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martedì 2 novembre 2021

Omaggio a Vienna e alle vittime di Schwedenplatz, un anno dopo

 


Non vorrei si pensasse che di Vienna ho solo brutti ricordi.
Ho vissuto momenti non facili, direi proprio difficili, però, a modo mio, ho imparato ad apprezzare questa città a me così poco affine.

Ho molto rispetto per il culto dei defunti

Come quasi tutte le persone di origini meridionali, almeno di una certa età - delle nuove generazioni so pochissimo - ho sentito spesso raccontare dai miei genitori e dai miei nonni le storie dei nostri parenti nati e vissuti a cavallo tra Otto e Novecento. 
Di un prozio so, per esempio, che si sono perse le tracce nella campagna di Russia. Proprio qui dietro di me c'è il baule della nonna materna, ricoperto con un telo che pare sia arrivato dal Nord Africa: a portarlo in Italia fino alla cittadina di provincia piazzata su uno sconosciuto colle a pochi chilometri dalla costa adriatica, un parente non meglio identificato, forse sempre in tempi di guerra.

Torniamo però al presente, al passato recente, almeno. 
Dicevo di Vienna e dei defunti. Oggi anche lì si dedica un pensiero ai cari che non ci sono più, quindi anche alle quattro persone (due donne e due uomini) che hanno perso la vita nell'attentato che ha colpito la mite capitale dell'Austria nella sera del 2 novembre di un anno fa

Tutti i giornali austriaci, naturalmente, hanno ricordato i fatti di quella folle sera. C'è chi, come il quotidiano Der Standard, cita per l'anniversario un sondaggio secondo il quale un terzo degli austriaci (per la precisione, in Austria e credo anche in Germania, si scrivono sempre entrambi i generi femminile e maschile, quindi in questo caso "per le austriache e gli austriaci") teme un nuovo attentato.

Un terzo di non so quale campione, lo so, di per sé non vuol dire nulla. E d'altra parte, non ho alcuna intenzione di addentrarmi in un'analisi sulle paure percepite e reali dell'essere umano davanti all'universo delle possibili disgrazie cui siamo esposti giornalmente.

Di certo un fatto di quella tragica portata ha lasciato qualche strascico nell'immagine rasserenante che restituisce ai turisti il centro città, quest'anno di nuovo acceso dai mercatini natalizi dopo un lungo, estenuante, periodo di buio (mi piacerebbe vederli, non ve lo nascondo, soprattutto vorrei teletrasportarmi in quello davanti a Schönbrunn a bere uno zuccheratissimo Glühwein in mezzo a gente ogni età e angolo del pianeta).

Credo però che una quota significativa dei viennesi (delle viennesi e dei viennesi) purosangue abbia tuttora fiducia negli anticorpi prodotti in grande quantità dalle istituzioni democratiche di questo piccolo fazzoletto d'Europa. Un tempo in fondo non così lontano, del resto, Vienna, e di conseguenza anche le province della montagna più impervia vicine ai confini italiani, era la capitale dell'ultimo impero d'Occidente. 

Per brevi momenti, a mio avviso, proprio l'attentato aveva risvegliato in alcune cittadine e cittadine dalle radici ben piantate lungo il Danubio una nostalgia per quei quei tempi andati, che mai più ritorneranno, certo, ma che hanno contribuito a mantenere per secoli Vienna al centro della storia del mondo.

Le cose cambiano, lo dico spesso in questi ultimi mesi, e aggiungo anche, di solito, meno male.

Vienna non è più da un pezzo la capitale di un impero, ma non sembra essere un teatro d'azione particolarmente ambito dagli esaltati con barbe e non, muniti di cinture esplosive e kalashnikov (almeno, me lo auguro proprio con tutto il cuore: prima della tragedia dell'anno scorso l'ultimo attentato risaliva a quarant'anni prima).

Non ho idea di come vivano questa triste ricorrenza i parenti delle quattro vittime di Schwedenplatz (e dintorni), né quanti lumini e luci siano arrivati a sostituire quelli che avevo fotografato l'anno scorso, pochi giorni dopo i fatti. 

Poco prima di lasciare l'Austria per sempre, sono tornata nella piazzetta che vedete sopra e l'ho trovata desolatamente vuota, a parte la lapide grigia voluta dalle autorità. Ho conservato per un po' la foto nel telefono, ma poi l'ho cestinata: mi metteva troppa malinconia. Mi pareva il segno chiaro tracciato dalla città: vogliamo andare a capo, basta con il cordoglio, basta lacrime.

Ecco: se c'è un tratto caratteriale che attribuisco alla città che non mi manca è questa specie di freddo distacco dagli orrori del mondo. 
Di sicuro non vale per tutte le austriache e gli austriaci, ovvio, però l'altra faccia di quel senso generale di condivisione dei principi del vivere civile che molto apprezzo e per cui provo a tratti anche un po' di invidia, è il formalismo, è la burocrazia gelida, è l'ottusità secondo me un po' codarda di chi non accetta l'esistenza stessa degli imprevisti. 

Credo sia per questo che, alla fine, pur essendo rimasta molto affascinata dalla durezza algida di Vienna, dai suoi cieli senza luce, il suo vento teso, alla fine non sono riuscita ad innamorarmene.

Non so come sia Parigi davvero (tolti i lustrini della Ville Lumière, voglio dire) né ho intenzione di ripetere (almeno non al momento!) l'esperienza di migrante internazionale, ma, basandomi su quello che ho visto con i miei occhi, su quello che ho letto in solitudine e su quello che ho ascoltato con le mie orecchie, a proposito dei fatti di Vienna, ho trovato che parta da un piano totalmente differente il racconto che lo scrittore Emmanuel Carrère sta dedicando alla tragedia del Bataclan, seguendone il processo appena partito. 
Ho letto la prima puntata del suo resoconto su Robinson, l'inserto culturale della Repubblica, e ne sono rimasta fortemente impressionata. 

Le proporzioni dei due attentati, certo, sono molto diverse (a Parigi sono morte 130 persone, tra cui l'italiana Valeria Solesin, e 400 persone sono rimaste ferite: molte di loro ancora oggi portano visibili i segni della strage come stimmate sui loro corpi). 

Il vuoto lasciato da chi non c'è più, tuttavia, resta identico, che si tratti di una persona sola o di cento. 

Spero, in definitiva, che ci siano stati oggi momenti di autentico cordoglio nella mia ex bellissima e austera città, e che si sia magari anche riso facendo riaffiorare qualche momento gioioso vissuto insieme con le quattro persone volate altrove. 

A chi c'era oggi alla commemorazione, a chi ha ricordato a modo suo anche rimanendosene a casa, a chi si è concesso addirittura un pianto vicino o lontano che fosse, e infine a Vienna tutta, quella bella e quella brutta, il mio abbraccio più sentito

mercoledì 13 ottobre 2021

AAA: Madamatap è tornata... E cerca lavoro!


Riassumendo: da inizio luglio sono tornata in Italia. Definitivamente.

Mi sono accorta da vari segnali sui social che un sacco di miei conoscenti non l'aveva capito. 

