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domenica 9 maggio 2021

Risvegliarsi e tornare, rinascendo ancora. Tanti auguri, mamma

 


Alla fine ne ho avvistato uno. Era nero, grigio e rosso, con un bel corpaccione. 
Nonostante i lunghi giorni di maltempo e l'impalcatura invadente, quando l'ho notato stava saltando sul ramo di uno degli alberi su cui, immagino per anni, lui e i suoi simili hanno continuato a costruire le loro tane.
Ho scoperto come sia fatto un picchio qui a Vienna. Prima, non ne avevo mai visto uno così da vicino. 
Ricordo di averne parlato su Facebook, una volta. Anzi: devo averlo fatto 
direttamente poche ore dopo la scoperta, conoscendomi. In fondo, mi piace condividere le belle notizie, come si dice in gergo social #cosebelle. Chissà se esiste davvero quest'hashtag o se me lo sono solo sognato.

Ho vissuto come in un sogno per quasi tre anni
Potrei dire in una specie di incubo, ma, sforzandomi di restare social (#thinkpositive), diciamo che qui a Vienna ho passato mesi più pesanti e altri più leggeri. 

Ricordo con piacere i primi giorni in hotel e le gite sul lago con i miei giovani colleghi. Nonostante le delusioni successive, professionali soprattutto, capisco solo adesso, al risveglio da questo lungo sonno agitato, che, di meglio, loro, per me, non potevano fare. 

Sarà per questo che ogni tanto ne sogno uno o me li vedo lì tutti insieme, garruli e felici. 
Solo su quelli più adulti tra loro faccio sogni meno lusinghieri, ad eccezione dello speaker di mezza età risposato con un'affascinante coetanea di origine moldava che non mi appare mai. Evidentemente, nonostante tutto il tempo passato dall'ultima volta che li ho visti, non riesco a farci del tutto pace.

Un giorno non lontano ci riuscirò, però. Adesso ne sono sicura.
Mi basterà chiudere per l'ultima volta la porta di casa, con i gatti (urlanti) al seguito e riprendere la via del mare.

Stavo per scrivere "vita" anziché "via". Un bel lapsus, degno dei concittadini di Sigmund. A proposito di Freud, mi sovviene in questo istante un ricordo cretino, di quelli che tiro fuori dal cilindro quando voglio sdrammatizzare. 

Le mie coinquiline dell'università avevano scritto un biglietto con una frase firmata "S. Freud". Non rammento assolutamente se fosse indirizzato a me o se me l'avessero solo mostrato. Fatto sta che io ne ho letto il contenuto a voce alta finché, arrivata alla firma, non avendo idea che cosa fosse quella S puntata, ho detto: "San Freud". Giù risate. 

Santo Freud mi sta proteggendo anche adesso, credo.
La madre è causa e origine di ogni cosa, anche se per le femmine dovrebbe valere di più il complesso di Elettra. E infatti, molto presto, dal padre, almeno in visita, tornerò.

Dalla madre, invece, mi sono dovuta separare ormai quasi sette anni fa, il 7 giugno di una giornata di quasi estate, dopo la strana invasione di vespe sul balcone di casa e altri presagi meno divini, successi più o meno un mese prima.

Al dolore per il distacco, all'epoca non so quanto davvero percepito come imminente, si mischiava anche una grande energia vitale, mia, di mia sorella, di mio marito e mio padre.
Tutti insieme l'avevamo accompagnata all'ospedale di Terni, per un intervento che ci avevano presentato, o forse eravamo noi che ci eravamo convinti che lo fosse, come risolutore.

La sera abbiamo mangiato in una pizzeria piuttosto anonima, di quelle che, probabilmente, avremmo scelto durante una vacanza di famiglia. Bisognava mantenersi calmi e, per riuscirci, probabilmente abbiamo parlato di inezie per tutto il tempo. L'animo meridionale sa essere anche molto compassato, quando vuole. O almeno: nella mia famiglia siamo melodrammatici solo in brevi, topici, momenti. Tutto il resto del tempo, dissimuliamo, sorridendo anche un po'.

Il sole al ritorno picchiava parecchio e la vecchia Micra nera di mio marito di certo non lo schermava. Con la mano attaccata alla maniglia in alto dello sportello, la mamma non ha detto neanche una parola. Era seduta davanti, io vedevo la sua schiena incassata nel giaccone scuro. Non so come facesse a resistere. 

Accanto a me doveva esserci papà, ma io non lo vedo, in questo momento. Anche lui, evidentemente, stava zitto. Parlava per noi il rumore del motore.
Di certo temevamo che quella vecchia macchina potesse lasciarci a piedi, forse evitavamo quasi di respirare perché ci portasse a destinazione.

Molti anni prima i miei avevano percorso quel valico appenninico, quel bellissimo valico tra l'Umbria e le Marche che avevo fatto molte volte pure io a bordo del pullman che mi portava a Firenze, per venire alla mia laurea. Nevicava. Papà l'aveva presa piuttosto male.

Come primo regalo, mia mamma mi aveva portato un bongo africano. Ce l'ho ancora adesso: l'ho usato nella mia casa di Porto San Giorgio come porta - lampada. Ora è in soffitta, in mezzo ai mobili da rimettere al loro posto, non appena torniamo.

Il sogno, a tratti più simile a un incubo, dicevo, sta infatti per chiudersi.
Con lui, anche le lacrime versate pregando per il meglio, stanno per esaurirsi. Finalmente.

Mi manca moltissimo mia madre, mi è mancata da pazzi la mia casa, i miei ricordi, la mia famiglia. Poco fa mi ha chiamato papà per farmi gli auguri per la festa della mamma.
Caro, tenerissimo papà, io non sono una mamma, ma ti ringrazio per gli auguri. Ho avuto una mamma speciale, che forse un po' mi ha reso comunque madre, creatrice di parole, almeno.

Dentro di me lei vive sicuramente e a mia volta io penso di essere rimasta in parte nel suo utero, per proteggermi da un mondo che, senza confessarmelo mai apertamente, mi è sembrato spesso troppo grande e ostile.

Eppure ho vissuto, come tutti. Con me porto la sua forza e il suo amore, quando mi ha spinta ad andare a laurearmi, per esempio, o quando, viceversa, mi ha rimproverato con asprezza per qualche mio comportamento che trovava sbagliato. 

Non sono perfetta, cara mamma, non lo eri anche tu, ed è meraviglioso sentirti ancora più vicina proprio per questo.

A te dedico queste parole, nel giorno della tua festa.

A me non resta che tornare. 
E ricominciare da dove ero rimasta. 
Ridendo anche un po'. 

mercoledì 2 dicembre 2020

Un matrimonio riuscito


Non se n'era mai andato, ma è da qualche giorno che ne avverto la presenza nitidamente. 

Sto parlando del volto di mia madre, ma non solo di quello.

La vedo a figura intera, in alcune sue pose tipiche.

La sera dopo cena spesso la trovavo seduta in cucina nel suo modo bizzarro. Poggiava le ginocchia sulla sedia, sempre la stessa, dal lato dei fornelli, e i gomiti sulla tavola. A volte si teneva il mento tra le mani, altre volte sfogliava i giornali del mattino in quella posizione, come se volesse dominarli dall'alto con il suo busto, avvolta nella vestaglia, lunga e materna. 

La schiena la teneva piuttosto piatta, vagamente inarcata all'indentro, come quando si fanno certi esercizi di ginnastica. Nelle sere d'inverno, quella posa piaceva moltissimo a Sancio e Stino, i due gattoni di casa.

Non di rado se li ritrovava addosso, un peso enorme, tutto considerato, per il quale, chiamandomi a gran voce, rideva fingendo sconforto. 

Sono sicura di avere una foto in cui l'ho ritratta così, con quei due vitelli a pesarle sulla bella schiena di mamma.

Aveva anche un'altra postura stravagante, che poi le ho rubato. Seduta al solito posto, girava la sedia verso la televisione e, per guardarla, poggiava i piedi sulla sediolina impagliata della nonna. Per la precisione, di solito li infilava sul sostegno orizzontale delle piccole gambe di legno. Non sia mai che dovesse rilassarsi del tutto.  

La schiena, però, le si piegava un po' in avanti, soprattutto quando poggiava i gomiti sulle ginocchia e si teneva, stavolta sì, il mento tra le mani. A pensarci adesso, in quei momenti sembrava più vecchia di come fosse in realtà.

E d'altra parte, non ho mai ben capito perché, nonostante avesse sonno, amava restarsene lì in cucina fino a tardi, spesso fino a dopo mezzanotte, la porta della cucina accostata per trattenere ancora un po' il calore dei termosifoni ormai spenti e forse per non disturbare mio padre e, quando c'ero, anche me.

Dopo aver chiuso la tv in sala, prima di andare a letto passavo dalla cucina per salutarla, spesso le davo proprio il bacio della buonanotte, anche da grande.

Una volta, però, mi ha scioccato.

Mia nonna, sua madre, era morta da pochi giorni e lei era davvero a pezzi. 

Io ero appena uscita per sempre dal liceo: negli ultimi due anni avevo dormito spesso dalla nonna, via via che la sua salute si faceva più precaria. 

In genere andavo da lei volentieri: mi piaceva il latte bollente (mi pelavo proprio la lingua) con il Nesquik e i biscotti Atene Doria (sempre quelli) che la nonna mi faceva trovare tutte le mattine nel soggiorno, dopo aver lasciato la tazza sulla stufa a gas, per tenermela meglio in caldo.

