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mercoledì 27 aprile 2016
La cucina di mia madre e i cambiamenti
Nello spogliatoio della mia amata palestra, si parlava di fritto di qualità. Una mia simpatica omonima, in particolare, diceva che per Pasqua voleva assolutamente il menu tradizionale e che se non fosse stato possibile a casa di non so quale parente, ci avrebbe pensato lei.
Parlava di "agnello fritto" (eh, lo so, per i miei eventuali amici vegetariani e vegani è un bel colpo), ma soprattutto di zucchine fritte.
Mi sono tornate in mente, altro che Proust, le zucchine impanate a fili di mia madre. E le sue alicette pastellate e spruzzate di limone.
Qualche giorno fa mi è successo qualcosa di simile mentre cucinavamo, mia sorella ed io, i carciofi ripieni. Essendoci avanzato parecchio impasto a base di pane sbriciolato, preparato da una eccezionale infermiera cuoca che aiuta mio padre, ma rafforzato da mia sorella con prezzemolo, aglio e olio, ho avuto l'idea di aggiungere qualche patata, debitamente scavata e riempita.
L'accostamento del tubero all'ortaggio era abituale per mia madre: me l'aveva ricordato qualche settimana prima una zia, nel mostrarmi i suoi ottimi carciofi cotti come i nostri in padella.
La mamma, in verità, non usava quasi mai l'aglio né cucinava i carciofi sui fornelli, bensì in forno, ma è stato comunque, almeno inconsciamente, un mio tentativo per celebrarla.
Quello stesso giorno, nella nostra casa di Francavilla, abbiamo fatto pulizia di oggetti e vestiti non più utilizzabili. Tra questi ultimi, ahimè, c'erano anche i suoi costumi. Alcuni mai messi: almeno, io non glieli ho mai visti.
Ma lei era così: comprava un sacco di roba anche per il mare, ma poi, non si sa bene per quale processo psicologico (a noi figlie ci sembra ogni tanto che volesse punirsi di qualche colpa immaginaria), metteva sempre gli stessi costumi, le stesse vestagliette. Una di queste è finita nel mio bagaglio e ora è nel cassetto. So già che difficilmente la indosserò: mia madre aveva tipo una quarta di reggiseno e un paio di taglie in più di me, ma non ce l'ho fatta. E poi chissà, magari me la metto lo stesso.
Non so che cosa mi sta succedendo, ma ogni tanto mi pare che sia tutta colpa dei cambiamenti che sto vivendo in questi giorni se, all'improvviso, senza un motivo apparente, mi tornano alla memoria questi micro-flash del passato. Non mi riferisco solo a mia madre, ma anche ai profumi ritrovati della mia adolescenza, in un primo pomeriggio di giorni fa sul balcone della casa dei miei, e ad altri ricordi più recenti (dieci, quindici anni fa) di quella che ero e non sono più.
Mi stupisco, a tratti, della mia età attuale e in altri mi sento la stessa energia e la stessa voglia di fuggire che avevo da ragazza. Quella nutrita da giovane adulta, voglio dire, prima che il dolore si abbattesse sulla nostra famiglia. Prima che arrivassero le malattie e i doveri di una figlia di padre anziano.
Fuggire, ho detto. Forse non è esatto.
Vorrei solo che davvero la fase che sto vivendo sia la mia occasione per ricominciare daccapo.
Qualcuno con più fede di me direbbe che già solo desiderarlo fortemente è un buon segno. Sinceramente, la mia testarda razionalità (quella che spesso mi frena più del necessario, lo so) mi impedisce di crederlo fino in fondo. Ma comunque io ci sto: afferro quello che sta arrivando e cerco nel tempo libero di lasciarmi scivolare ciò che viaggia in senso opposto, miei scetticismi compresi.
Sono incuriosita dalle persone con cui ho cominciato a lavorare ed è obiettivamente una gran cosa.
Ieri mi si è rotto il gancio del laccio porta ciondolo con la fotografia di mia mamma.
Qualche settimana fa ho perso il suo portachiavi (e le relative chiavi, mannaggia a me).