Non che ci tenessi, evidentemente, a mettere i manifesti.

Avevo bisogno di riprendere confidenza con il mio Paese, la mia cittadina adottiva (Porto San Giorgio) e quella natale (Chieti).  

Tutto qua. 

E però, finita l'estate da un momento all'altro (ma proprio letteralmente: ho fatto il bagno l'ultima volta il 4 ottobre), mi sono resa conto che, se non proprio i manifesti, almeno qualche piccolo poster bisognava pure che lo appendessi. 

E sì, perché ho bisogno di lavorare e, come immaginavo già da prima di tornare (anzi: già da prima di trasferirmi a Vienna), il lavoro qui (particolarmente qui, ma anche oltre confine, ve l'assicuro) lo si trova più facilmente per conoscenza diretta.

Ovviamente, non sto parlando di raccomandazioni (se fosse così, non avrei bisogno di scrivere questo post): sto parlando proprio del classico passaparola.

Ecco. Più di qualcuno adesso si starà domandando, come ai vecchi tempi, "che cosa vuoi fare?". 

Darò una risposta probabilmente scontata, ma è l'unica che mi viene in mente: "Tutto". 

Specificando un po' meglio, tutto quel che il mercato del lavoro mi darà la possibilità di fare quando me ne darà l'occasione. 

Ad insegnarmelo, è stato il passaggio in Austria, dove mi sono trovata a sperimentare la doppia vita di lavoratrice dipendente con contratto a tempo indeterminato e di disoccupata con sussidio continuativo. 

Gli inizi, dell'una e dell'altra esistenza, sono stati complicati per via della limitata conoscenza del tedesco e del rigido protocollo da seguire.

Una volta sistemata la burocrazia, tutto è poi filato liscio fino all'ultimo giorno. Gli asburgici hanno finito di versarmi ad agosto di quest'anno tutto quel che mi spettava, fino all'ultimo centesimo. 

Finché sono stata lì, in cambio l'Agenzia del lavoro (chiamata Arbeitsmarketservice, in sigla AMS, temutissima da me, quando la vedevo lungo le ciclabili con quei caratteri cubitali in blu e rosso) mi ha chiesto solo di mostrarmi attiva nel mio desiderio di reinventarmi un futuroCome l'ho fatto? In primo luogo, ho frequentato due corsi di lingua tedesca incrociandoli con gli incontri con le consulenti specializzate nel supporto al lavoro al femminile

Sulla mia strada ne ho incontrate tre, più una quarta che è stata quasi un'amica, e varie altre figure di contorno, compreso il simpatico turco, Taylan K., ex giornalista laureato in Scienze Politiche come me, che mi ha parlato di Berlusconi. 

Della prima consulente, ho già scritto qui, come forse qualche amico lettore ricorderà. Ai tempi stavo per sostenere il mio esame B1 di tedesco e pensavo di potermi candidare anche per posizioni, diciamo così, più basic: a detta della consulente, avrei potuto provare a fare la commessa in qualche negozio italiano del centro, dato che, a suo dire, l'austriaco parlato da una figlia della terra do' sole è considerato "charmant". 

Tutto questo succedeva quando il Covid era già tra noi e i negozi, compresi quelli che mi avrebbero dato (forse) della charmant, erano chiusi o stavano per farlo. Idem per i musei, dove ho tentato di candidarmi per fare la sorvegliante (Museumsaufsicht, ricordo ancora la dicitura che inviavo all'AMS nei report periodici sulle mie candidature). 

Per fortuna, il sussidio era sempre lì a sostenermi, per cui, tra una foto alle pipe di mio marito e l'altra, ho continuato a tenere duro.

Soprattutto, sono andata avanti con lo studio del tedesco, ottenendo anche il B2 alla vigilia della, credo, seconda ondata viennese e relativo lockdown. 

Salto qualche passaggio per arrivare alla prima parte di quest'anno, quando ho conosciuto le altre due consulenti.

Katarzsyna S. è una quarantenne di origine polacca, con occhiali ed espressione bonaria su viso rotondo e fisico solido. La prima volta ci siamo viste su Skype. Non sapendo che cosa aspettarmi, per l'incontro mi ero messa persino il rossetto.

Lei, invece, indossava una felpa oversize, sfoggiando anche una grossa pinza nella quale aveva raccolto i suoi lunghi capelli chiari. 

Abbiamo chiacchierato a lungo, mi ha parlato di Freude, gioia, in quello che si fa per campare, di Beruf, lavoro nel senso di professione, mestiere, impiego e Berufung, vocazione, sottolineando quanto sia importante fare qualcosa che ci somigli, come si dice. 

Io la guardavo con rispetto, questo sì, ma anche con un pizzico di perplessità, non per le sue belle e rassicuranti parole (intervallate da materni Frau Cicalini, pronunciati sempre con grandi sorrisi), ma per le reali probabilità che dalle sue belle parole la sottoscritta potesse arrivare un giorno ad avere un nuovo lavoro, pagato, ovvio, ma anche foriero di gioia. 

Con Kate ci siamo viste online almeno altre due volte. Indimenticabile quella in cui, di ritorno dall'Italia, il Bipede ed io siamo stati accolti dal riscaldamento rotto. In vista del mio appuntamento con lei, mi sono lavata almeno i capelli, scaldando le pentole sul fuoco. A pochi metri da me, dall'altra parte dello schermo del mio computer, stazionava il proprietario intento a discutere con l'idraulico su come rianimare la caldaia defunta (e per fortuna alla fine sostituita con un modello endlich, finalmente, moderno).

Ma dello scrauso ho già parlato, quindi andiamo avanti.

L'ultimo incontro con Kate è avvenuto di persona. Di persona personalmente, avrebbe detto Catarella.

Era fine maggio, la decisione di rimpatriare era già stata presa, ma lei ci ha tenuto comunque a incontrarmi. Ci ha tenuto perché? Forse le ero anche un po' simpatica - con gli estranei faccio spesso la giullare - ma credo che in verità il motivo fosse un altro. Il fatto era che tra le consulenze alle donne disoccupate la sua società prevedeva anche le passeggiate in natura a due, o in gruppo. 

Ok, le ho detto via mail, vediamoci pure. Posto prescelto per il Berufungsausflug (me lo sto inventando adesso: vorrebbe dire qualcosa del tipo gita motivazionale) il parco di Schönbrunn, il mio posto del cuore a Vienna.

Mi ha parlato dei suoi nonni polacchi e del fatto che non fossero stati contenti che i genitori la portassero a vivere proprio nella terra dei nemici di un tempo. Kate alla fine si è inserita, ci ha messo un po', ha precisato, ma alla fine di Vienna le piace, le piaceva, la Gemütlichkeit, la tranquillità. Per lei, mi diceva mentre camminavamo, da sempre abituata ad andare a mille (un periodo si era pure lei trasferita all'estero, non mi sovviene dove, forse il Canada), Vienna è insomma un posto dove non c'è alcun motivo per correre. L'ho ascoltata con sincero interesse, anche quando sosteneva che gli italiani fanno più fatica degli stranieri provenienti da altri Stati, a inserirsi in Austria. Un po' come noi polacchi, mi è parso di cogliere tra le righe. 