Ricordo il tratto in macchina che separava il nostro appartamento dalla sua grande casa. Partivamo dopo cena, mentre guidava la mamma mi dava spesso una breve carezza sul ginocchio sinistro, quello più vicino al cambio. Poi arrivavo dalla nonna e aprivo io con le chiavi: lei mi salutava dal letto, gli occhiali sulla punta del grande naso. 

Tutto questo, dicevo, un giorno d'estate è finito e forse me ne sento ancora un po' in colpa. 

Gli esami si avvicinavano e io avevo bisogno di concentrarmi. Ho espresso questo mio desiderio probabilmente a entrambi i genitori, con la mia proverbiale veemenza. Oppure, chissà, quella volta la veemenza ce l'ha messa mio padre, sempre così pronto a farsi in quattro per le sue bambine.

Come sia andata, insomma, non lo ricordo più. So solo che quello è stato uno dei rari casi in cui ho visto mio padre alzare la voce con mia madre. Pareva proprio l'avvocato della pubblica accusa durante l'arringa finale, la mamma la controparte messa rabbiosamente nell'angolo.

La nonna, però, stava male davvero e, a posteriori, capisco quanto mia madre, sua figlia, dovesse essere preoccupata. Come posso lasciarla da sola?, si sarà detta, Chi veglierà su di lei durante la notte? Alla fine la scelta è ricaduta su mia sorella, tornata da Roma, dove frequentava l'università, non so bene se richiamata apposta o perché in pausa tra un esame e l'altro. 

Proprio a mia sorella è toccato effettivamente soccorrere la nonna nei drammatici momenti finali. Quattro giorni dopo il mio esame orale, ci ha lasciato. Eravamo annichiliti. Il voto finale, per me, alla fine, non è contato più nulla.

Molto più importante, era invece riuscire a trovare un modo per stare vicino alla mamma, affranta come mai l'avevo vista.

Non potevo sopportare che soffrisse, è stato così anche molti anni dopo, quando si è ammalata. Solo in un'altra circostanza, qualche tempo prima, l'avevo trovata distesa sul divano della sala, senza forze. Chissà se aveva l'influenza o se era solo un ciclo particolarmente doloroso, fatto sta che io ero nel panico. 

Ricordo di averla quasi sgridata: "Dai, su, alzati!", penso di averle detto e lei mi ha sorriso debolmente e mi ha risposto, qualcosa del tipo: "Sì, sì, domani sto meglio". Chissà se lo pensava davvero o se voleva solo rassicurarmi.

Stavolta la sua infelicità aveva un'origine diversa, non sapevo proprio come maneggiarla. Gli strepiti non sarebbero serviti e nemmeno altre lacrime.

Però una sera sono entrata comunque in cucina per il solito saluto della buonanotte. La mamma non piangeva più. Seduta davanti alla tv con i piedi sulla seggiolina, aveva la fronte corrugata di chi già da minuti stava rimuginando su un pensiero preciso e sgradevole. 

Con una certa cautela mi sono avvicinata a lei, l'ho abbracciata e discretamente l'ho baciata sulla guancia magra.

Stavo quasi per allontanarmi quando l'ho sentita dire: "Voglio il divorzio".

Rammento di essere rimasta lì accanto a lei qualche istante, atterrita. Ma come? Ma perché? Papà aveva sbagliato, certo, o comunque non aveva capito la gravità della situazione, d'accordo, ma addirittura il divorzio. E io? E noi? Possibile che tutto dovesse finire così?

L'episodio mi è tornato in mente ieri, sentendo la rassegna stampa mattutina sulla radio, un'abitudine di famiglia ereditata dal nonno paterno che non ho mai più perso.

Fino a poco tempo fa anche mio padre la ascoltava sempre, non di rado a un volume piuttosto alto, negli anni più recenti, da suo lettone di vedovo. 

La mamma no, la mamma guardava la televisione, non rammento di averla mai vista armeggiare con manopole e frequenze. Se fosse stata ancora tra noi, forse avrebbe visto in tv qualche servizio sui cinquant'anni dalla legge sul divorzio, l'anno in cui era incinta di me.

Chissà che cosa ne pensava ai tempi, chissà che cosa ha votato, quattro anni dopo, al referendum. 

Di nostro padre parlava di tanto in tanto come di un uomo bravo, intelligente e serio, lodandolo particolarmente per le sue qualità di padre. "Quello che dite voi, per vostro padre, è legge", asseriva. Di solito tirava fuori questo discorso mentre era impegnata in qualche attività domestica, nello specifico mentre spazzava, ed io, a volte vagamente annoiata, ma in verità registrando ogni sua parola, l'ascoltavo dal piccolo divano dello studio, con un libro in grembo.  

A sentirla parlare, insomma, il suo era un matrimonio riuscito, anche se ripetutamente a me e mia sorella ha detto che il vero collante che tiene in piedi qualsiasi unione, all'epoca sua come ai tempi in cui abbiamo messo famiglia noi figlie, è la donna.

Credo, sinceramente, che avesse ragione, anche se, almeno lei, ha lasciato che nostro padre gestisse i conti e altre attività storicamente considerate maschili, mentre lei, pur lavorando, ha voluto mantenere il controllo della casa e della nostra educazione affettiva. Per quella intellettiva, da un certo momento in poi, ci ha pensato invece papà, spinto dal grande desiderio di farci studiare, un'attività per la quale lui stesso era molto portato, come ribadiva sempre la mamma.

E dire che lei ha insegnato, aiutando a crescere generazioni di bambini, con una passione pura e vitale, che oserei definire violenta, in certi istanti. La mamma non amava le mezze misure, anche se all'esterno, soprattutto negli anni più maturi, fingeva una pacatezza per la quale spesso l'ho presa in giro.

Se non fosse stata così, così passionale e assoluta, intendo, non avrebbe detto mai quella frase, davanti a me diciannovenne, intontita e sognatrice com'ero.

A pensarci adesso, in queste ore in cui mi appare davanti con i gatti sulla schiena e gli occhi che le si chiudono dal sonno, sono contenta di aver vissuto quel momento. Quello squarcio di verità di donna offesa, ancora giovane, ancora forte e in grado di conquistare tutti, donne e uomini, con la sua bella figura e la sua autorevolezza.  

Chissà come hanno fatto pace, chissà se papà le ha chiesto scusa, chissà in che modo l'avrà fatto, considerando la sua dolce goffaggine di uomo poco abituato alle smancerie. 

In ogni caso sono rimasti insieme fino alla fine, ma temo che non sapremo mai quanto sia stata dura, per papà, vederla andarsene giorno dopo giorno.

Non ho mai pensato davvero che avrebbero divorziato, mai più, almeno, dopo quella volta. 

Non so che cosa avrei fatto né come sarebbe stata la mia vita se fossi stata figlia di genitori separati. So invece com'è stato essere una figlia amata, una figlia che ha fatto fatica a crescere e che oggi fa fatica ad invecchiare.

Sono però grata a tutti e due per come erano e come saranno per sempre, diversamente ansiosi, ugualmente pratici, leggeri, pesanti, attenti.

Grazie, mamma, per essere sempre con me, con noi. Ti aspetto presto, davanti a me, dentro di me. Intorno a me.

E tu, papà, resisti. Pure io lo farò. Per te e per me. 

martedì 1 maggio 2018

Canto della pianura, silenzio e commozione onesta in forma di libro


Tornare in me dopo la botta di narcisismo dell'altro giorno non è proprio semplicissimo. Per fortuna, la mia natura cancerina mi aiuta a passare dall'euforia alla depressione alla velocità di un agguato felino, per cui eccomi qui ripiombata nel silenzio.

E' proprio questa la prima parola che associo al bel libro di Kent Haruf, il compito mensile assegnato a noi membri del gruppo lettura di cui ho parlato qualche post fa.

Non mi stava prendendo, almeno finché ne avevo relegato la lettura alle ore serali.
Mi disturbava lo spezzettamento in capitoli corrispondenti ciascuno a ogni personaggio, ripetuti con lo stesso schema per tutta la durata del romanzo.

Non riesco a ricordarmi quale altro libro ho letto non molto tempo fa (credo fosse comunque un altro scelto con gli amici del gruppo) in cui mi veniva voglia di saltare il capitolo, o i capitoli seguenti, per continuare a seguire le vicende di quel determinato personaggio di cui mi stavo interessando in quel momento.

Negli ultimi giorni, però, ho potuto dedicarmi con più distensione alla lettura di Haruf (accidenti, ora che ci penso il mio prof di storia e filosofia del liceo si chiamava Aruffo... uguale, praticamente).
E ho capito che la struttura circolare, in questo caso, ci sta bene.

Leggere a correnti alternate la storia di Victoria Rubideaux, di Guthrie e dei figli Ike e Bobby, dei fratelli MacPheron, di Maggie Jones e degli altri personaggi minori, intendo dire, me li ha resi più cari, poco alla volta, uno dopo l'altro.

Mi piace moltissimo il fatto che non succeda praticamente nulla.
Certo, ci sono vari momenti di tensione (su tutti la rappresaglia del bullo della scuola contro i due ragazzini e l'autopsia del cavallo), ma su ogni situazione aleggia il vento della campagna americana e la malinconia, di più, la desolazione che credo si possa provare solo nelle anonime province di questo immenso Paese.