Il mio lato animistico-abruzzese mi suggerisce che siano tutti segni delle energie che circolano intorno e forse anche dentro di me.
Questo corpo che non è riuscito ad accogliere una nuova vita, probabilmente, vuole comunque essere vitale e fecondo. Lo sento. E stavolta la testa non c'entra.
Speriamo davvero di poter dimostrare chi sono e cosa posso diventare quando mi sento nell'ambiente giusto. Non solo agli altri, ma soprattutto a me stessa.
Chi vivrà vedrà.
Alla prossima, cari amici.
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venerdì 10 ottobre 2014
I libri inutili e i cambi (necessari) di stagione
Il periodo è quello giusto: il cambio di stagione va onorato anche con una bella selezione tra i libri della nostra vita. Finora non ne avevo mai buttato neanche uno, ma ultimamente mi sono resa conto che non c'è niente di più sbagliato (almeno per me) della sacralità imposta.
Chi decide che un libro meriti di essere conservato più di un paio di scarpe o di una spugnetta abrasiva?
Non tutti i libri sono utili. Non tutto, in generale, è veramente indispensabile.
Tornando al tema, alcuni libri, in particolare, mi parlano di periodi morti e sepolti che non ho alcuna voglia di ricordare.
Fino a ieri pomeriggio avevo ancora il raccoglitore contenente il primo anno di numeri della Voce delle Marche. Adesso non ce l'ho più. L'ho lasciato sul bidone della carta, in piedi, aperto.
Chissà se i netturbini l'hanno sfogliato giusto un attimo prima di mandarlo al macero.
Nel novembre di dieci anni fa ho preso i miei primi contatti con Fermo. A inizio 2005 ho cominciato a lavorare nel settimanale diocesano, ormai mitizzato nella mia memoria.
I tre anni successivi sono stati tanto belli quanto dolorosi da rievocare. Ogni volta che ne parlo mi risale una rabbia che non ha più senso.
Perciò era ora che mi privassi di quel raccoglitore. Oltretutto, in cantina staziona ancora la collezione completa che avevo fatto da sola, da brava formichina, numero dopo numero.
Qualcosa mi dice che finirò per buttare anche quella.
Necessito di spazio. Di pulizia disco, quella che non faccio mai sul mio pc, sottoponendolo a sforzi eccessivi. Ogni tanto, infatti, il mio povero portatile va in tilt, esattamente come me.
Anche la casa dei miei genitori ha bisogno di un cambio di stagione. Non sarà facile liberare un po' d'armadio per mio padre, ma lo faccio per lui. E anche per mia mamma che approverebbe.
Quindi, tra poco, parto.
Compiendo un viaggio all'indietro che indietro non è.
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mercoledì 6 marzo 2013
I giorni dell'anormalità normale
Il vento scuote le piante fuori dalla mia finestra, lieto megafono del cinguettìo di qualche passerotto coraggioso, impaziente come me per questa primavera che non ancora arriva. L'immagine fiaccamente poetica fa da altrettanto debole cappello alle parole che sto per scrivere.
Oggi vorrei parlare di horror vacui e dell'allenamento a questo punto non più solo personale a vivere come color che sono sospesi. Perché, se è vero che il grosso di noi crede di non saper gestire il vuoto, riflettiamo un attimo sul periodo storico che stiamo vivendo: senza governo, senza Papa, senza futuro. Almeno all'apparenza. Il futuro, infatti, c'è per forza, comunque vada a finire.
Sapete anzi che cosa penso? Molti di noi (io di sicuro) ci stiamo bene in questo stato di sospensione. Dire bene, forse, è esagerato, però la strizza per quel che deve venire ci rende più sopportabile anche l'incertezza. E l'horror vacui di cui sopra passa decisamente in secondo piano.
Faccio un esempio più personale.
L'altro giorno ero in cucina con gli zii e mia madre. Sulla tavola due diversi numeri della Settimana enigmistica. Non so come, ma ci siamo messi a risolvere un cruciverba collettivamente, passandocelo democraticamente alla prima o seconda definizione insolubile. Nello specifico, al gioco ho partecipato io con gli zii, mentre mia madre, con gli occhi bassi, commentava ironica: "Ma guarda un po' tu: li avevo presi per me...". Abbiamo riso tutti.