Sia come sia, lieta di come si era svolta la nostra camminata motivazionale, alla fine le ho chiesto se potevamo scambiarci gli indirizzi

Le ho scritto io pochi giorni dopo per mandarle una foto, poi non ci siamo sentite mai più.

Non importa, è giusto così, però io dovevo mandarle quello scatto così straordinario.

Mentre eravamo intente a vergare i nostri indirizzi sedute su una panchina, a pochi metri da noi gironzolava una volpe, rossiccia e quieta, perfettamente a suo agio tra noi e gli altri umani che passeggiavano per il parco e che naturalmente avevano preso a fotografarla.

Kate, che credeva un po' nello sciamanesimo o in qualcosa del genere, mi ha parlato di quell'incontro tra noi e la bellissima quattrozampe come di un segno. Non saprei dire di che cosa, ma è comunque un ricordo che porterò per sempre con me, insieme con le sue parole sul mio valore. Non dimenticarti mai chi sei e quanto vali, mi ha detto. Grazie ancora, Kate, qualunque cosa tu stia facendo adesso, chissà se davvero sempre a Vienna. 

Tolto il momento amarcord, mi tocca arrivare al punto nodale di questo lunghissimo post.

Dicevo che le consulenti che ho conosciuto erano tre.

L'ultima, solo in ordine cronologico, è Bettina H. Se oggi sono qui finalmente a casa mia, lo devo infatti essenzialmente a lei.

Giornalista di formazione e presumo di professione, l'ho scovata scoprendo per caso il progetto di reinserimento al lavoro dei pennivendoli come la me di un tempo, chiamato Ajour.

Finanziato anche questo dall'AMS, ho potuto accedervi sempre perché ho lavorato (come speaker di una radio in store finanziata dal gruppo Rewe) con un contratto superiore a dodici mesi e perché sono munita di una qualifica professionale, che evidentemente riconoscono anche lì. 

Per essere inserita nel progetto, ho sostenuto un colloquio con un collega presumo pensionato, un austriaco anziano dal fisico da camminatore di montagna e giacca di tweed marroncina.

Molto simpatico, molto giornalista vecchia scuola, mi ha accolto in una specie di Circolo della stampa non troppo dissimile da quello milanese: ci siamo capiti, avevo in effetti già in testa di rientrare in patria e ho apprezzato tantissimo il tempo passato insieme a spulciare sul web le aziende austriache che hanno contatti con l'Italia.

Salutandoci, mi ha allungato il depliant più dettagliato del progetto Ajour ed io ho notato che tra i loro consulenti c'era anche uno psicologo. "Ci sono molti colleghi che ne hanno bisogno", mi ha spiegato rispondendo a una mia domanda vagamente ironica sulle ragioni che li avessero spinti a prevedere un supporto del genere. Ho smesso immediatamente di fare la stupida, ho ringraziato e mi sono messa in attesa della chiamata della collega che parlava italiano.

"Ha avuto un culo mondiale", mi ha detto questa signora di cui non ricordo più il nome. "Si è liberato un posto con la nostra consulente Bettina H. che potrà seguirla almeno fino a fine giugno".

Ottimo. Conosciamo anche Bettina, mi dico.

Capelli grigi su viso florido, Bettina si è palesata su Zoom un pomeriggio imprecisato tra aprile e maggio, scuro e minaccioso.

Ho sempre avuto un problema di punti luce, in pratica in tutte le case in cui ho abitato. Chissà che cosa avrà pensato di me, Bettina, vedendomi illuminata di giallo itterizia.

Qualunque siano stati i suoi pensieri, mi ha chiesto di descriverle che cosa avessi fatto durante la mia vita lavorativa: è andata abbastanza nello specifico. Mi ha chiesto persino quanti lettori ho su questo blog, un dato che, naturalmente, ignoravo e ignoro tuttora.

Rammento di essermi sentita un po' a disagio: perché insiste così, mi domandavo, perché vuole sapere tutte queste cose?

La mia faccia doveva parlar più chiaro delle mie parole in tedesco, perché a un certo punto Bettina mi ha fatto la domanda delle domande: "Ma tu - perché Bettina mi dava del tu a differenza delle altre due consulenti - dove vuoi vivere: qui o in Italia?".

Risposta secca, dopo una piccola pausa drammatica: "In Italien".

"Allora dobbiamo fare tutto un altro ragionamento", ha considerato lei.

Con Bettina H. abbiamo stabilito il calendario dei successivi incontri, fino all'ultimo di fine giugno, in cui ci siamo viste per un semplice caffè virtuale, dato che a quel punto avevamo ormai già impacchettato tutto. 

La seconda volta, invece, Bettina mi ha messo al centro del foglio che vedete sopra.

Alessandra kann, Alessandra può, e mi ha aiutato a tirare fuori una per una le mie competenze e attitudini. Ho conservato quel foglio fino ad oggi perché sapevo che un giorno ci avrei scritto qualcosa.

Chi conosce la lingua non ha bisogno che mi metta lì a tradurne le singole voci, per tutti gli altri posso giusto riassumerne il senso generale.

Alla Obama maniera, anche io, come tutti noi, posso, possiamo, essere protagonisti delle nostre vite

L'importante è crederci davvero, profondamente. Con fiducia e determinazione

Perché se non ci crediamo noi, difficilmente ci crederà qualcun altro.

Su questo concetto, all'apparenza banale, ci lavoro tutti i giorni, con una convinzione sempre maggiore, prestando bene attenzione a non intristirmi eccessivamente o, peggio, ad autocommiserarmi. 

Allenarsi a credere davvero in se stessi implica anche circondarsi di persone positive, ma imparare a riconoscerle è un'operazione che richiede antenne dritte, molto buonsenso e zero buonismo. 

Non vedo l'ora di potervi raccontare gli sviluppi. 

Madamatap è tornata. Più Tap e Madama (ho svoltato i 50, non ci posso credere!) che mai. 

Ah, dimenticavo: il curriculum che vedete sotto è stato tradotto dalla sottoscritta dal tedesco all'italiano. L'impaginazione è rimasta all'incirca quella che aveva impostato la prima consulente, quella che mi parlava di charmant (Kate aveva provato a sua volta a stilare una seconda versione con un lunghissimo primo foglio di sintesi, ma il suo tentativo non ha entusiasmato Bettina, per cui alla fine l'ho accantonata e mai più ritradotta).

I colori, invece, sono stati aggiunti da Michaela R., una quarta consulente che ho conosciuto ai tempi dei miei corsi di tedesco, una donna dagli occhioni blu alta e longilinea, amante delle passeggiate in bicicletta, che mi ha dato a sua volta ottimi consigli, pratici ma non solo.

Per questo e per molto di più mi sento molto fortunata.

Basterà solo mettersi davvero in gioco e tutto andrà come deve andare. Dateci dentro con segnalazioni di qualità, daje!

