io, ma non conta, in fondo. Anche se, naturalmente, sono orgogliosa di aver documentato moltissimi momenti felici.
Forse è diventata un poster, forse lo diventerà presto. In ogni caso, guardarla m'immalinconisce e insieme mi fa sorridere.

Quei due piccini oggi sono così diversi e uguali. Non sembra possibile che siano stati tanto minuscoli. Da poco ho provato l'esperienza di zia ospitante: era la prima volta che i nipoti passavano più giorni senza entrambi i genitori. E' stato impegnativo, certo, ma così coinvolgente da lasciare un vuoto disorientante.
Pure i gatti ne hanno risentito: il pomeriggio dopo la partenza erano distrutti. Felici anche, probabilmente, al contrario degli zii.

Ho finito da sola il numero delle Cipolline che hanno dimenticato: mi ero talmente compenetrata nella parte della voce narrante che non mi andava di lasciare la storia a metà. Ieri, però, il nipote piccolo mi ha intimato di riportargli il libro. Certo che lo farò, così almeno posso finire di leggerglielo.

Ho fatto, molto parzialmente, le veci della nonna.
Il piccino, quello che all'apparenza sembra già un ultrà, mi ha parlato delle letterine che quando era ancora più piccino gli scriveva la nonna. Gli ho risposto che le scriveva pure a me, anche adesso che sono più che grande. Mi è sembrato che si sia stupito, ma forse non lo era.
La nonna era speciale.

Non riesco ad aggiungere molte altre parole, se non l'ennesimo grazie per tutto l'amore che ho ricevuto e che malamente cerco di dare a mia volta. Non a tutti, ovvio, ma a una buona parte di persone sì. Sono fatta così, del resto, non posso sempre vergognarmi di come sono.

Aggiungo solo un ps per mia sorella: La gita di mezzanotte di Roddy Doyle è stato davvero un bel regalo. Per chi non lo conoscesse, parla di quattro generazioni di donne che si incontrano: una di loro è un fantasma. Sarebbe una storia per ragazzi, ma va benissimo anche per ex-ragazzi come me e come tutte quelle persone che non sanno (ancora o mai) spiegarsi perché si debba morire.

Grazie, Linda. Ti voglio bene. Anzi: LE voglio bene (lei sa perché scrivo così).
E adesso basta smancerie.
Tsk.

giovedì 7 agosto 2014

Cristina Donà e l'amore che vince



Quest'anno ho ricevuto alcuni regali del tutto inaspettati.
Mi riferisco in particolare a un cd di Cristina Donà ricevuto a distanza di due anni almeno dall'acquisto: si chiama Torno a casa a piedi. Ringrazio ancora Simona per il pensiero, anche perché, probabilmente, è giunto al momento giusto. 
La canzone che linko sopra, però, è tratta dal primo lavoro della musicista originaria di Rho (sto parlando di Tregua), classe 1967, dotata di una voce sorprendente, uscito nel 1997. 

Personalmente, la trovo anticipatrice di un brano tratto dall'album che mi ha regalato la mia ex compagna di scuola. 
Sto parlando di Un esercito di alberi che trovate linkato in fondo, in cui, in maniera simile al primo brano, si parla di una relazione d'amore.

Non essendo in grado di giudicarla da un punto di vista puramente musicale, posso solo fornirvi la mia impressione filtrata dai testi scritti per la Donà da suo marito (almeno a quanto mi risulta, relativamente all'ultimo disco), che forse ai tempi del primo disco era ancora il suo fidanzato (ma non ne ho la più pallida idea, naturalmente).

Ebbene: trovo enorme la differenza tra il primo modo di parlare d'amore nell'album d'esordio e in quello del 2011. 
Nel primo Cristina è una giovane donna che impara a conoscere l'uomo che ama attraverso la sua pelle. Nel secondo, è una donna (ma sarebbe forse più esatto dire un uomo, visto chi le scrive i testi) che riconosce il suo amore ascoltando il rumore degli alberi.

Trovo davvero illuminante la trasformazione della visione del sentimento più importante nella vita di una persona. Siamo corpo (oh, se lo siamo), ma la nostra corporeità esce fuori da noi e diventa più vera quando ci fondiamo con la natura, quando impariamo a rispettarla, anche, comprendendo davvero nel profondo che cosa significhi essere mortali.

Non so, non posso parlare per lui, ma qualcosa mi dice che mio padre ami mia madre ancora più di prima. E lo fa anche attraverso noi figlie, nel suo modo insieme discreto e un po' goffo di darci retta, facendosi anche un po' violenza.