Mi viene in mente, in questo istante, la parodia di Giancarlo Ratti dedicata ai gialli svedesi (se non la conoscete, ve la suggerisco: è da lacrime, ve lo dice una che ha seguito vari telefilm ambientati tra i ghiacci del nord Europa), ma, a mio avviso, in questo caso, se ci si lascia avvolgere dall'andamento lento del libro, si può arrivare a commuoversi.

Non parlo delle lacrimucce che ogni tanto pure mi scendono per i filmetti di La5.
Mi riferisco proprio a quella mistura di tristezza e rassicurazione che si prova quando si sta con le persone amate, magari in famiglia, i nonni ancora in vita, i bambini che continuano ad alzarsi dalla tavola al ristorante, i discorsi un po' noiosi dei grandi, e il cielo metallico.

La pioggia non arriva, ma la senti nel vento che fa rabbrividire la mamma. La vedi mentre si infila il golf e vorrebbe fare altrettanto con te che invece sgattaioli via con i cugini e torni nel cortile.

Da piccoli non si smette mai di correre: non lo fanno neanche Ike e Bobby, i due ragazzini del libro, che tutte le mattine, prima di andare a scuola, vanno a consegnare i giornali, non prima di aver consumato quelle loro colazioni americane con pancetta e uova, carichi di un'energia che non sarà mai più così per il resto della vita.

Mi sono piaciuti moltissimo soprattutto loro, ma ho amato anche Victoria e il suo pancione che cresce pagina dopo pagina e i capelli corvini e quella borsa rossa che alla fine le verrà strappata.

Come non amare anche gli anziani Harold e Raymond Mc Pheron, che di Victoria finiranno per diventare ben più che genitori. Davvero: laconici, veri, e buoni.

La bontà è il tratto distintivo praticamente di tutti i personaggi principali.
O forse sarebbe più esatto dire l'onestà, una caratteristica che ho avuto il privilegio di riscontrare in buona parte dei miei consanguinei più stretti.

Onesto doveva essere, per forza di cose, pure Haruf, almeno nella capacità di mettere nero su bianco una storia così.

Non so quando leggerò gli altri due libri della trilogia (a proposito: grazie ad Alice del gruppo lettura per avermi segnalato questa bellissima lettera dell'editore italiano NN in cui si spiega perché si è deciso di partire da Benedizione, l'ultimo in ordine di tempo della triade), anche perché, ripeto, per apprezzare appieno Canto della pianura, ho scelto di sprofondare nel mio piccolo divano, di accendere la luce poco sopra la mia testa, e di ritornare per qualche tempo la lettrice che sono stata da ragazza.

Però già solo per questo motivo, se siete in grado di fare altrettanto senza sentirvi in colpa per tutte le altre attività che state tralasciando, ve lo consiglio fortemente.

E buon primo maggio, a voi che lavorate e a tutti gli altri che, prima o poi, troveranno o ritroveranno la loro strada.

lunedì 4 aprile 2016

Tanti auguri, cara mamma


Da quando lei non c'è più, l'aloe sul balcone dei miei non ha più messo fiori così rigogliosi. 
L'ultima volta che sono tornata, stava finendo di sfiorire un unico, solitario, braccio segaligno.

Ed è già tanto che la pianta sia riuscita a sopravvivere: l'estate scorsa era tutta marrone, rugosa come un pezzo di Grand Canyon. Invece si è ripresa. Misteri della botanica o di chissà cosa. 
Se ci fosse stata ancora, le avrei per esempio raccontato della bizzarra pianta spuntata così, senza ragione apparente, dietro al piccolo, resistente ciclamino, uno dei pochi che mi sta dando qualche soddisfazione. Com'è possibile?, mi sono detta guardando i boccioli di alcuni fiorellini gialli di questa pianta aliena ben più alta di tutte le mie creature vegetali. Come diavolo sarà finita nel mio vaso, come diavolo ha fatto ad annidarsi giusto dietro al ciclamino? 

Sì, gliel'avrei raccontato e immagino che le avrei pure mandato la foto che ho pubblicato ieri su Facebook anche via Skype. Oppure lei stessa mi avrebbe anticipato, scrivendo, non cliccando, "mi piace" sotto la stessa.

Oggi è un giorno malinconico, ma ancora una volta, come mi succede sempre più spesso man mano che si allontana il giorno in cui mia sorella ed io l'abbiamo vista andarsene via, non riesco a pubblicare le sue fotografie. Eppure ne ho di belle, di dolorosamente belle. Sarà per questo o sarà perché mi sembrerebbe di esporla ancora di più ai meccanismi dell'emozione social.

Bisognerebbe avere più pudore, più riservatezza. Sono sicura che lei sarebbe d'accordo, anche se, come una bambina, amava usare le faccine di Skype esattamente come faccio io.

Negli ultimi mesi l'ho sognata spesso: era viva, energica e ansiosa come lo è stata davvero, a tratti preoccupata per qualcosa, ma quasi mai malata. Non ho davvero idea di che cosa vogliano dire così tanti sogni su di lei e sul resto della mia famiglia. Spesso, infatti, ci sono anche mio padre e mia sorella, spesso siamo in case grandi, tipo quella che ormai non è più tra i beni comuni, della mia nonna materna. A volte sono presenti altri parenti non meglio specificati.
C'è casino come nelle riunioni vere che per fortuna facciamo ancora.

E c'è anche, ogni tanto, quella specie di morsa allo stomaco che mi prende quando siamo davvero tutti insieme, quel senso del tempo che fugge, quelle facce più smagrite o quei fisici un po' appesantiti, che sorridono e mangiano fingendo svagatezza.

A tratti ridiamo sinceramente, aiutati, forse, anche da un pochino di vino. Al commiato ci promettiamo di rivederci presto, ma già sappiamo che passerà parecchio tempo e che la volta successiva dovremo fare comunque un piccolo sforzo iniziale per ritrovare quel calore che ci fa star male a pensarci quando siamo lontani.

La famiglia è un'esperienza troppo simile e insieme diversa per ciascuno di noi. Qualcuno recide i legami per tempo, ma chissà se poi di notte sogna cose ben più complicate di quelle che capitano a me.

Oggi ho letto il vangelo del giorno, in onore suo. Mia zia (sua sorella) prende a me e mia sorella il messalino, che ha cadenza bimensile. Me lo sono portato anche a Venezia (in fondo negli alberghi ti lasciavano una Bibbia, almeno nei film sembra che succeda ancora così), ma lì non l'ho neanche tolto dalla valigia.
Oggi, invece, l'ho aperto: Luca racconta di quando l'Angelo avvisa Maria che avrà un figlio da un uomo chiamato Giuseppe, pure se quest'ultimo non la sfiora nemmeno. Il massimo del legame con l'Altissimo, il mistero della vita incarnato in questa donna così speciale.

Mia mamma era nata proprio oggi. O forse ieri, come mi ha raccontato molte volte. Pare che l'avessero registrata con un giorno di ritardo, infatti. Un bi-compleanno poteva capitare solo a lei, profondamente legata al cielo e alla vita. 

La verità è che non ho ancora accettato di non poterla vedere mai più, anche se sono certa che possa sentirmi. E guidarmi ancora. La pensa così anche zia Zita, una persona straordinaria, che ieri ha compiuto 81 anni, la più simile a lei, sotto certi aspetti, almeno. 

Se è davvero così, buon compleanno, cara mamma. 
Magari quella pianta me l'hai portata tu. Mi piacciono i fiori gialli, forse lo sai. 

Grazie di tutto. Ora e sempre.

mercoledì 8 aprile 2015

La protezione da lassù. Che non si vede. Ma c'è


Sono ancora un pochino provata dalle recenti vacanze pasquali. Per fortuna in senso positivo, stavolta.
Zia Zita, splendida neoottantenne, del resto lo dice sempre: "Sono tutti miracoli che sta compiendo tua madre".
Che ci si voglia credere per bisogno o che sia vero in qualche maniera misteriosa che poco ha a che fare con la razionalità di noi poveri bipedi, in ogni caso domenica scorsa c'era davvero un'atmosfera magica (la luna su Chieti - nella foto sopra - immortalata grazie alla pronta segnalazione del cognato italo-tedesco ne è la prova tangibile).



I nuclei familiari coinvolti nei festeggiamenti erano accomunati da lutti piuttosto seri, oltre che da un legame di sangue tanto indiretto quanto sentito.
Prima di trovarci seduti tutti là, però, non credo che il grosso di noi ne avesse consapevolezza. E invece quel legame c'è eccome e ci ha spinto a parlarci con una naturalezza e direi proprio una confidenza davvero piacevole.

Non pubblico le foto del pranzo, non lo farei mai. Però vorrei citare qualche passo del biglietto che la vulcanica zia giovane di mio padre (appena cinque anni di più: non chiedetemi come sia possibile, è troppo complicato da spiegare) ha dato a noi invitati, accludendolo a un sacchetto profumatissimo di lavanda che ho subito messo tra la mia biancheria.

Parla della vecchiaia ed è tratto da un libro (Edizioni Paoline, Il vecchio e la vita, di Edoardo Borra).
Tra le frasi più significative, vi riporto queste:

Benedetti coloro che capiscono le mie mani che tremano e il mio cammino stanco.

Benedetti coloro che mi ascoltano con pazienza quando io ripeto le stesse cose o i ricordi della giovinezza.

Benedetti coloro che mi stanno accanto e mi ricordano che sono sempre vivo e interessante, anche se non lo sono.