E, in ogni caso, bis bald, a presto, e grazie del sostegno.











mercoledì 9 giugno 2021

Il bagaglio di chi torna, carico di esperienze. E di nuove pipe!

Forse dovrei scrivere questo post a vaccinazione avvenuta. Mi ero per la verità prenotata qui a Vienna in tempi non sospetti, tipo ad aprile, su suggerimento dei miei contatti austro/italiani che mi avevano assicurato la celerità della procedura. E invece. Invece ciccia: non mi hanno chiamata e a questo punto non mi resta che attendere... il rimpatrio definitivo!

Ebbene sì, amiche e amici: Madamatap e la sua sosia umana, con consorte e felini, se ne tornano a casa presto. Molto presto.

Il bagaglio di esperienze accumulate in questi lunghissimi e insieme cortissimi tre anni è enorme.

Sono sicura che non li dimenticheremo mai.

Torniamo, tuttavia, al Covid e a tutto quello che ha portato con sé.

Penso in particolare alla rinata vena artistica della sottoscritta (credeteci: parlo seriamente. Ma molto seriamente) che ha trovato la sua massima espressione nella mostra virtuale Die Corona - Pfeifen. Ve la ricordate tutti, no? Come dimenticarla. 

Ebbene. Non ce l'ho fatta a smettere: ho dovuto per forza (me l'ha richiesto, capite, l'Arte, con la A maiuscola) aggiungere un'appendice o, se vogliamo, un epilogo trionfale che rappresentasse insieme l'uscita (SI SPERA) definitiva dalla pandemia e il rientro (ah, che sollievo) in patria.

La struttura di quest'appendice finale, composta di sole due sezioni, è identica. 

Bando, dunque, alle ciance. Squillino le trombe, rullino i tamburi...

Signore e Signori, sehr geehrte Damen und Herren! Ecco a voi... 

die Corona - Pfeifen Special Edition! Viel Spaß (buon divertimento)!


Dosen (Lattine)


























 

Blumen (Fiori)






















Come nella serie originaria dell'imperdibile esposizione, anche gli scatti delle sezioni conclusive sono stati tutti pubblicati originariamente sul mio stato WhatsApp

Stavolta il bipede fumatore di pipa ha avuto un ruolo meno attivo, soprattutto nella seconda delle due, nata, diciamo così, un po' casualmente da un bocciolo reciso dai dentini aguzzi della nostra sterminatrice di fiori, altrimenti nota come gatta Bice.

Eppure, come sempre accade, dietro la mano di una grande artista (un tempo lo si sarebbe declinato al maschile. E che ci volete fare: i tempi sono cambiati), si nasconde sempre un grande uomo. 

Grande (benché smilzo. Anzi: Smilzo) e rassegnato ad assecondare la pazzie della rompiballe che gli sta affianco. 

Perché lo scrivo? Tra le altre ragioni, perché a lui è toccato andare a ripescare lo scatto che immortala la sottoscritta nella seguente plastica posa, suggello definitivo dell'esposizione maggiore:



Notate il calzino bianco, vero must - have della quarantena 2020, quella durante la quale era vietatissimo, oltre che pericolosissimo, mettere il naso fuori casa, figuriamoci indossare abiti più decorosi.

Permettetemi, in definitiva, un piccolo momento di amarcord per quei giorni andati, quando si cantava su balconi e terrazzi e si disegnavano arcobaleni.

Alles wird gut, dicevano da queste parti. Andrà tutto bene, scrivevate voi al di là delle Alpi.

Sapete che vi dico? 

Tolta ogni ironia, abbiamo fatto bene a pensarlo e a dirlo a voce alta.

Abbiamo fatto bene ad immaginare il giorno in cui, davvero, tutto sarebbe andato meglio.

Questo ho imparato qui a Vienna.

Bisogna dirselo e dirlo anche agli altri. E scriverlo. E ribadirlo.

Andrà tutto bene. Sempre. 

Qualunque cosa accada e accadrà, siamo vivi. Ed è bellissimo poter sperare ancora, per noi e per chi ci ha lasciato, ma continua a credere in noi. E ce lo fa sentire, nei fiori, nella pioggia, nelle lacrime, nelle risate, negli incontri e nelle parole che non ci aspettiamo. 

Avete tirato fuori i fazzoletti?

Ma no, ma non è il caso.

Godetevi ancora un momento la straordinaria mostra e dopo...

arrivederci in spiaggia!

domenica 9 maggio 2021

Risvegliarsi e tornare, rinascendo ancora. Tanti auguri, mamma

 


Alla fine ne ho avvistato uno. Era nero, grigio e rosso, con un bel corpaccione. 
Nonostante i lunghi giorni di maltempo e l'impalcatura invadente, quando l'ho notato stava saltando sul ramo di uno degli alberi su cui, immagino per anni, lui e i suoi simili hanno continuato a costruire le loro tane.
Ho scoperto come sia fatto un picchio qui a Vienna. Prima, non ne avevo mai visto uno così da vicino. 
Ricordo di averne parlato su Facebook, una volta. Anzi: devo averlo fatto 
direttamente poche ore dopo la scoperta, conoscendomi. In fondo, mi piace condividere le belle notizie, come si dice in gergo social #cosebelle. Chissà se esiste davvero quest'hashtag o se me lo sono solo sognato.

Ho vissuto come in un sogno per quasi tre anni
Potrei dire in una specie di incubo, ma, sforzandomi di restare social (#thinkpositive), diciamo che qui a Vienna ho passato mesi più pesanti e altri più leggeri. 

Ricordo con piacere i primi giorni in hotel e le gite sul lago con i miei giovani colleghi. Nonostante le delusioni successive, professionali soprattutto, capisco solo adesso, al risveglio da questo lungo sonno agitato, che, di meglio, loro, per me, non potevano fare. 

Sarà per questo che ogni tanto ne sogno uno o me li vedo lì tutti insieme, garruli e felici. 
Solo su quelli più adulti tra loro faccio sogni meno lusinghieri, ad eccezione dello speaker di mezza età risposato con un'affascinante coetanea di origine moldava che non mi appare mai. Evidentemente, nonostante tutto il tempo passato dall'ultima volta che li ho visti, non riesco a farci del tutto pace.

Un giorno non lontano ci riuscirò, però. Adesso ne sono sicura.
Mi basterà chiudere per l'ultima volta la porta di casa, con i gatti (urlanti) al seguito e riprendere la via del mare.

Stavo per scrivere "vita" anziché "via". Un bel lapsus, degno dei concittadini di Sigmund. A proposito di Freud, mi sovviene in questo istante un ricordo cretino, di quelli che tiro fuori dal cilindro quando voglio sdrammatizzare. 

Le mie coinquiline dell'università avevano scritto un biglietto con una frase firmata "S. Freud". Non rammento assolutamente se fosse indirizzato a me o se me l'avessero solo mostrato. Fatto sta che io ne ho letto il contenuto a voce alta finché, arrivata alla firma, non avendo idea che cosa fosse quella S puntata, ho detto: "San Freud". Giù risate. 