Domenica mattina, poi, ero in auto con mio padre e casualmente ci siamo messi a parlare dei ricordi dei primi anni di vita. Io dicevo che è difficile avere memoria di noi stessi dai due ai cinque-sei anni, ma mio padre non era del tutto d'accordo. Lui, per esempio, non aveva scordato alcune cose, anche se, certamente, a ripensarci oggi erano come sogni, ma di quelli molto vivi che ci portiamo dietro tutta la vita.
E me ne ha raccontato uno, con quella leggera pausa che precede l'atto del narrare a voce alta, che tanto piace da bambini. In quei secondi ho avvertito una specie di sottilissima nostalgia, consapevole di stare vivendo un momento unico, del quale avrei voluto conservare tutto.
E invece. Il racconto mi è giunto a metà, troppo presa com'ero dall'ascolto delle mie emozioni.
C'era la guerra e i bombardamenti. Mio padre era all'epoca l'unico figlio cresciuto in solitudine da mia nonna, nei lunghi anni in cui il marito, mio nonno, rimase lontano, come soldato e poi prigioniero di guerra.
Non si poteva restare in casa, troppo pericoloso. Così mio padre, chissà se impegnato in qualche gioco infantile, venne trascinato via dalla mamma per un braccio, perché potessero rifugiarsi il più velocemente possibile in una delle cavità aperte su un muro di una strada poco distante. E' riuscito proprio a farmi vedere il braccino tirato dalla mamma e tutta la sua ansia, riflessa in quella di lei. Altre volte mi aveva raccontato di quando non aveva le scarpe e dei pantaloncini corti con cui erano soliti girare anche d'inverno. Quel periodo, però, è testimoniato anche dalle foto della famiglia di mia madre, quindi è un ricordo mediato dalle immagini.
Stavolta, invece, la sospensione prodotta era più intima, più segreta.
Certo, adesso che ne ho parlato sul blog, non lo è più, ma sentivo il bisogno di fissarlo qui, a testimonianza di questi inediti giorni di "anormalità normale", per citare un'espressione usata spesso da mia mamma nell'ultimo periodo.
Sento di star vivendo un momento della mia vita molto speciale, di cui un giorno, forse, potrei avere nostalgia.
D'altra parte, la mia natura tende naturalmente alla saudade, ma cerco di tenerla sotto controllo, per paura di risultare pesante.
Non si tratta, tuttavia, tanto del rimpianto del passato (a volte c'è anche quello) quanto della malinconia di non poter trattenere nulla per sempre, neanche certe tristezze obiettivamente dannose.
Tornando al presente e al destino dell'Italia (e della Chiesa!), sarebbe bello se un domani potessimo ripensare a questi giorni con un pizzico di saudade. Come eravamo incasinati, ci pensate? Potremmo dire così ai nostri nipoti.
Già solo sognare di poterlo raccontare è una prospettiva ottimistica, vero?
Sì che lo è. E del resto, tenderò anche alla saudade, ma al contempo sono un'inguaribile illusa.
Vi lascio con una barzelletta stupida stupida, di quelle che piacciono tanto a mio nipote settenne, che me le scrive su Skype tutto gongolante.
Sapete qual è il colmo per la Befana? Non saper giocare a scopa.
Magari, in questi giorni, anche i cardinali se ne racconteranno probabilmente anche di più scollacciate, e forse pure i parlamentari grillini, mettendo alla porta l'horror vacui e la storia che incombe.
Oggi vorrei parlare di horror vacui e dell'allenamento a questo punto non più solo personale a vivere come color che sono sospesi. Perché, se è vero che il grosso di noi crede di non saper gestire il vuoto, riflettiamo un attimo sul periodo storico che stiamo vivendo: senza governo, senza Papa, senza futuro. Almeno all'apparenza. Il futuro, infatti, c'è per forza, comunque vada a finire.