Benedetto chi mi offre un sorriso, una parola amabile o un po' del suo tempo.

Ho trovato molto appropriata la scelta della zia di lasciarci questo messaggio a futura memoria.
Lei, dal suo canto, teme di non essere più la stessa che era da giovane (anche se posso assicurarvi che difficilmente io ho incontrato giovani donne, per non parlare di giovani uomini, dotate-i della sua energia).

Per quel che mi riguarda, invece, riflettendo sulla vecchiaia in fondo da sempre (ben prima degli ultimi sette anni, voglio dire), mi colpiscono assai le parole dette o riferite da persone che hanno molti più anni di me.
E anche se a volte non ho pazienza con mio padre (quando devo ripetergli le frasi, non sempre lo faccio con buona grazia) e anche se persino con mia madre, nei momenti peggiori, non sempre sono stata capace di gestire i suoi momenti di sconforto con la dovuta pazienza, cerco di non dimenticare mai che un giorno (salvo smentite divine) sarò vecchia pure io e chissà in quale stato.

Essere di supporto e di consolazione per un parente anziano, insomma, è un dovere dal quale nessuno è esente. O comunque nessuno dovrebbe esserlo.

Per questo motivo, tra l'altro, non sopporto le liti tra parenti, soprattutto quando tutti, figli, genitori, zii, si sia raggiunta una ragguardevole età.
Che senso ha, mi chiedo, avvelenarsi ulteriormente la vita? Chi di noi non ha un rimpianto o peggio un rimorso? A che serve rinfacciarselo quando la polvere ha sepolto quasi pure noi?

Abbracciamoci finché siamo in tempo, piuttosto.
O lasciamoci perdere, se proprio non si riesce a stare vicini.

So, lo riconosco, di avere una grande famiglia unita. Però niente viene dal niente.
E se gli altri hanno colpe (e sicuramente ne hanno), noi per caso non ne abbiamo?

Ma, al di là delle colpe e dei doveri, credo fortemente nell'amore: è l'unico sentimento che conta, per me. L'amore spazza via tutti i rancori, l'amore ci fa resistere al dolore. L'amore guarisce.

Forse ha davvero ragione Zia Zita.
La mamma ci sta proteggendo.
Io, almeno, ci credo.

lunedì 30 marzo 2015

I sorrisi sghembi di chi brama la rinascita: buona Pasqua a tutti


Nella fotografia che vedete sopra non mi piaccio affatto. Ma il motivo per cui l'ho pubblicata non è affatto narcisistico. Almeno, non in modo conscio.
Più o meno nello stesso punto, la bellezza di boh... trentacinque anni fa, fummo fotografati la sottoscritta con questa faccia da patata e il resto della mia famiglia di origine.
Ne ho parlato diffusamente nel periodo natalizio. Qui vi basti giusto sapere che lo scatto di questa volta è di ieri mattina: il luogo è Verona.

Sono stata nella bella, a tratti respingente, città veneta il fine settimana appena passato.
Ho rivisto l'autore del commovente ritratto degli anni che furono e l'ho ricambiato con la stessa moneta, fotografando lui e la sua nuova famiglia esattamente nel medesimo punto in cui eravamo stati immortalati noi quattro. Loro, ovviamente, non potevo pubblicarli. Perciò eccovi la foto che mi ha fatto il Bipede, giusto una mezz'oretta prima di quella di cui vi ho appena parlato.

Sono stata felice di rivedere un luogo nel quale, in verità, ero tornata nove anni fa, in occasione dell'indimenticabile concerto di Mark Knopfler ed Emmylou Harris all'arena. Anche quella, tra l'altro, era stata occasione di incontri molteplici: mi avevano raggiunta le mie ex compagne di casa di Milano, una delle quali è originaria proprio della città di Romeo e Giulietta.

Stavolta, invece, oltre a Rosina, Pino, Tonino, Silvia, Sofia e Gabriele, ho rivisto anche i nostri carissimi amici valdostani Lalla e Maurizio, e approfondito appena un po' di più la conoscenza con i loro amici Antonella e Mirco. Questi ultimi verranno giù nelle Marche la prossima estate, per cui la gita in cima alla torre dei Lamberti (bellissima Verona dall'alto!), la passeggiata e la cena sono stati giusto un anticipo dei giorni marini che spero passeremo insieme.

Mi piace far incontrare gli amici, anche se so bene quanto sia rischioso o semplicemente complicato. Temo in particolare di aver messo in imbarazzo due di loro (non dico chi), ma spero che possano perdonarmi: ci tenevo proprio a rivederli, anche solo per pochi minuti.

Mia madre ne sarebbe stata contenta. Da lei ho ereditato la socialità e anche una certa confusionarietà ansiosa. Mio padre, al telefono, pareva a sua volta contento per me.
Devo avergli fatto venire in mente le nostre vacanze, "quando erano piccole le bambine e giovani noi", ha scritto mia mamma in un bigliettino che accompagnava il vhs ricavato dalle bobine della vecchia cinepresa Super 8, da mio padre ripescata in fondo a uno degli armadi che abbiamo svuotato.

Stanotte l'ho sognata: stava bene, forse non al massimo, forse più o meno come l'ho vista il penultimo Natale, quando il male pareva avesse allentato la stretta.
Non voleva, per l'appunto, farsi stringere dal mio abbraccio, come se temesse che il senso di benessere ritrovato potesse smarrirsi al contatto con me.
Indossava la sua vestaglia rosso scuro, quella che le abbiamo visto più spesso nell'ultimo, troppo rapido, periodo.

Il prossimo 4 aprile sarebbe stato il suo compleanno. Ricordo troppo bene quello dell'anno scorso, ma non sono ancora in grado di dire come mi comporterò questo sabato né a Pasqua.

Sono giorni pieni di presente: mi vergogno quasi di ammettere di aver passato momenti belli durante questo mese. Dopo tanta stasi, preceduta da troppo dolore e angoscia pura, non riesco ancora a credere di essere riuscita a provare un po' di leggerezza.

La protagonista di Bones (uno dei miei attuali miti televisivi) direbbe che è colpa dell'educazione cattolica ricevuta, ma al di là di questo, quando soffri per davvero, guardi tutto con occhi totalmente differenti.

Vorrei ridere di cuore, lo confesso. Vorrei saltare da una stanza all'altra come facevo un po' prima della foto veronese di cui vi parlavo prima. Ogni tanto, certo, mi succede eccome di zampettare come la gatta Bice. La mia tendenza all'ironia (al sarcasmo, anzi) non mi abbandona mai.

E tuttavia non basta.
E' arrivata pure la primavera, persino qui a Fermo fa meno freddo (non in casa nostra: ieri al ritorno c'erano 15 gradi). Il cambiamento è necessario.
Alcuni arrivano del tutto inaspettati; altri bisogna impegnarsi continuamente a cercarli.

Che fatica, insomma. Sarà per questo che poi si ride a mezza bocca.
Per le risate con le lacrime ci vuole qualcosa di più.
Aspetto di vederle affiorare, accanto a quelle di commozione e di nostalgia, che ogni tanto, negli ultimi miei due viaggi verso nord, sono scese senza che potessi farci nulla.

Grazie, mamma, per tutto quello che mi hai dato.
Mi pare (lo dico piano) che stia germinando sempre di più.
Continuerò a non smarrirmi. Continuerò a rinascere, come tu hai saputo fare tutta la vita.

Buona Pasqua a tutti.

martedì 20 gennaio 2015

Le radici e il clan allenato alla pazienza


Spero proprio che mio zio Gigi non se ne abbia a male (mio padre, ormai, è diventato una star di questo blog), ma oggi desideravo proprio questo ennesimo amarcord.
La fotografia che pubblico stavolta era tra le centinaia conservate da mia mamma nel suo armadio stracolmo di oggetti disparati, come quasi tutti i mobili della casa parentale.

In questo momento vi stanno rovistando dentro mio padre e la sua zia-sorella, una persona dotata di una simpatia straordinaria, che negli ultimi anni si era molto affezionata alla sua nipote-sorella acquisita. Con la sua meravigliosa r moscia, ci stritola (non solo metaforicamente) e ci dice di amarci tutti. E' così bello sentirsi dire "ti amo" da lei, ti viene naturale ridirglielo ridendo, sì, ma con sincera convinzione.

E insomma. Eravamo a Francavilla Beach, se non vado errata qui avevo 29 anni: se ho ragione, ero giusto a metà della scuola di giornalismo. E doveva essere già fine estate. Perché durante l'estate facevo gli stage, quindi è improbabile che potessi essere in vacanza che so, a metà luglio.

Mio padre, che oggi ha detto di non aver mai amato il mare, esibisce una bella abbronzatura. Idem mia sorella. Credo (ma non ne ho la certezza) che la foto sia stata scattata dalla mamma, ed è in ogni caso evidente che siamo tutti molto rilassati.

Amo (come direbbe la zia-sorella-prozia-zia) il senso di pace che più o meno ha sempre regnato nella nostra famiglia. Nel tempo ho imparato ad affrontare atmosfere diciamo così più concitate e a discutere pure piuttosto aspramente, quando necessario.
Però i dialoghi difficili, i fraintendimenti e gli accapigliamenti mi affaticano assai.