Oggi non ero con loro al cimitero, per il secondo mese dal nostro addio, ma c'ero attraverso il vento del mare, il profumo delle onde e il calore sulla mia pelle.

Le stelle buone esistono e ci dicono un sacco di cose anche quando non sono più scritte sulla schiena dell'amato, dell'amata. Lo fanno attraverso i pensieri che semplificano e gli angeli che Cristina dice di incontrare in un altro brano del suo primo album.

Felice di averla conosciuta adesso, sì. 
Un giorno parlerò anche delle sue canzoni più metropolitane e dell'ironia un po' amara con la quale descrive la solitudine della vita di città.

Mi piace però adesso dedicare queste due canzoni a tutte le persone che si amano, oltre il tempo e lo spazio. Buon ascolto a tutti. E ciao, cara mamma.

martedì 22 luglio 2014

Il mio sogno verde comincerà





Stamattina sognavo di piangere al telefono con un tipo che non vedo né sento da anni. Si tratta di una persona con cui ho lavorato anni fa, quando ancora credevo nel giornalismo sociale.
Mi spiace, ma non ci credo più, anche se le ultime cose che ho fatto hanno più o meno riguardato lo stesso ambito dal quale sono partita.
Tutto ciò che scrivo, lo scrivo onestamente, sia chiaro, ma mi sono ormai convinta che non esista il giornalismo dei buoni e quello dei cattivi. Esiste, sempre e comunque, il buono e il cattivo giornalismo. E il mio è un buon esempio di lavoro fatto con il cuore e la testa, ma non è giornalismo.

Non lo è semplicemente perché non scrivo per nessuna testata importante, che è l'unica maniera per far passare il proprio messaggio. Almeno in una società come la nostra, sempre più rapida e poco incline all'approfondimento. Chi approfondisce, voglio dire, è un numero limitato di persone; io stessa, quando ho più tempo, mi accorgo di quante cose ignoro dell'attualità.

Nel mio sogno chiudevo la telefonata dicendo "tanto cambierò lavoro, quindi che cosa vuoi?". Però piangevo, piangevo come una bambina, consapevole che il sogno degli anni d'oro se ne sia andato con il tempo volato via.

Adesso ne comincerà un altro. I buddisti sarebbero fieri di me per questa mia auto-iniezione di coraggio. Sì, ne comincerà uno nuovo, verde, come uno dei miei colori preferiti. Più sereno, più pratico, anche.
Cambierò lavoro. Ci proverò con tutta me stessa. Sperando di poter continuare comunque a scribacchiare, questo sì. Perché senza le lettere rotolanti io non ci so proprio stare.

Non chiedetemi che cosa farò. Sono curiosa anch'io di scoprirlo.
Ma il sogno verde sta per arrivare. Anche se questa canzone parla di un commiato, non si tratta di un addio, bensì di un arrivederci a un'esperienza che doveva comunque finire.
Tutto finisce, tutto passa. E tutto ricomincia sotto un'altra forma. E da un'altra parte.
Vero, mamma?

mercoledì 16 luglio 2014

Joe Cocker e il presente da vivere. Con amore




Mi è tornato in mente un episodio del liceo, direi anche inevitabilmente, visti gli incontri di quest'ultimo periodo.
Dovevo essere in quarta ginnasio, al massimo in quinta. L'anno dopo, infatti, ero già entrata in una fase diversa della mia adolescenza, un tantino più complicata. Ma neanche tanto (all'università compravo le sigarette e poi le regalavo, figuratevi un po' che giovinezza trasgressiva ho avuto).

E insomma: sul diario avevo trascritto la traduzione di una canzone di Nikka Costa, della quale ho già parlato qualche tempo fa.
Perché ci ho pensato? Per via della canzone che vedete sopra e dello studio dell'inglese che sto tentando di non mollare.

Si tratta in questo caso di Joe Cocker in "You don't need a million dollar", non ti serve un milione di dollari, che ignoro se sia una cover di qualche pezzo più vecchio o un brano scritto per il grande interprete inglese per l'album che lo contiene, uscito, se non vado errata, un paio d'anni fa.

L'ho ascoltata, insieme alle altre del cd, un sacco di volte: ne ho le versioni mp3 sulla mia scassata pennetta (leggi, chiavetta) usb, che uso spesso quando viaggio e quando cammino per raggiungere mio zio al percorso salute del Campus di Chieti.