Sapete anzi che cosa penso? Molti di noi (io di sicuro) ci stiamo bene in questo stato di sospensione. Dire bene, forse, è esagerato, però la strizza per quel che deve venire ci rende più sopportabile anche l'incertezza. E l'horror vacui di cui sopra passa decisamente in secondo piano.
Faccio un esempio più personale.
L'altro giorno ero in cucina con gli zii e mia madre. Sulla tavola due diversi numeri della Settimana enigmistica. Non so come, ma ci siamo messi a risolvere un cruciverba collettivamente, passandocelo democraticamente alla prima o seconda definizione insolubile. Nello specifico, al gioco ho partecipato io con gli zii, mentre mia madre, con gli occhi bassi, commentava ironica: "Ma guarda un po' tu: li avevo presi per me...". Abbiamo riso tutti.
Domenica mattina, poi, ero in auto con mio padre e casualmente ci siamo messi a parlare dei ricordi dei primi anni di vita. Io dicevo che è difficile avere memoria di noi stessi dai due ai cinque-sei anni, ma mio padre non era del tutto d'accordo. Lui, per esempio, non aveva scordato alcune cose, anche se, certamente, a ripensarci oggi erano come sogni, ma di quelli molto vivi che ci portiamo dietro tutta la vita.
E me ne ha raccontato uno, con quella leggera pausa che precede l'atto del narrare a voce alta, che tanto piace da bambini. In quei secondi ho avvertito una specie di sottilissima nostalgia, consapevole di stare vivendo un momento unico, del quale avrei voluto conservare tutto.
E invece. Il racconto mi è giunto a metà, troppo presa com'ero dall'ascolto delle mie emozioni.
C'era la guerra e i bombardamenti. Mio padre era all'epoca l'unico figlio cresciuto in solitudine da mia nonna, nei lunghi anni in cui il marito, mio nonno, rimase lontano, come soldato e poi prigioniero di guerra.
Non si poteva restare in casa, troppo pericoloso. Così mio padre, chissà se impegnato in qualche gioco infantile, venne trascinato via dalla mamma per un braccio, perché potessero rifugiarsi il più velocemente possibile in una delle cavità aperte su un muro di una strada poco distante. E' riuscito proprio a farmi vedere il braccino tirato dalla mamma e tutta la sua ansia, riflessa in quella di lei. Altre volte mi aveva raccontato di quando non aveva le scarpe e dei pantaloncini corti con cui erano soliti girare anche d'inverno. Quel periodo, però, è testimoniato anche dalle foto della famiglia di mia madre, quindi è un ricordo mediato dalle immagini.
Stavolta, invece, la sospensione prodotta era più intima, più segreta.
Certo, adesso che ne ho parlato sul blog, non lo è più, ma sentivo il bisogno di fissarlo qui, a testimonianza di questi inediti giorni di "anormalità normale", per citare un'espressione usata spesso da mia mamma nell'ultimo periodo.
Sento di star vivendo un momento della mia vita molto speciale, di cui un giorno, forse, potrei avere nostalgia.
D'altra parte, la mia natura tende naturalmente alla saudade, ma cerco di tenerla sotto controllo, per paura di risultare pesante.
Non si tratta, tuttavia, tanto del rimpianto del passato (a volte c'è anche quello) quanto della malinconia di non poter trattenere nulla per sempre, neanche certe tristezze obiettivamente dannose.
Tornando al presente e al destino dell'Italia (e della Chiesa!), sarebbe bello se un domani potessimo ripensare a questi giorni con un pizzico di saudade. Come eravamo incasinati, ci pensate? Potremmo dire così ai nostri nipoti.
Già solo sognare di poterlo raccontare è una prospettiva ottimistica, vero?
Sì che lo è. E del resto, tenderò anche alla saudade, ma al contempo sono un'inguaribile illusa.
Vi lascio con una barzelletta stupida stupida, di quelle che piacciono tanto a mio nipote settenne, che me le scrive su Skype tutto gongolante.
Sapete qual è il colmo per la Befana? Non saper giocare a scopa.
Magari, in questi giorni, anche i cardinali se ne racconteranno probabilmente anche di più scollacciate, e forse pure i parlamentari grillini, mettendo alla porta l'horror vacui e la storia che incombe.
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