E' così piacevole, invece, essere compresi al volo, fare battute intellegibili per chi ascolta e pure servirsi naturalmente di un linguaggio non verbale consolidato.
Del resto, siamo abbastanza clanici, se posso usare questa specie di neologismo, e infatti chi prova a entrare nella nostra famiglia allargata non sempre si sente subito a suo agio. Anche perché l'ospitalità meridionale può creare ancora più imbarazzo. "Mangia, mangia, prendine ancora, hai mangiato? perché non ne prendi ancora?", etc etc. E l'ospite di turno non sempre se la sa cavare.

Il tipo nero con cappellino si chiama Rai, Ibrahim per la precisione. Ai tempi era un giunco, oggi ha messo su una bella pancia di benessere; anno dopo anno abbiamo continuato a incontrarci sulla stessa spiaggia.
Gli ho mandato una copia della foto qualche mese fa direttamente in Senegal. Non ho idea se l'abbia ricevuta, ma ci tenevo tanto che la avesse anche lui.
Rai è rimasto molto colpito dal nostro lutto: "e la mamma?", ci ha chiesto pure la scorsa estate come fa sempre ogni anno.
Non riusciva a crederci. Aveva capito che tipo era, che tipi siamo.
Da buon commerciante già da tempo aveva rinunciato a venderci le sue borse taroccate, ma quando ha potuto ci ha portato collane e vestiti. E noi l'abbiamo accolto nel clan. Ufficialmente. E' pure venuto a vedere i piccini quando erano neonati.

Adesso i nipoti lo salutano e ci scherzano, il piccolo lo chiama Rai Uno.
Ricordo benissimo la prima volta che l'abbiamo incontrato: mia mamma amava fare acquisti sotto l'ombrellone. La nostra casa di Francavilla è ancora zeppa di animali di legno: li prendeva da un altro venditore, anche lui non poteva crederci che quella cliente tanto brava non ci fosse più.

Mi è capitato di rivedere questa fotografia e svariate altre perché ne stavo cercando una della sottoscritta per un lavoro che forse dovrò fare.
Non riesco ancora, in certi momenti, a capacitarmi che la mia mamma sia da un'altra parte.
In certi istanti la sento qui con me, in altri, semplicemente, mi sembra di non avere più passato.

Quella ragazza sorridente con il costume rosa mi sembra così diversa dalla donna di quasi 44 anni di oggi (a proposito: oggi è il mio mezzo compleanno. Ne ho parlato un paio di anni fa del significato di questo giorno per la matta che sono).

Dovevo appena aver bevuto una granita. Allora era assai caldo, perché non mi sembra di aver mai amato in modo particolare le granite. Mi piacevano i gelati confezionati (mi piacciono pure ora, veramente), e se potevo, ne mangiavo uno dopo il bagno del pomeriggio, come fanno adesso i nipoti.

A loro lo prendeva sempre la nonna: era anzi il loro appuntamento del pomeriggio. Sono stati proprio i bambini a farmi conoscere il cornetto sbagliato, una vera sciccheria.

Manca troppo mia mamma, manca a tutti noi, per poterne ancora parlare come di qualcuno che non c'è più.
Oggi ho messo i suoi pantaloni e i suoi orecchini. E l'ho cercata nello specchio guardandomi fisso negli occhi.
Un giorno, non adesso, la riascolterò mentre recita una poesia di Leopardi in una registrazione che ho fatto partire dal mio pc quando eravamo su skype quasi presagendo quel che sarebbe successo di lì a poco.
Leopardi è intriso di questa terra in cui vivo ormai da più di dieci anni. Una terra affascinante e segreta, con me, ahimè, non troppo clanica, mai abbastanza familiare, comunque.

Vorrei imparare a conoscerla davvero, spero di averne ancora la possibilità.
Sono grata ai miei per avermi insegnato a non arrendermi. A mia mamma in particolare per aver creduto sempre in me.
Se resisto, se sogno ancora, è per via delle salde radici di quel clan allenato alla pazienza che vedete sopra.

Posso solo dire, di nuovo, grazie.
E correre in palestra!

martedì 30 dicembre 2014

Vivere e amare, il resto non conta: buon 2015 a tutti


L'emozione di rivedermi cosi' meravigliosamente ragazzina e' stata grande.
Mi colpisce poi moltissimo l'espressione di papa', fiera - probabilmente - e rilassata.
Sembra quasi che sia lui solo a essere completamente a suo agio davanti all'obiettivo.
Del resto, chi sta scattando e' un giovane uomo che lui ha visto crescere, se non proprio nascere.

L'autore di questa dolcissima foto-ricordo e' infatti il figlio di una persona che tanto ha voluto bene ai miei genitori.
Di Amelia mio padre ha sempre parlato con aperta ammirazione. E' stata lei - ci ha raccontato molte volte negli anni - a partire per prima lasciando laggiu' nel Sud Italia marito e figli per tentare di risollevare le sorti dell'intera famiglia.
Un tentativo coronato da successo, determinato dalla tenacia di questa signora oggi purtroppo un po' malandata ma dal carattere ancora d'acciaio.

Vorrei avere solo un'oncia della sua tempra per uscire dal pantano in cui sento di essermi ficcata. Ma questa e' un'altra storia.
Torniamo alla foto.

Ci e' arrivata alla Vigilia di Natale, intorno all'ora di pranzo. Quando hanno citofonato, io ero sul balcone a godermi il sole caldo che da sempre mi ha reso la casa dei miei tanto gradita. Con il passare degli anni, anzi, mi sembra sempre piu' accogliente, considerate le varie stamberghe nelle quali sono andata a vivere (compresa la dimora fermana, un palazzo gentilizio, si', che pero' d'inverno sembra la residenza siberiana degli zar).

Assorta com'ero nei miei pensieri da felino indolente, sono andata ad assistere all'apertura del voluminoso pacco con neutra curiosita'.
Nemmeno davanti alla lettera appiccicata sul coperchio ho sentito mutamenti interiori. Solo quando ho visto la fotografia racchiusa in una molto appropriata cornice di legno e accuratamente incellofanata ho realizzato.

Mi sono subito uscite delle lacrime e anche mio padre, poco incline ai piantarelli, era visibilmente commosso. I bambini, pero', non capivano che ci fosse tanto da piangere, com'era logico che fosse, per cui tutti  e due siamo subito ritornati in noi, anche se da quel momento in poi mio padre si e' messo alla spasmodica ricerca del numero dell'affettuoso mittente e finche'  non e' riuscito a trovarlo, non si e' dato pace.

"Mi hai fatto tornare in mente il periodo piu' bello della mia vita", gli ha detto quando e' riuscito a parlarci.
Con mia sorella ci siamo fatte un po' di conti.
Ai tempi della fotografia  i nostri genitori erano piu' giovani di come siamo noi adesso. Forse la mamma aveva intorno ai quarant'anni, ma pure di meno, probabilmente.

E' impressionante come abbia conservato l'espressione di allora praticamente fino a quasi gli ultimi giorni della sua vita. La mano si muove nell'aria: sicuramente stava parlando, di certo voleva organizzare qualcosa o puntualizzare un qualche aspetto.

Allora, ma non ne sono certa, non doveva darle ancora fastidio essere ritratta. Negli scatti della sua maturita', invece, finiva sempre per mettersi una mano davanti al viso. Pero' spesso ci giocava pure con malcelata vanita'.

Nonostante le rughe e qualche segno sul corpo, nostra madre ci ha sempre tenuto al suo aspetto, con sobrieta', certo, ma mai con rassegnazione.
Se sia Linda sia io abbiamo potuto prenderci diversi dei suoi vestiti (e io personalmente anche varie borse e pure qualche orecchino e collana) e' proprio perche' aveva stile.

Venendo poi a Linda, pure lei e' straordinaria: che classe i suoi pantaloni con la riga e la posa plastica delle sue braccia magre, identiche (giuro) a quelle che ha oggi.

Sembriamo tutti e quattro quello che effettivamente eravamo: turisti perfetti, con tutti gli accessori giusti per quegli anni. La fotocamera, la cartina, la borsa a tracolla, la sigaretta del papa' al centro, come il suo sorriso, insieme con quello della mamma e al mio appena appena accennato.

Insomma, se mai avessimo avuto bisogno di qualche altra prova, adesso ce l'abbiamo: siamo stati una bella famiglia, come tante altre, ovvio, ma dotate di quella straordinaria normalita' che prima o poi, da adulti, finisce per mancarci come l'aria.

Fino agli anni dell'universita', per dire, io personalmente non avevo idea che potessero esserci famiglie infelici e, pensando ai problemi della nostra, ho realizzato solo molto tardi quanto fossero veramente risibili.

E non sto parlando solo dell'aspetto economico che pure, certo, ha contato assai.
Due genitori che lavorano permettono ai figli una sicurezza davvero miracolosa pure di tipo interiore.

Piu' importante ancora e' stata la sicurezza psicologica e morale nella quale siamo vissute fino a pochissimo tempo fa. Fino alla malattia della mamma, voglio dire.

Solo due anni fa e poco piu', voglio dire, non sono stata del tutto consapevole (parlo solo per me, non so se mia sorella la vede esattamente allo stesso modo) di quanto io abbia ricevuto, praticamente tutta la vita.

Adesso, invece, so che sto ancora ricevendo; ho potuto verificarlo in questi giorni di vacanza, proprio quelli che dovevano essere i piu' tristi, che invece sono diventati i piu' maledettamente belli mai vissuti finora.