Santo Freud mi sta proteggendo anche adesso, credo.
La madre è causa e origine di ogni cosa, anche se per le femmine dovrebbe valere di più il complesso di Elettra. E infatti, molto presto, dal padre, almeno in visita, tornerò.

Dalla madre, invece, mi sono dovuta separare ormai quasi sette anni fa, il 7 giugno di una giornata di quasi estate, dopo la strana invasione di vespe sul balcone di casa e altri presagi meno divini, successi più o meno un mese prima.

Al dolore per il distacco, all'epoca non so quanto davvero percepito come imminente, si mischiava anche una grande energia vitale, mia, di mia sorella, di mio marito e mio padre.
Tutti insieme l'avevamo accompagnata all'ospedale di Terni, per un intervento che ci avevano presentato, o forse eravamo noi che ci eravamo convinti che lo fosse, come risolutore.

La sera abbiamo mangiato in una pizzeria piuttosto anonima, di quelle che, probabilmente, avremmo scelto durante una vacanza di famiglia. Bisognava mantenersi calmi e, per riuscirci, probabilmente abbiamo parlato di inezie per tutto il tempo. L'animo meridionale sa essere anche molto compassato, quando vuole. O almeno: nella mia famiglia siamo melodrammatici solo in brevi, topici, momenti. Tutto il resto del tempo, dissimuliamo, sorridendo anche un po'.

Il sole al ritorno picchiava parecchio e la vecchia Micra nera di mio marito di certo non lo schermava. Con la mano attaccata alla maniglia in alto dello sportello, la mamma non ha detto neanche una parola. Era seduta davanti, io vedevo la sua schiena incassata nel giaccone scuro. Non so come facesse a resistere. 

Accanto a me doveva esserci papà, ma io non lo vedo, in questo momento. Anche lui, evidentemente, stava zitto. Parlava per noi il rumore del motore.
Di certo temevamo che quella vecchia macchina potesse lasciarci a piedi, forse evitavamo quasi di respirare perché ci portasse a destinazione.

Molti anni prima i miei avevano percorso quel valico appenninico, quel bellissimo valico tra l'Umbria e le Marche che avevo fatto molte volte pure io a bordo del pullman che mi portava a Firenze, per venire alla mia laurea. Nevicava. Papà l'aveva presa piuttosto male.

Come primo regalo, mia mamma mi aveva portato un bongo africano. Ce l'ho ancora adesso: l'ho usato nella mia casa di Porto San Giorgio come porta - lampada. Ora è in soffitta, in mezzo ai mobili da rimettere al loro posto, non appena torniamo.

Il sogno, a tratti più simile a un incubo, dicevo, sta infatti per chiudersi.
Con lui, anche le lacrime versate pregando per il meglio, stanno per esaurirsi. Finalmente.

Mi manca moltissimo mia madre, mi è mancata da pazzi la mia casa, i miei ricordi, la mia famiglia. Poco fa mi ha chiamato papà per farmi gli auguri per la festa della mamma.
Caro, tenerissimo papà, io non sono una mamma, ma ti ringrazio per gli auguri. Ho avuto una mamma speciale, che forse un po' mi ha reso comunque madre, creatrice di parole, almeno.

Dentro di me lei vive sicuramente e a mia volta io penso di essere rimasta in parte nel suo utero, per proteggermi da un mondo che, senza confessarmelo mai apertamente, mi è sembrato spesso troppo grande e ostile.

Eppure ho vissuto, come tutti. Con me porto la sua forza e il suo amore, quando mi ha spinta ad andare a laurearmi, per esempio, o quando, viceversa, mi ha rimproverato con asprezza per qualche mio comportamento che trovava sbagliato. 

Non sono perfetta, cara mamma, non lo eri anche tu, ed è meraviglioso sentirti ancora più vicina proprio per questo.

A te dedico queste parole, nel giorno della tua festa.

A me non resta che tornare. 
E ricominciare da dove ero rimasta. 
Ridendo anche un po'. 

lunedì 19 aprile 2021

Le rose di Vienna e il Venerdì Santo a Chieti: eterni come i nostri ricordi

 

Fino a pochi anni fa non avrei mai creduto possibile saltare un Venerdì Santo a Chieti. Ho ancora ben impresso nella memoria quell'anno in cui ho scattato le foto alla Processione, su incoraggiamento del Fotoclub, dove stavo frequentando un corso.


Era il mio ultimo anno di Liceo ed io andavo orgogliosissima della mia prima reflex, una Pentax che ho ancora oggi. 
Con uno scatto (anzi: due sovrapposti, una tecnica che mi avevano insegnato durante le indimenticabili lezioni) vinsi un premio.
Da allora la passione per la fotografia non mi è mai passata, anche se non ho mai pensato seriamente di poterla trasformare in qualcos'altro.

Perché questo momento di Amarcord?
Per due motivi.
Ho ripensato alla Processione del Venerdì Santo di Chieti rivedendo le foto (come quella che riporto sopra) che avevo scattato l'anno scorso alle rose del Parco di Schönbrunnprotette da sacchi di tela per difenderle dal lungo inverno. 

La prima volta che le ho notate stavo sicuramente correndo. Le foto non riescono del tutto a dare l'idea dell'effetto che mi hanno fatto in quel momento. 
Sono sicura di essermi fermata, di sicuro ho scattato qualcosa anche con il cellulare, ma poi devo essermi ripromessa di tornarci di nuovo con la mia oramai altrettanto vecchia Nikon.

Salto a quest'anno. 
Da pochi mesi ho creato il blog in tedesco, come forse qualcuno di voi già sa, e ho deciso di raccontare che cosa sono i "giardini del ricordo" di Vienna, come quello dentro il parco di Schönbrunn.

Se non avessi visto le rose così conciate, intendo chiuse ermeticamente in quei sacchi chiari, condannate all'oscurità come anime del Purgatorio, voglio dire, forse non avrei mai saputo che cos'era quell'angolo del parco.

Da poco i sacchi sono spariti e il roseto sembra, paradossalmente, molto più spoglio: 



Il senso di desolazione è acuito dall'assenza di colori di questa primavera che proprio non vuole esplodere (almeno qui a Vienna: in Italia, secondo me, dipende). Solo i cartellini bianchi appesi su ogni arbusto emanano un po' di luce.

Correndo, mi sono fermata a leggerne qualcuno:


Avevo già notato qualcosa del genere al Volksgarten, in centro, dove le piante di rose sono in proporzione molte di più. Quel che non sapevo è che dietro ciascuna di loro c'è un giardiniere provetto, che ha il compito di curarla, e un committente che gliel'ha affidata per omaggiare un parente o un amore scomparso o per celebrare una romantica ricorrenza.

Trovo l'idea bellissima e ho scoperto che le "adozioni" di questo genere riguardano non solo le rose, ma anche gli alberi e le panchine.

In definitiva, ho pensato, i colori mancano, è vero, ma se ci soffermiamo a guardare le cose più da vicino, ci accorgiamo che sono sempre lì, solo in altre forme.