Mi piace moltissimo la pronuncia di Joe Cocker: secondo me, per capire bene come si aspira il "th", basta sentirlo cantare.
Detto ciò, a un certo punto, durante il ricovero di mia mamma, ho cominciato ad ascoltare con attenzione il testo della canzone di cui sopra.
Non credo sia per forza il dialogo tra un lui e una lei: volendo potrebbe essere anche quello tra un genitore e un figlio. O comunque io ce l'ho voluto vedere per le ragioni che sapete.

Oggi come circa trent'anni fa (poco meno, ma comunque una vita fa), vi trascrivo la traduzione di una canzone. Come dico spesso, il carattere non si cambia.
Scusatemi se non sarà perfetta (sono tuttora ancorata al livello intermedio superiore), ma a me la perfezione sta un po' sulle balle (ottimo alibi).
E in ogni caso, poi ascoltatela. Merita, soprattutto per il crescendo finale.

Non hai bisogno di un milione di dollari
per svegliarti nudo la mattina
e per sorriderci a vicenda mentre condividiamo una tazza di caffè

non hai bisogno di essere una star del cinema
per vedere il cielo di notte sul tuo soffitto
buttami un barattolo di vernice e ci dipingeremo insieme un po' di stelle

non hai bisogno di sciogliere tutti i tuoi problemi come cioccolatini 
sul tuo sedile da passeggero
di un treno in un'afosa giornata d'agosto

Hai tutto
hai davvero tutto ciò 
di cui hai bisogno
proprio adesso, proprio ora

Hai tutto
hai davvero tutto ciò 
di cui hai bisogno
proprio adesso, proprio ora
con me

Se potessi vedere come ti invidiano
mentre passi con i tuoi stivali da cowboy
che hai scovato tra un mucchio a un dollaro al mercato delle pulci (letteralmente: la terra dei rifiuti, wasteland)

Se tu potessi vedere quello che vedo io
come una sfera di cristallo nei tuoi occhi blu
chiedimi del nostro futuro e di ogni cosa che abbiamo sognato insieme

non hai bisogno di sciogliere tutti i tuoi problemi come cioccolatini 
sul tuo sedile da passeggero
di un treno in un'afosa giornata d'agosto

Hai tutto
hai davvero tutto ciò 
di cui hai bisogno
proprio adesso, proprio ora
con me

Non hai bisogno di un milione di dollari
per gettare via la tua testa tra le risate
per dirti che tutto andrà bene
proprio bene
Davvero, non c'è problema, sorprendente, ogni momento è il momento

Puoi scegliere come sentirti
tu decidi che cosa è reale, tu puoi vivere il più vero degli amori
puoi essere la star del tuo film
puoi scrivere questa canzone e cantarla tu a me
Puoi vedere che il mondo non è niente se non ami
Puoi vedere che il mondo non è niente se non ami
Puoi vedere che il mondo non è niente se non ami
Amore, amore, amore

Perché tu hai tutto 
ciò di cui hai bisogno
davvero tutto ciò
di cui hai bisogno
proprio qui, proprio ora, con me
proprio qui, proprio ora, con me.


Mi piace chi invita a vivere il presente, con consapevolezza. E amore.
Non è facile, ma penso ancora, nonostante tutto, che sia l'unica strada possibile.
Per ciascuno di noi.
Buoni giorni d'estate a tutti. 

sabato 12 luglio 2014

Peperoni rossi dell'amore. Che non finisce


Vi giuro, non avrei mai pubblicato questa immagine solo un giorno fa.
L'ho scelta per il mio desktop perché la trovo così intima e bellissima.
Mia mamma è stata una bella donna, fuori e dentro.
Non lo dico per il legame che c'era tra noi, è un fatto oggettivo.

Ho scattato questa fotografia due anni fa. Ho appena controllato la data di acquisizione sul pc: era il 22 settembre 2012. Non sono ancora due anni. E lei, probabilmente, era già malata, ma non lo sapeva.

Lo avrebbe, lo avremmo, scoperto più o meno un mese dopo, subendo uno shock che può immaginare solo chi ha vissuto un'esperienza analoga.
Di questa brutta malattia si ammalano davvero in troppi e a tutte le età.
Lo diceva sempre lei, che ha affrontato la cura con una forza in fondo prevedibile, visto il suo carattere. La sala d'attesa lassù al quattordicesimo livello era sempre zeppa di gente, soprattutto il lunedì mattina. Io ci sono stata poche volte, esentata, per così dire, dal ruolo di accompagnatrice a favore di mia sorella Linda, più capace di cavarsela con le pastoie burocratiche e di altro genere dell'ospedale.