Al miracolo ha contribuito anche l'autore di questa fotografia che ringrazio di nuovo dal piu' profondo del mio cuore.
Al resto hanno pensato i miei zii e i miei cugini, che ci hanno letteralmente rimpinzato di cibo e di calore.

Sentirsi vivi e amati e' un privilegio.
Ma per arrivare ad averlo non bisogna avere paura di vivere e di amare noi per primi.
Cerchero' il piu' possibile di non dimenticarlo mai.

Se potete, fatelo anche voi.
Buon Anno a tutti.


sabato 23 agosto 2014

Le foto di famiglia e l'amore che non muore


Per fortuna non era andata persa. Per fortuna ci passiamo quasi sempre le fotografie che scattiamo.
L'avevo cercata tanto nei giorni in cui volevamo scegliere l'immagine ricordo, ma niente, era sparita dall'hard-disc esterno. Sul pc, ovviamente, non c'era: quello precedente all'attuale ha smesso di funzionare di punto in bianco, senza preavviso.

E invece eccola qui. Bellissima. L'ho scattata io, ma non conta, in fondo. Anche se, naturalmente, sono orgogliosa di aver documentato moltissimi momenti felici.
Forse è diventata un poster, forse lo diventerà presto. In ogni caso, guardarla m'immalinconisce e insieme mi fa sorridere.

Quei due piccini oggi sono così diversi e uguali. Non sembra possibile che siano stati tanto minuscoli. Da poco ho provato l'esperienza di zia ospitante: era la prima volta che i nipoti passavano più giorni senza entrambi i genitori. E' stato impegnativo, certo, ma così coinvolgente da lasciare un vuoto disorientante.
Pure i gatti ne hanno risentito: il pomeriggio dopo la partenza erano distrutti. Felici anche, probabilmente, al contrario degli zii.

Ho finito da sola il numero delle Cipolline che hanno dimenticato: mi ero talmente compenetrata nella parte della voce narrante che non mi andava di lasciare la storia a metà. Ieri, però, il nipote piccolo mi ha intimato di riportargli il libro. Certo che lo farò, così almeno posso finire di leggerglielo.

Ho fatto, molto parzialmente, le veci della nonna.
Il piccino, quello che all'apparenza sembra già un ultrà, mi ha parlato delle letterine che quando era ancora più piccino gli scriveva la nonna. Gli ho risposto che le scriveva pure a me, anche adesso che sono più che grande. Mi è sembrato che si sia stupito, ma forse non lo era.
La nonna era speciale.

Non riesco ad aggiungere molte altre parole, se non l'ennesimo grazie per tutto l'amore che ho ricevuto e che malamente cerco di dare a mia volta. Non a tutti, ovvio, ma a una buona parte di persone sì. Sono fatta così, del resto, non posso sempre vergognarmi di come sono.

Aggiungo solo un ps per mia sorella: La gita di mezzanotte di Roddy Doyle è stato davvero un bel regalo. Per chi non lo conoscesse, parla di quattro generazioni di donne che si incontrano: una di loro è un fantasma. Sarebbe una storia per ragazzi, ma va benissimo anche per ex-ragazzi come me e come tutte quelle persone che non sanno (ancora o mai) spiegarsi perché si debba morire.

Grazie, Linda. Ti voglio bene. Anzi: LE voglio bene (lei sa perché scrivo così).
E adesso basta smancerie.
Tsk.

mercoledì 19 marzo 2014

Gena Rowlands, la donna speciale che vorrei essere




Anche se la tecnologia va avanti, non riesco a liberarmi dei vhs. Soprattutto di quelli che non ho ancora visto, convinta, come mi capita con i libri, che lo farò, un giorno o l'altro.
Tra i film in pellicola rimasti sull'apposito dispenser a colonna (un accricco che fa pensare un po' a un'alabarda. Utile ma non molto bello, devo dirlo), c'è anche La sera della prima, con Gena Rowlands. Ricordo di aver comprato la videocassetta attratta dalla trama. Una specie, se non vado errata (ossia, fino a visione effettuata, chissà quando), di Viale del tramonto aggiornato agli anni Settanta.

Di una cosa, però, sono sicura: quando lo guarderò, adorerò l'interpretazione di questa grande attrice americana, classe 1930, oltre che tout court donna di gran classe.
Se potessi scegliere, vorrei essere più o meno come lei.

Ieri sera, per dire, ho visto il primo film in cui debuttava alla regia suo figlio Nick, Una donna molto speciale, ma, poco fa, leggendo la biografia di Gena, ho scoperto che l'attrice ha lavorato in prevalenza con il marito John, celebrato (ma a me sconosciuto: perdonate la mia ignoranza) regista statunitense.

Trovo interessante che una donna, all'apparenza così fiera e indipendente, abbia costruito in fondo i suoi successi più grandi grazie ai legami familiari.
Certo, l'ha diretta (oltre che voluta fortemente) anche Woody Allen e nella scheda che ho compulsato di Mymovies si precisa che sia riuscita comunque a mantenersi autonoma da consorte e figliolo.

Però. A volte ho l'impressione che siano proprio le donne "speciali", come il personaggio di Mildred che ho conosciuto ieri sera, ad aver maggiormente bisogno di un focolare domestico in qualche modo sicuro.
Senza un posto al quale fare ritorno, senza affetti significativi, forse sarebbero costrette a dire addio a tutta la loro conclamata forza.

O forse sono solo in giorni più fragili, chi lo sa.
In tutti i modi, ho trovato commovente e molto plausibile il finale di questo piccolo film. Non ve lo racconto nei dettagli, casomai voleste guardarlo, un giorno.

Posso solo aggiungere che ha amplificato l'effetto, già abbastanza potente, che aveva prodotto su di me il finale della puntata di ieri sera delle Gilmore Girls, oggi in replica a ora di pranzo.

Quando ci si sente bloccati, non va mai bene.
Bisogna cambiare, anche di pochissimo.
Perché se non lo facciamo per tempo, poi sarà troppo tardi.

Sembra che la Rowlands abbia dato la sua voce al personaggio della nonna di Marjane Satrapi in Persepolis, il film di animazione ricavato dall'omonimo fumetto da me molto amato.
Anche in questo caso si trattava di una donna forte e, come tale, di una che ha creduto molto nei valori della famiglia.

Anche io ci credo. Almeno, credo nei legami importanti, nel sostegno reciproco, nella forza che vicendevolmente ci si passa al momento del bisogno.
E sì, lo ammetto: senza punti fermi non ce la potrei mai fare.
Anche se la forza e l'indipendenza, per me sono ancora punti di arrivo.

Senza sfide non si vivrebbe, d'altra parte.
Ne ho ancora una bella grossa da sostenere.
Allora, basta piagnistei (ammessi solo quelli di pochi minuti, in bagno, o al limite, senza testimoni) e avanti.
Non c'è altra scelta.
Almeno, io so di non averla.
Grazie, idealmente, Gena.
Godetevi il video sopra, adesso.
Che donna!


martedì 18 giugno 2013

Portugal di Cyril Pedrosa e il mio nome, sempre quello, dovunque vada

Portugal, Cyril Pedrosa, dettaglio della copertina

Ho preso Portugal di Cyril Pedrosa (classe 1972) con l'ultima quota del mio premio in libri. Pubblicato in italiano da Bao, una casa editrice di Milano che ha scelto come logo, com'era prevedibile, un cagnolino, di quelli con il muso schiacciato e le orecchie tonde, è l'opera più importante scritta finora da questo disegnatore franco-portoghese, che ha saccheggiato (da quel che ho capito) dalla storia vera della sua famiglia.
Il protagonista, ovviamente, ha un altro nome, ma è piuttosto probabile che le idiosincrasie che l'autore gli ha attribuito siano identiche alle sue.
Pedrosa era, come il suo Simon Mucha(t), la consonante finale aggiunta dai francesi dopo l'emigrazione dei suoi nonni nella terra dello champagne, in crisi creativa e personale.
Per ritrovare l'una e l'altra, decide di compiere un viaggio nei luoghi d'infanzia di suo padre e prima ancora di suo nonno, di cui a un certo punto si erano perse le tracce.
Il risultato è una storia fortemente malinconica e poetica. A tratti, certo, si sorride, soprattutto quando il giovane alter ero dell'illustratore partecipa al matrimonio della cugina, ritrovandosi non si sa come nella vecchia auto della zia, ex figlia dei fiori, e con suo padre e il fratello di lui, questi ultimi sempre disponibili a stuzzicarsi vicendevolmente come da ragazzi. C'è anche un piccolo dramma, che si risolve, per il momento, senza grosse conseguenze, ma tutto su Simon sembra effettivamente scorrere, come il fiume il cui odore non aveva mai imparato a conoscere, a differenza di suo padre e dei suoi zii. In quello stesso fiume il protagonista finisce per immergersi, in una sorta di ritorno al ventre materno graficamente rappresentato da vignette bianco-celesti sul suo corpo nudo, che sembra liquefarsi al contatto con l'acqua.
Bellissimo è il finale, che naturalmente non posso trascrivere, per non rovinare la sorpresa a chi volesse leggere questo librone assai poco maneggevole, ma di spessore autentico.
Mi limito a commentarlo con un rimando alla mia storia personale. Come i Pedrosa-Mucha(t), nonno e nipote, mi sento spesso una senza patria, ma d'ora in avanti terrò a mente la frase che chiudeva l'ultima cartolina che il primo mandò un giorno al fratello rimasto in Portogallo. Non ho con me il libro, quindi chiedo venia per l'eventuale imprecisione nella citazione. La cartolina si concludeva più o meno così: "Dovunque io vada, sono Abel Mucha e basta".
Ecco. Dovunque io vada, dovunque mi trovi, sono quello che sono, con tutto il mio passato e il mio presente. E forse anche un pezzetto di futuro.
Il mio passato è fatto di personaggi che probabilmente Pedrosa sarebbe in grado di disegnare. Se li avessi conosciuti io, invece, probabilmente li avrei fotografati. Adesso posso solo descriverli a parole.
C'era una volta Gerardo Cacchione, un tizio dal cervello bacato, che girava per Chieti, quando mia madre era bambina, con un bisunto pastrano militare, di quelli che tenevano caldi anche i pastori, come ho scoperto la scorsa primavera, sentendo i racconti di due coetanei dei miei dall'infanzia sicuramente più dura. Perché mai era famoso? Perché gli piacevano le femmine. Come lo dimostrava? Facendo risalire le sue manacce luride sotto le loro gonne su su fino al fondoschiena. Le mutande, ai tempi, erano una rarità. Chissà quante botte avrà preso da mariti e fratelli.
Chiuppappà, invece, era innocuo, ma si arrabbiava da matti quando lo chiamavano così. Anche perché lui era tanto servizievole e non trovava giusto che lo si prendesse in giro con quello stupido nomignolo. Era lui ad andare a ritirare la spesa al mercato, sempre a lui chiedevano anche altre piccole commissioni in cambio di pochi spiccioli. Ma Chiuppappà no, se glielo dicevano, diventava rosso di rabbia, anche se cercava di trattenersi, fino a esplodere, come l'Etna.
Ad Atessa, invece, il paese in cui ho passato i miei primi sei anni di vita, prima che mio padre fosse trasferito a Chieti, circolava una certa Elena la 'ndò ndò, le trecce e un cervello da bambina, che non le avevano impedito di trovare marito e fare pure figli. Tutta agghindata come una pupetta, non sembrava avesse ambasce di sorta. Chissà se è stata sempre felice.
Anche se non li ho conosciuti di persona, come Mucha(t) con il nonno Abel, insomma, fanno parte di me e mi rappresentano. E continueranno a farlo, dovunque vada la mia vita.
Bravo Pedrosa; e grazie per avermi restituito il mio nome.