Lo stesso succede con le persone che non ci sono più. Non le possiamo vedere, è vero, ma persino il suono della loro voce può, da un momento all'altro, risuonare nelle nostre orecchie.

Per questo, forse, amo il rito del Venerdì Santo nella mia città natale. Per questo mi hanno colpito, credo, le rose incappucciate.

Da piccolissima, in verità, quegli uomini con le tuniche a punta che sfilavano lenti sorreggendo grosse candele, mi facevano piangere. Molti anni dopo ho visto le stesse lacrime disperate negli occhi di mio nipote piccolo.

Morire, la consapevolezza della nostra e altrui mortalità, meglio ancora, è uno schifo. Inutile nasconderselo. 

Poi però un suono, una folata di vento inaspettata, un profumo, o un'etichetta bianca su una rosa addormentata, ci raccontano una storia. Ci riportano alla vita e al ciclo delle stagioni, eterno come i nostri ricordi e le tracce che in qualche forma un giorno lasceremo anche noi.

Dedico questo post alla mia mamma, nata il 4 aprile, e anche a zia Zita, nata il giorno prima di lei. 

Aprile è un bel mese per venire al mondo e per sposarsi, come ha fatto sempre mia madre, 55 anni fa. 

Idealmente, una delle rose che fioriranno di qui a pochi giorni (lo spero proprio: basta con questo grigiore) appartengono a lei.

Presto scoprirò qual è quella che le assomiglia di più. Mi verrà incontro, anzi, senza nessuno sforzo. 

Come la vita. 

sabato 20 marzo 2021

Stop scrauso, un round dopo l'altro, fino alla vittoria finale

 


Ci siamo portati dietro dalla casa di Fermo questa lavagnetta. Non ricordo più dove l'avevamo comprata. Forse nel negozio di casalinghi economici dove siamo tornati qualche giorno fa.

Pensavo, pensavamo tutti e due, che l'avessero chiuso. Sono anni che tappezzano la grande vetrina dell'ingresso con avvisi di svendite finali. Accorrete, gente, diamo tutto via a meno di niente.

E invece no. Era ancora là, con quegli articoli mezzo cinesi mezzo sovietici, tra i quali ogni tanto si nasconde qualche perla preziosa.

La lavagnetta era comprensiva di gessetti. Di questi, nell'appartamento marino, il nostro amato appartamento marino, non c'era più traccia.

Scomparso anche l'orologio a muro della cucina, comprato, questo sì, in un negozio di casalinghi più grazioso, pieno anch'esso, naturalmente, di articoli economici, ma almeno dal design più accattivante.

Molto probabilmente gessetti & orologio sono volati via verso qualche altra abitazione oppure, molto semplicemente, sono finiti nella spazzatura. 

Mi domando però che persone abbiano, davvero, vissuto a casa nostra. Chissà che cosa passava per la testa del bambino che ha scritto i nomi di tutti i membri della famiglia con uno dei gessetti svaniti nel nulla. Chissà da quando era lì, quella scritta, se addirittura da febbraio dell'anno scorso, quando sono entrati, felici, credo, almeno all'inizio, di aver trovato un nuovo alloggio.

Nel tempo, le cose devono essere peggiorate, e pure parecchio. L'unico a non aver troppo risentito della crisi portata dal Covid, è stato, credo, il cane, un pitbull pare. Chissà quanto si deve essere divertito a grattare una delle porte, da entrambi i lati, poi. 

E dire che i precedenti proprietari ci tenevano assai, a quelle porte: ricordo con quale orgoglio il vecchio postino, famoso in tutta la piccola cittadina adriatica, me le aveva mostrate, con quei vetri smerigliati e le decorazioni in rilievo colorate. 

Ho fatto del mio meglio per pulirle. In generale, ho fatto del mio meglio per ridare alla casa un aspetto dignitoso

Mi sforzo di trovare i lati positivi, l'ho sempre fatto, praticamente. Amavo molto la storia di Pollyanna, la piccola orfanella che aveva imparato a sorridere della vita, facendo il suo "gioco della felicità".

A pensarci adesso, mi sono spesso piaciute storie così, sono cresciuta, come molte altre bambine della mia generazione, con storie così. Amavo molto anche Il giardino segreto, forse, anzi, mi piaceva anche di più di Pollyanna. Trovavo bellissimo che questo ragazzino rifiorisse alla vita curando il "suo" giardino.

Avevo trovato anch'io, il mio giardino.

Era la mia casa marina, in un paese tanto anonimo quanto prezioso. Per me, solo per me. Mi sono innamorata di quel posto, Porto San Giorgio, ancora prima di andarci a vivere. Non so spiegare bene il perché, ne parlavo con un'amica con cui ho camminato con grande piacere sul lungomare, comunque solo lì, tolta la casa dei miei genitori, mi sento davvero bene.

Per questo, e non solo per questo, mi ha fatto molto male vedere l'appartamento in quelle condizioni, le lampadine fulminate o assenti, piena di rozze scarpe tacco 12 che però non ho avuto il coraggio di gettare direttamente in discarica (le ho infilate in quei contenitori per i poveri: chissà chi finirà per indossarle. Forse è meglio non saperlo).

Non ho buttato neanche i "Diari di una schiappa" del ragazzino che ha giocato sulla mia scrivania da bambino, macchiandola di colla o qualche altro materiale che non se ne va più. La prossima volta che torno li porto alla scuola elementare vicina: almeno potranno rivivere, come il giardino del romanzo.

Rivivere, ecco, ai mobili di mia nonna avevo dato questa possibilità, portandoli prima nella casa-torre, in cima alla collina del Girfalco, e poi nel mio appartamento, comprato con tanta fatica e gioia.

Al posto del letto in legno chiaro, l'inquilina mi aveva lasciato il suo, laccato bianco. Le avevo dato il permesso io, ignara del fatto che mi sarebbe toccato smaltire diversi pezzi di mobili smontati, più una rete matrimoniale e un'altra singola richiudibile. 

Praticamente un magazzino. Un magazzino malmesso, le tapparelle lasciate su, alcuni vestiti e una vecchia gomma da masticare (non ancora mangiata, per fortuna) giù, sulla coperta del mio letto. E dire che nella telefonata di commiato la giovane non so quanto inconsapevole distruttrice mi ha detto che ci teneva a restituirmi la casa come gliel'avevo consegnata, piuttosto trepidante, tredici mesi fa.

A pensarci bene ora, solo il tavolo da sei di legno scuro, solido e indistruttibile, mi ha trasmesso un segno di speranza. Da quel tavolo bisognava ripartire. Lì abbiamo fatto colazione, contrariamente alle nostre abitudini di un tempo, per diversi giorni.

Andarsene via è stato triste, ma mi sentivo carica, ricaricata, e pronta ad affrontare una nuova fase, non so quanto lunga, qui in terra asburgica, dove ci aspettavano i gatti. Il gioco della felicità mi diceva che, sì, ero, sono stata fortunata, perché almeno adesso ho riavuto il mio luogo del cuore, chiuso e sbarrato in attesa del nostro rientro. Ma la mia vita, la nostra vita, al momento, è in questa fredda città del Nord Europa. Fredda, meteorologicamente parlando soprattutto, e non solo.