Arrivavo dopo, a casa, durante i giorni degli effetti collaterali. Sopportati bene, tutto sommato. Fino all'ultimo Natale, anzi, ci eravamo, forse, tutti illusi che sarebbe restata ancora a lungo con noi.
Ancora a maggio pensavamo che davvero sarebbero arrivati "i giorni migliori" che ci aveva prospettato il chirurgo milanese che abbiamo incontrato a Terni. Sono sicura che ne era convinto anche lui (diversamente sarebbe stato uno sconsiderato, come minimo), ma purtroppo non ha avuto ragione.

Non voglio ricostruire minuto per minuto i giorni ancora troppo recenti del distacco, ma ho comunque bisogno di fissare qualche pensiero. Perdonatemi se doveste trovarli troppo tristi.
In questi giorni teatini ho rivisto tre mie ex compagne di liceo, una al giorno, e sono stati tutti incontri molto belli. Molto veri.

Da ognuna di loro ho imparato qualcosa, durante i lontani anni della crescita, ma sono stata davvero contenta di scoprire di poter apprendere dell'altro ancora oggi. Siamo uguali ad allora e insieme diverse. Il carattere non si cambia, ne sono sempre stata convinta, ma la vita ce lo modella. Può peggiorare, certo, ma può anche manifestarsi in tutte le sue potenzialità, rivelando le magnifiche donne che sono diventate.

Mi spiace di non poter condividere con Susi, Simona e Valentina anche l'esperienza della maternità: so che buona parte del loro tempo è occupato dal pensiero dei figli che crescono. Però sono, per fortuna, una zia, quindi conosco, almeno superficialmente, che cosa si prova nel dover uscire da sé per diventare strumento di qualcuno che dipende da te.

Da figlia, inoltre, so quanto sia fondamentale sentirsi amati. Le ammiro, ecco, perché le vedo in grado di svolgere il loro ruolo, rimanendo comunque così simili a come erano quando sedevamo dietro ai banchi della nostra aula lunga e stretta.

Susi mi ha mandato delle foto di quegli anni. Le ricordavo tutte, tranne una di gruppo, a casa di un nostro compagno. Solo qualche tempo fa rivederle mi avrebbe messo angoscia. E invece adesso le ho trovate così lievi.

Ho dimenticato molto di quegli anni, ma so al contempo che la donna di oggi viene da lì, principalmente. Certo, poi, c'è stata l'università fuori casa e tutti gli altri anni di peregrinare in giro per l'Italia, ma quanto sia simile alla ragazza che sono stata me lo ha restituito, in questi giorni, il dialogo con le compagne di liceo.

Chissà che cosa ne avrebbe detto mia madre. Penso che ne sarebbe stata contenta: dentro di sé deve aver almeno un po' patito per la mia insofferenza verso la nostra piccola città. Ma chissà se è davvero così: probabilmente l'ho delusa per non essere riuscita a staccarmene davvero del tutto. Chi può dirlo.

In ogni caso, sapete perché mi piace tanto la foto che vedete in alto? Perché quei peperoni così rossi mi parlano di amore. Dell'amore che passava anche dai piatti che ci preparava, dagli occhi fiammeggianti, dalle battute fulminanti e dalle risate ai danni di papà che tante volte ci siamo fatte insieme.

Il rosso è un colore che mi piace e so che piaceva molto anche a lei.
Un filo rosso mi lega ancora alle amiche di scuola che hanno condiviso con me questi giorni di lutto (è compresa nell'elenco anche l'assente ma sempre presente Annalisa) ed è consolante accorgersene.

Stamattina sono tornata con mio padre al cimitero e lei era lì, nella fotografia che abbiamo scelto per la tomba. Devono essere venuti a metterla forse ieri: lunedì non c'era e poi ci sono stati giorni di pioggia e vento.
Già da ieri, comunque, sentivo di doverci tornare: volevo togliere i fiori che immaginavo secchi o marciti.
Lì per lì non me n'ero accorta, attratta dal rosso del lumino che era stato spostato. Allora, mi sono detta, qualcuno deve essere venuto. E infatti.
Al posto del lumino c'era lei, nell'ovale quasi uguale a quello dei suoi genitori.

Da lontano si vedono solo i suoi occhi leggermente socchiusi per via del sole.
Occhi parlanti. Occhi danzanti.
Ciao, mamma. Tornerò presto a trovarti.
Grazie, amiche.