giovedì 7 giugno 2012

Pratiche di resistenza (disadattata) ai cafonacci

Carlo Verdone in Troppo forte
E fu così che mi alzai dal lettino di legno pesante (quelli di metallo sono arrivati qualche anno più tardi) e andai a dire al bagnino se per cortesia potevano abbassare un po' il juke-box perché non riuscivo a sentire la musica proveniente dalle mie cuffiette. Doveva trattarsi del walkman arancione, plasticato, non di quello dal design più elegante che utilizzavo ancora a inizio 2000. Ero molto giovane e molto polemica, insomma, e quando potevo, cioè quando le giornate non erano troppo calde, scendevo in spiaggia con la maglietta del Manifesto, quella con il neonato che dormiva beato e la scritta "la rivoluzione non russa" stampata sotto l'immagine.
Mi sentivo in lite con il mondo intero? Ma no: solo con i frequentatori del lido El Pareso, Francavilla al Mare, al confine con Pescara, il regno di Gomorra, come ebbe a dire mia sorella non più di tre-quattro anni fa.
Eppure, in un certo senso, quel posto è rassicurante: nonostante sia trascorso poco più di un quarto di secolo dalla prima volta che ci siamo capitati, la mia famiglia d'origine ed io, e benché oggi si sia in preda di una crisi più nera dell'abbronzatura di molti dei suoi avventori, lì sembra che il tempo non sia mai passato. E nemmeno il mio atteggiamento ostile, aggiungerei, e quel perverso (ma sì, è così) masochismo che ci fa tornare tutti là di anno in anno, benché sia chiaro che l'antipatia sia reciproca. Poi, certo, l'ombrellone a pochi metri dal mare, che in certi giorni ha una luce e una chiarezza che sembra di essere ai Caraibi, ci fa dimenticare tutto il resto. Fino al successivo "Vingenzo al bar" gracchiato dall'altoparlante, oppure, più spesso, al nuovo avviso "C'è da sposhtare urgendemende la mercedes parcheggiata in doppia fila", oltre, naturalmente, al silenzio squarciato dall'immancabile juke-box, che da una cert'ora del pomeriggio, negli ultimi anni, perennemente acceso quand'ero adolescente, avvilisce timpani e morale di chi vorrebbe giusto un po' di pace. E però, come dicevo, anche la famiglia Cicalini è preda dei cliché: perché tutte le volte che uno di noi è accolto (bastonato) dal fracasso, si domanda come sia possibile. Com'è che di anno in anno continua a esserci così tanta gente che si affolla nello stretto piazzale antistante la concessione senza tenere in alcun conto delle auto già posteggiate? E com'è che nessuno chiama direttamente il carro-attrezzi anziché ricorrere ai gestori dei due stabilimenti confinanti? E perché il juke-box è sempre a quei decibel da discoteca? E com'è che tutti i bagnanti (TUTTI) canticchiano a memoria le orribili melodie urlate dal dannato aggeggio? Perché siamo gli unici che non si mettono a ballare sul lettino? Le risposte sono molteplici, alcune più sociologiche, altre più freudiane.
Tra quelle del primo tipo, la più lampante e tautologica, direi anzi, "eziologica" è: perché, oltre a essere in Italia, qui siamo neanche a Francavilla, bensì direttamente nel regno dei cafoni.
Questi ultimi una volta li chiamavamo i rozzi, con la bella o aperta, alla chietina maniera. Mi piaceva in particolare come pronunciava la parola il nostro amico Marco M., con la sua voce fortemente nasale. In seguito, abbiamo preso a definirli cafonacci, istruiti in ciò da mio padre, che ha la seguente teoria: cafonaccio si diventa, ma già da bambini si è cafoncini, poi crescendo ci si trasforma in cafoni, infine invecchiando si acquisisce lo status definitivo.
E dire che appena sbarcata a El Paraculo, come l'aveva ribattezzato sempre il nostro amico Marco M. (un freddurista davvero unico), avevo anche provato a fare amicizia con i cafoncini-cafoni. Sì, perché ai tempi era una graziosa quattordicenne, facile preda dell'occhiale da sole a specchio a caccia.
E qui si entra nel regno delle spiegazioni psicologiche al nostro perdurante ritornare a Gomorra. Per darvene la sintesi più efficace, ricorro nuovamente a mia sorella e al bisogno familiare di scegliere le soluzioni più "scrause" per sentirci più vicini al popolo. Al popolino. Perché chi ci crediamo di essere, noi piccolo-borghesi di una cittadina del centro-sud, per disprezzare chi sta più in basso di noi? Starne a contatto, anzi, ci dà la misura della nostra superiorità e la conferma che mai, MAI, potremo scendere a quel livello.
Eppure. Eppure bisogna stare attenti. E secondo me io l'ho scampata bella, ma un po' ho rischiato, e precisamente proprio l'anno in cui siamo arrivati là.
Ma mi sono ripresa in fretta, favorita anche da mia sorella, ben più avanti nel processo di de-scrausamento. Grazie a lei, infatti, già alle medie avevo appreso che la giacca di jeans senza maniche che a me tanto piaceva, era un chiaro simbolo di rozzezza o rozzeria (un'altra parola molto in voga ai tempi), e che mai, MAI, avrei dovuto indossarne una. Il liceo classico ha fatto il resto: nel giro di un inverno mi sono trasformata in una disadattata, anche se per la presa di coscienza definitiva della mia attuale condizione ho impiegato tutti gli anni intercorsi da allora.
All'inizio del processo, dunque, ero troppo apertamente ostile, il che mi permise, sì, di tenere a debita distanza il grosso degli habituè balneari, però in cambio finii per condannarmi a una sorda e annoiata solitudine nelle giornate più belle dell'anno e della vita, tutto sommato.
Ogni tanto, certo, era possibile riderne insieme, come quella volta che, di ritorno dalla spiaggia, mi sentii apostrofata da un gruppo di operai in pausa pranzo, nel ristorante sull'angolo della stradina che mi avrebbe ricondotta a casa. "Valendino, valendino, valendino", ebbe a pronunciare una voce da baritono e di una lentezza messicana, mentre passavo con la mia maglia a metà coscia (le mie odiate cosce) a pochi metri da loro.
Con mia madre e mia sorella ci ridemmo su e ancora oggi, quando rivanghiamo l'episodio, ci affiora una risata. E però, continuo a non capire. A non capire perché in tutti questi anni non abbiamo cambiato stabilimento. Sarebbero bastati pochi metri. Perché pure alla Siesta, dove di certo non c'è un circolo di intellettuali, però si sta meglio, se non altro perché il juke-box non è mai così alto.
Forse, però, una ragione c'era. Eccola l'illuminazione. Perché potessi finalmente scriverne, a futura memoria. Mia e della mia famiglia, i miei veri fan. Gli unici, forse, per cui accetto giusto un pizzico di scrausamento pur di passare un po' di tempo con loro.
Però, cari genitori, ve lo dico da adesso: per quanto mi riguarda, mai più a pranzo al Paraculo. Citando un anziano ex bagnante di origine foggiana, trasmigrato allo stabilimento fighetto poco più a sud dopo aver subito una grave offesa dai cafonacci gestori, pure io "indietro non torno".