Amici e parenti (alcuni) ci dicono di resistere e il loro sostegno mi aiuta. Persino il mio dolce padre mi manda messaggi d'incoraggiamento, a dirla tutta un po' formali, ma teneri come solo un vecchio schivo come lui potrebbe scrivere.

Durante le quattordici di ore di viaggio, però, ho avvertito una fastidiosa incrinatura.

Mentre ascoltavo Mark Knopfler, e i suoi vecchi album dei vecchissimi tempi, mi è comparso sul cellulare il nome della mia proprietaria. Tuffo al cuore. Oddio, è successo qualcosa ai gatti. A lei ne avevo affidato la cura, ben sapendo che sarebbe stata in grado di occuparsene, vivendo al piano sopra il nostro e avendone anche lei due.

Kein Problem mit den Katzen, nein.

Il problema era un altro. Anzi, è un altro. 

Caldaien rotten, ja. Fino a mercoledì prossimo (si spera non oltre) no acqua calda no riscaldamento. 

Queste cose succedono, lo so. Anche a Milano rimasi due settimane nelle medesime condizioni. 

La proprietaria, peraltro, ci ha anche procurato una stufa, un madonno pesantissimo, come piace tanto ai popoli nordici, che però la sua sporca funzione la fa.

Il problema è un altro, dicevo.

Il problema è lo scrauso.

Was ist scrauso?, mi ha chiesto un'amica austriaca che parla bene l'italiano.

Parafrasarlo significa togliergli la scorza onomatopeica, così essenziale in tutte le lingue del mondo, persino in tedesco. Sì, sì, amici, è così: non faccio ironia in questo momento.

Tornando allo scrauso, insomma, è una parola che incarna alla perfezione il fantasma, molto materiale, contro cui ho ingaggiato la mia personale battaglia.

Di più: lo scrauso è il nemico da sconfiggere assolutamente e in maniera definitiva. Non di battaglia si tratta, allora, ma di guerra.

Stop scrauso, stop scrauso, stop scrauso... Me lo ripeto come un mantra tutti i giorni, per vari minuti di seguito. Davvero.

E che cosa succede? Sentendo di essere in pericolo, lo scrauso, come qualsiasi altra creatura viva, si ribella. E mena pugni, buttandomi giù.

Io però non ci sto a restare a terra, mentre parte il countdown, e, in genere, a - 8 sono già in piedi. A Porto San Giorgio credo di essermi rialzata un po' dopo, forse a - 5, ma ce l'ho fatta e ho ripreso a recitare la mia preghiera. Hop hop hop, stop scrauso, stop scrauso, STOP. Rieccomi qua, barcollante ma in piedi. Tiè.

Fine ennesimo round. 

Dopo il break, sono arrivata qui, consapevole di trovarmi all'inizio di un round ancora più duro. 

E infatti. Banghete. Con meno tre gradi nel luogo in cui si depositano i bisogni primari, obiettivamente, la botta mi ha lasciato senza fiato.

Dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro... Non ci provare. Non mi avrai, scrauso, NON MI AVRAI.

Prima del colloquio con la consulente del lavoro su skype, perciò, ho scaldato due pentole d'acqua e mi sono lavata pure i capelli. 

Non so come ho fatto, ma ho riso con la tizia e l'ho anche fatta ridere più di una volta. Mi sorprendo ancora quando capitano cose così, ma ormai dovrei saperlo: con gli sconosciuti riesco a simulare bene la fatica che faccio per respingere lo scrauso. Forse, anzi, la leggera agitazione che lascio trasparire fa anche personaggio. Mi dà quella spolverata buffoncella bastevole a dare l'impressione di essere una personcina a modo. 

Sarà il tempo a dire se il nuovo curriculum, preceduto da un Kurzprofil (un profilo in breve) in cui metto in luce il mio amore per la scrittura, la fotografia e la mia predisposizione a dare fiducia alle persone (anche a quelle che ti sfasciano casa) servirà davvero nel mondo del lavoro austriaco.

Mi ha fatto piacere, certo, che la consulente, alla fine della nostra chiacchierata, mentre in cucina il proprietario e lo spazzacamino pianificavano l'eutanasia per la caldaia, abbia detto che il mio curriculum farà sicuramente un'ottima impressione, adesso che l'abbiamo riscritto un'altra volta.

Ha usato anche una metafora lusinghiera su come le sono apparsa: una specie di fiore all'apparenza compatto, in verità composto di tanti petali, uno dentro l'altro. O qualcosa del genere.

Di là si combatteva per me, per qualche minuto almeno, contro lo scrauso, e di qua, dentro allo schermo, una donna pressoché sconosciuta faceva altrettanto, rassicurandomi. 

Da questi segnali capisco che non devo mollare. Lo so che è così.

E infatti non lo farò. Non è possibile che io molli. 

La guerra è fatta anche di momenti di riposo. Le ferite hanno bisogno di qualche giorno per risanarsi. Solo in casi di urgenza si compie lo sforzo estremo di rialzarsi per assestare qualche pugno come si può, pur di sopravvivere.

Oggi non è uno di quei giorni. Ne ho vissuto qualcuno così in diversi momenti dei miei quasi primi 50 anni. Ne vivrò anche altri, di sicuro.

Oggi è il giorno del silenzio. Domani, dopodomani, bisognerà gettare un nuovo piano d'azione, avendo però sempre chiara la strategia di fondo. 

Solo così lo scrauso sparirà.

A voi faccio quest'unica seguente preghiera, in vista degli imminenti Europei di lotta allo scrauso che mi accingo a combattere: credete in me, fate il tifo per me, fate la ola per me. E ripetete con me, se possibile a squarciagola, mentre assesto colpi definitivi: 

Stop scrauso, stop scrauso, stop scrauso...

domenica 28 febbraio 2021

Le donne, il lavoro e la gioia di fare ciò che ci piace

 


Ho scattato la foto che vedete sopra a una fermata dell'autobus che incontro quando vado a correre al parco di Schönbrunn.
Nei giorni seguenti ho scoperto che buona parte delle pensiline nel mio quartiere espone la stessa immagine.
Si tratta di una campagna a favore delle donne promossa dal Partito socialista austriaco, in vista dell'Otto Marzo.
Nel titolo in alto a sinistra c'è scritto: "Donne. Campionesse della crisi. Da sempre".

Lo slogan è semplice e facilmente condivisibile, almeno a parole.
Chi è che osa negare che le donne, noi donne, siamo state abituate da generazioni di madri e di nonne a gestire la quotidianità con tutte le sue grane come macchine da guerra?

A parole, dicevo, non c'è, credo, nessun partito che potrebbe affermare il contrario.
Nella scritta piccola in basso a sinistra, si specifica infatti che:
"Non è solo dal 2020 che noi donne ci opponiamo con tutte le nostre forze alla disparità di trattamento".

Intelligente, e per niente casuale, anche la scelta delle testimonial.
La giovane di pelle più scura è una mamma di due bambini, la bionda affianco, a occhio coetanea, una maestra elementare, la donna più matura un'assistente sanitaria (tipo, penso, le nostre Oss o badanti qualificate), la ragazza a destra una parrucchiera, definita per la precisione "lavoratrice autonoma".

Le quattro non sorridono, men che meno ammiccano. Hanno sguardi che ti scavano un po' dentro, a mio parere, come a dire: "Non arretreremo mai". Certo che no. 

Sono andata a leggermi il testo della campagna dell'Spö.
L'incipit recita: "La pandemia da Corona rende chiaro che le donne vengono ancora trattate sempre in modo diseguale". A loro, prosegue il testo, toccano i lavori peggiori, oltre al lavoro non retribuito di cura dei bambini e di assistenza ai malati. A ciò si aggiungono, si sottolinea, le esperienze di violenza subite già da prima della crisi attuale, ma diventate decisamente più visibili nell'ultimo anno.

Per tutti questi temi, asserisce la campagna Spö, è arrivato il momento di trovare rapide soluzioni e supporti adeguati alle donne colpite. Non solo: in vista della Giornata internazionale delle donne, si chiede un cambiamento di sistema. 

Da qui in avanti il testo si fa meno interessante, almeno per noi italiani abituati da sempre alle polemiche politiche, oltre che alla disparità di trattamento di genere.

Perché racconto questa storia? 
Ovviamente, perché mi riguarda, come donna e come straniera sbarcata in un Paese di cui non conoscevo nulla.

Vista dall'Italia, l'Austria sembra, o sembrava, una terra felice, ricca di opportunità.
Per qualcuno, e qualcuna, lo è davvero, lo è stata e lo sarà.

Sono certa, per esempio, che la ventenne afgana che ho conosciuto al secondo corso di tedesco, se non si mette a sfornare un bebè dopo l'altro, riuscirà a diventare una maestra d'infanzia, come diceva di voler fare.

Idem per la giovane bulgara, arrivata a Vienna un annetto fa, che con una laurea in tasca e molta attitudine allo studio (del tedesco, e non solo), di certo riuscirà a lasciare la cucina del pub dove lavava i piatti, per un lavoro migliore.

Andrà bene, credo, anche alla slovacca che voleva diventare infermiera, alla quale mancava solo il certificato B2 di conoscenza della lingua per potersi iscrivere a un corso triennale.

Idem succederà, penso, anche a chi di loro vorrà e potrà fare solo la mamma, perché nella maggior parte delle donne che ho conosciuto in quest'ultimo anno, ho visto comunque il desiderio fortissimo di mettere radici qui. Oltre ogni nostalgia per la patria lontana.

In tutto ciò, io dove mi colloco?
In comune con le compagne di corso, e con le signore della foto in alto, ho la determinazione a dare sempre il massimo.
Lo sa anche la mia nuova consulente del lavoro, che appartiene a una società di sole donne che cercano di dare un futuro migliore ad altrettante signore con alto profilo scolastico. E qualche anno in più sulle spalle.

Esemplare è anche la storia della suddetta consulente.
Di origine polacca, a occhio e croce, tra i trenta e i quaranta, si è trasferita qui da bambina con la famiglia. Nel nostro primo incontro si è presentata, raccontandomi del suo periodo all'estero, prima della decisione di tornare in quella che considera la sua patria per un lavoro più stabile, probabilmente, anche se non particolarmente ben pagato.

Di storie come la sua Vienna è piena. Gli uffici pubblici traboccano di signore con cognomi slavi, facile beccare anche qualche turca di seconda, o terza, generazione. 

Di italiane, nel grande mondo dell'Arbeitsmarketservice, ossia la mitica agenzia del lavoro che tuttora mi assiste (eh sì: ora mi assiste, sono ormai annoverata tra le disoccupate di lungo periodo), invece, pochissime tracce. Almeno fino a quest'anno. 

Tra i miei contatti, praticamente, non c'è nessuna che ha un'esperienza non dico uguale, ma almeno simile alla mia.
Un po' lo capisco. 
Il grosso delle mie connazionali lavora, o lavorava, nella ristorazione, da dipendente o titolare di attività, presumo con compagni e mariti. Ci sono poi le insegnanti di lingua, le artiste, le ricercatrici, e quelle che, magari, hanno un partner austriaco e/o varie proprietà in patria per cui il lavoro, o l'assenza dello stesso, non è un grande problema.

Dimenticavo le ragazze con una laurea tecnica e scientifica, come la giovane e simpatica napoletana, che, almeno l'anno scorso, prima dello smart working al quale è condannata da tempo immemorabile, era entusiasta della città.

Non ho dati statistici, insomma, ma a naso le italiane a Vienna, nel resto dell'Austria non so, sono giovani o se non lo sono più, hanno trovato qualche motivo davvero solido per restare oltre confine.

In qualcuno di voi, a questo punto, sarà sorta spontanea la domanda:
cara Madamatap, che diavolo ci fai ancora lì?

La risposta è sospesa, un po' come i caffè per i bisognosi e gli altri articoli che adesso si sono aggiunti alla lista delle necessità non più finanziabili.

Ringrazio però la consulente austro-polacca in particolare per un motivo.
Nel nostro ultimo colloquio mi ha suggerito di andare oltre il curriculum nudo e crudo, invitandomi ad interrogarmi su quello che mi dà gioia fare.

In tedesco si fa distinzione tra "Beruf", lavoro, nel senso di qualifica che si è raggiunta con studio e pratica, e "Berufung", che in senso stretto si traduce con "vocazione", in senso lato il mix di esperienze, interessi e attitudini personali, che fanno di ciascuno di noi un essere umano, una risorsa, se vogliamo chiamarla così, unica e insostituibile.

A questa domanda posso rispondere, o comunque non mi sottraggo.
Scrivere e fotografare. E poi leggere, studiare e correre. E conoscere la gente e farmi raccontare chi è e che cosa fa, provando a descriverla, e se possibile a illuminarla. 

E sti cazzi. Che fannullona
Ho anche qualche predisposizione al lavoro manuale, dimenticavo. Dovevate vedermi l'altro giorno, mentre aiutavo la mia amica austriaca a montare la poltrona dell'Ikea.

Ci metto però sempre del mio, con un'energia a tratti eccessiva (l'amica mi ha definita "hektisch", frettolosa. E meno male che la stavo aiutando, mortaccen suen. Però ci ha visto giusto, lo ammetto), per cui non credo sia il caso di farne parola con la consulente del lavoro.

Insomma, in un mondo ideale, una donna come me sarebbe perfetta in un sacco di contesti, soprattutto quando c'è da cazzeggiare in modo creativo, da prenotare viaggi (per l'Italia, soprattutto: ah sì, che bellezza), da sorridere garrulamente a più gente possibile. E da stringere qualche vite.

Dite che Vienna si accorgerà presto di questa perla matura (per usare un eufemismo)?
Staremo a vedere.
Basta andare avanti, a testa alta e la solita ironia, che non svanisce, nonostante tutto.

Ps W le donne!