martedì 10 aprile 2012

La vittoria nella vita


Scombussolata come posso essere solo dopo qualche giorno in terra natale, butto giù questo post per fissarlo, se possibile, per sempre. O almeno finché esisterà questa piattaforma di blog (ho scoperto da poco di aver perso tutti i post scritti su splinder. E pazienza: nulla è eterno).
Sono state giornate intense. Prevedevo la commozione generale, ma l'autenticità di quei momenti mi ha ripagato completamente della tensione dei giorni precedenti alla partenza. Una tensione difficile da sciogliere non appena varcata la soglia della casa dei miei genitori, come probabilmente mi capitava quando ero più giovane e la vita mi pareva ancora carica di molte promesse. Ma siccome so di essere letta proprio dalle persone che mi vogliono più bene, preciso che nessuno di loro è responsabile dei miei stati d'animo. Certo, vorrei che fossero fieri di me come un tempo, quando prendevo trenta agli esami o mi facevo strada (almeno così sembrava) nel lavoro.
Però il mio nervosismo e la conseguente difficoltà di prendere sonno per i primi due giorni, proprio in quel letto che prima mi pareva l'unico giaciglio in cui potessi veramente riposare, ha a che fare solo con l'incertezza del presente, contro cui continuo a lottare con tutte le mie forze.
Passata la Pasqua e lo scambio dei regali, per fortuna, i nodi si sono allentati e sono stata invasa da una grande tenerezza.
Trascrivo perciò di seguito le parole che mia sorella ha dedicato a mia madre, mutuate da Daisaku Ikeda, un autore che non conosco:

"Il desiderio di ripagare i debiti di gratitudine è un'energia infinita che ci spinge a crescere e migliorare più di qualunque cosa. La vittoria nella vita appartiene alle persone capaci di ripagare i debiti di gratitudine".

Mai frase mi ha illuminato di più negli ultimi tempi.
E chissà che i vuoti e gli "sfaccendamenti" del mio presente non mi stiano semplicemente dando la preziosa occasione di compiere, almeno in parte, la missione "vittoriosa".
Preferisco quest'ultima parola a "vincente", un aggettivo utilizzato accanto a "generazione" da un'ennesima agenzia interinale che ho scoperto con mia sorella dietro l'angolo di casa dei nostri genitori.
Ma oggi non voglio polemizzare né intristirmi.
Con il cuore ancora colmo di affetto e natura (che bei posti abbiamo visto ieri nella gita di Pasquetta! Io c'ero già stata una vita fa, perciò era come vederli per la prima volta) e un forte desiderio di dormire per riandare con la testa al recentissimo passato, prometto di fare il più possibile per crescere davvero usando la mia energia nel modo indicato da Daisaku (e da mia sorella).
A tutti i miei cari, grazie di tutto quello che mi date.
In un certo senso, credo che il miracolo della Pasqua, della rinascita intendo, si sia compiuto anche per me. Ed è solo merito vostro.

martedì 7 febbraio 2012

Fuga in rosa dall'Italia mammona (e sfigata)


Sapete che vi dico? Ha ragione Cancellieri. Che cosa? Come oso uscire dal coro di dissenso e scherno verso l'ennesima infelice uscita di uno dei nostri governanti?
Perché conosco i maschi italiani. Quelli medi e quelli speciali. Sì, perché la frase pronunciata da quella donna anziana, con la faccia da mamma nazionale, era sicuramente rivolta alle signore di pari ruolo (che poi molte di loro, compresa la ministra, ricoprano posizioni di potere in questo caso non c'entra).
Cancellieri, molto probabilmente, ha figli maschi; o, se non li ha, ce li ha sua sorella o qualche altro stretto consanguineo. I figli maschi vanno vezzeggiati fino a 69 anni, come direbbe Marco Presta (ma pure dopo, in caso di estrema longevità di mammà).
Ed è inevitabile, date queste premesse, che carni delle proprie carni cresciute così poi non abbiano alcun desiderio di allontanarsi (almeno non troppo) dal tetto natìo.
Tutt'altro discorso vale, invece, per le femmine italiane. Almeno, per quelle che hanno avuto la fortuna di andare a studiare fuori, grazie al denaro familiare (nel sud Italia, fino a pochi anni fa, funzionava in questa maniera anche tra le famiglie piccolo-borghesi come la mia) oppure per estrema cocciutaggine e perseveranza (ho una cugina, più povera di me, almeno nell'infanzia, che ha cominciato a lavorare a 19 anni in una banca toscana, ma, nonostante il monotono posto fisso, ha voluto a tutti costi laurearsi, riuscendoci a pieni voti).
E però, dall'altra parte, nella regione in cui sono venuta ad abitare, una magnifica area italiana del centro, fino a qualche anno fa non c'era granché necessità di emigrare per trovare lavoro. Qualcosa di simile succedeva anche in Toscana: non a caso, nella facoltà che ho frequentato io, una di quelle deboli che preparano futuri disoccupati, il grosso degli studenti era del posto o dei comuni limitrofi.
I "terroni", maschi e femmine, erano iscritti per la maggioranza alle facoltà scientifiche.
Se mi baso su quanto osservo qui, qualcosa mi dice che adesso sia cambiato tutto anche lì.
Per lavorare, bisogna per forza allontanarsi dalla mamma. Per andare dove? Di certo non a Milano o Torino, come si faceva una volta.
Chi ha coraggio ed energia dovrebbe imparare il cinese (l'indiano, l'arabo) e andare. Andarsene. Molti lo stanno già facendo.
Tornando in treno dal mio unico viaggio lungo degli ultimi tempi, ho incrociato due giovani, belle ragazze piene di progetti per il futuro. La bionda faceva esercizi di grammatica araba, la mora parlava di Sudamerica.
Ho provato una grandissima invidia per loro. Qualcosa di simile mi è successa di recente nei confronti di un giovane fotografo, da poco ripartito per il Brasile. Per me, quest'ultimo è un "eccezionale" maschio italiano, ma bisognerebbe vederlo alla prova del tempo.
Ne conosco molti altri, infatti, che non si sono mai spostati da casa propria, se non per temporanee, adolescenziali, escursioni verso la "vita vera".
Perciò, Cancellieri, hai ragione tu: visto lo stato deprimente in cui versa la patria, bisognerebbe andarsene via. Per la precisione, dovrebbero andarsene in massa le donne italiane, l'unico vero Made in Italy capace di "riprodursi" anche all'estero. Ho letto dell'idea di una mia cara amica di Milano di aprire un bar a Goa. So che l'ha scritto tra il serio e il faceto, ma penso, con tutta me stessa, che un paese come questo si meriterebbe se le donne che hanno ancora un po' di forza (soprattutto ideale) d'inventarsi un futuro se ne andassero tutte in luoghi in cui quest'ultimo sia ancora possibile.
Una volta partite loro, infatti, si trascinerebbero dietro i maschi italiani di ogni età. Con il rischio, certo, di ri-radicarli di nuovo nella patria adottiva e di tramandare i cattivi usi nazionali agli eredi (maschi).
L'ultima frase è scherzosa. Non c'è infatti niente di sbagliato nell'umano desiderio di mettere radici, per chi lo prova. Come mi ha detto un pediatra che ho intervistato tempo fa, è più che logico che le famiglie di nuova formazione vogliano stare vicino ai nonni: una volta si viveva tutti nelle grandi case familiari, dandosi vicendevolmente una mano nelle difficoltà. Oggi si abita in posti diversi, ma si ha l'identico bisogno di sostegno psicologico e materiale. Anzi. Oggi è anche peggio, mancando un Welfare adeguato a una società (bene o male) avanzata com'è quella italiana.
E quindi? Quindi nulla: la soluzione non cambia. Semplicemente, le donne italiane ancora dotate di coraggio ed energia dovrebbero emigrare e poi portarsi dietro nonne, zii e zie rimasti da soli.
Come si dice, scripta manent: chissà che non mi venga davvero voglia di comprarmi una grammatica cinese.
In ogni caso, spero, con tutto il cuore, che i giovani veri (di certo io non lo sono più: lo dicono le offerte di lavoro, sempre più umilianti, per tutti gli over 35. Peccato che non ne abbia già 55, almeno potrei concorrere per quelle. In verità, io non mi sento vecchia per niente. Anche per questo motivo, fanculo a questo paese che ti fa sentire tale) abbiano un sussulto di orgoglio vero e prendano atto che qui, in questo momento storico, per loro non c'è futuro. Per ricrearlo, dovrebbero mandare a casa questa classe dirigente vecchia (dentro e fuori), a tutti i livelli, compreso il cugino vigile urbano che ti toglie la multa o il sindaco di collequalcosa che ti trova un lavoretto. Finché non usciamo dalla logica dell'arrangiarsi a spese della collettività, infatti, non c'è alcuna speranza che le cose possano cambiare.
E chi non lo capisce (o fa finta di non capirlo) è sì sfigato e mammone.
Perciò, vecchia ciabatta di ministra, non scusarti. Semplicemente, fatti da parte. E con te, si facciano da parte tutti quelli che aspirano, semplicemente, a mettersi al posto tuo senza merito, bensì solo grazie alla spintarella giusta del barone/essa di turno.
Nell'attesa, imparerò tutti i segreti della cucina cino-pakistana.
Ma il curry mi resta un po' indigesto.