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venerdì 10 ottobre 2014
I libri inutili e i cambi (necessari) di stagione
Il periodo è quello giusto: il cambio di stagione va onorato anche con una bella selezione tra i libri della nostra vita. Finora non ne avevo mai buttato neanche uno, ma ultimamente mi sono resa conto che non c'è niente di più sbagliato (almeno per me) della sacralità imposta.
Chi decide che un libro meriti di essere conservato più di un paio di scarpe o di una spugnetta abrasiva?
Non tutti i libri sono utili. Non tutto, in generale, è veramente indispensabile.
Tornando al tema, alcuni libri, in particolare, mi parlano di periodi morti e sepolti che non ho alcuna voglia di ricordare.
Fino a ieri pomeriggio avevo ancora il raccoglitore contenente il primo anno di numeri della Voce delle Marche. Adesso non ce l'ho più. L'ho lasciato sul bidone della carta, in piedi, aperto.
Chissà se i netturbini l'hanno sfogliato giusto un attimo prima di mandarlo al macero.
Nel novembre di dieci anni fa ho preso i miei primi contatti con Fermo. A inizio 2005 ho cominciato a lavorare nel settimanale diocesano, ormai mitizzato nella mia memoria.
I tre anni successivi sono stati tanto belli quanto dolorosi da rievocare. Ogni volta che ne parlo mi risale una rabbia che non ha più senso.
Perciò era ora che mi privassi di quel raccoglitore. Oltretutto, in cantina staziona ancora la collezione completa che avevo fatto da sola, da brava formichina, numero dopo numero.
Qualcosa mi dice che finirò per buttare anche quella.
Necessito di spazio. Di pulizia disco, quella che non faccio mai sul mio pc, sottoponendolo a sforzi eccessivi. Ogni tanto, infatti, il mio povero portatile va in tilt, esattamente come me.
Anche la casa dei miei genitori ha bisogno di un cambio di stagione. Non sarà facile liberare un po' d'armadio per mio padre, ma lo faccio per lui. E anche per mia mamma che approverebbe.
Quindi, tra poco, parto.
Compiendo un viaggio all'indietro che indietro non è.
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martedì 15 aprile 2014
Fermo e l'invincibile distanza
Ci ho pensato a lungo, ma la conclusione è rimasta la stessa cui ero approdata fin da subito. Desidero dedicare qualche riga alla chiusura di Alelà, il piccolo negozio di calze, canotte e costumi, nel quale sono entrata più di una volta, soprattutto quando ho avuto bisogno di fare qualche regalo un po' più di qualità.
Sono rimasta malissimo quando ho saputo la brutta notizia.
Pur non essendo una habituè dei negozi di piazza del Popolo, il magnifico cuore del centro storico di Fermo, mi piaceva infatti dare un'occhiata alle vetrine, come chiunque (non solo di sesso femminile) abbia un minimo di interesse per vestiti, scarpe e accessori vari.
Da quando sono arrivata quassù, però, lo shopping dei miei occhi si è di anno in anno sempre più ridotto, lasciandomi nel cuore la spiacevole sensazione di abitare in un paese fantasma.
So di dire qualcosa di scomodo per chi - giustamente - è molto attaccato alle proprie radici, ma, credetemi, se giorno dopo giorno Fermo mi è diventata sempre più estranea non è solo per colpa mia e del mio essermene restata chiusa nella "torre" troppo a lungo.
Ci ho provato, e continuo tuttora, in fondo, a tentare di sentirmi a casa, ma non ci sono riuscita. E, ahimè, ormai mi sono convinta che mai riuscirò.
Il che non vuol dire che in tutti questi anni non abbia conosciuto persone interessanti e fatto bellissime e indimenticabili esperienze.
E' solo che se non lavori sul posto, se non hai un legame non solo hobbistico con il luogo in cui abiti diventa obiettivamente più difficile.
E non che non abbia provato anche a cercarmi qualche lavoretto. Una volta ci sono anche riuscita ed è stato bello, ma del tutto inutile in prospettiva.
In questo caso, però, il problema è tutto mio e del percorso di studi e professionale troppo poco spendibile in una terra dedita al lavoro prevalentemente manuale (agricoltura+calzaturiero) come questa.
Mettici in più la crisi, mettici la tendenza non solo locale allo svuotamento progressivo dei centri storici a favore dei grandi centri commerciali, mettici le potenti lobby politico-ecclesiastiche contro le quali ho ampiamente sbattuto il muso quando lavoravo per il giornale diocesano. Fatto sta che la mia condizione di estraneità ha finito solo per rafforzarsi. E per aggravarsi ulteriormente per via di questo progressivo sgombero dalle vie che circondano la bella casa-torre nella quale soggiorno, dotata di questa vista mozzafiato che per lo meno ha lenito un po' lo sconforto dei momenti più bui.
Me ne dispiace. Tanto. Non sapete quanto.
Per scelta ho lasciato la grande città, alla ricerca di un luogo e di uno stile di vita più semplice.
E mi devo ritenere persino privilegiata per aver avuto la possibilità di fare almeno un po' il mio lavoro i primi tre anni passati qui con voi.
All'inizio della mia vita marchigiana, tra l'altro, abitavo sulla costa, dov'ero approdata in pieno inverno, accolta da una nevicata epocale che aveva imbiancato persino la spiaggia.
Ricordo ogni giorno, o quasi, passato alla Voce delle Marche, le risate e l'impegno che ci mettevamo, ogni settimana, per fare uscire quel piccolo giornale.
Quel giornalino, come lo chiamò una volta lo zio mantovano di mio marito, facendomi non poco scaldare, era una ragione più che valida per sentire davvero, o per illudersene, di aver trovato il proprio posto nel mondo.
Non è stato così, purtroppo, e anche ammesso che sia anche il mio carattere a indurmi a nutrire sempre un certo senso di distanza dagli ambienti troppo formati e strutturati (non ho mai fatto parte degli scout e agli sport di squadra preferisco di gran lunga quelli individuali), so anche stare con gli altri. So dare il mio contributo e fare un passo indietro a favore di qualcun altro più capace.
L'importante è avere l'occasione di dimostrarlo: il che significa essere accolti per quello che si è, senza preconcetti.
L'epilogo non felice dell'avventura commerciale della mia omonima commerciante di calzette di qualità mi ha amareggiato soprattutto per una ragione personale, insomma: se ha chiuso lei che a Fermo è nata, che per Fermo ha lasciato un posto di lavoro ai tempi stra-blindato in una grossa azienda, se oltre a lei hanno mollato le redini altri commercianti una volta molto gettonati del centro storico, compresa la mia ex edicolante, che oggi fa la fioraia (non so con quale successo) a Porto San Giorgio, perché mai avrei dovuto avere più chance io, che manco ci sono nata?
Faccio un'ultima considerazione, stavolta più politica: come può essere valutata una giunta comunale che ha lasciato andare verso il tracollo un centro così bello?
Che ha tolto i parcheggi ai residenti sulla strada che ospita il Municipio, sperando in questo modo di attrarre più gente, ovviamente automunita, senza pensare minimamente a potenziare altre vie di accesso al centro, altre forme di mobilità cosiddetta leggera che ormai dovrebbero essere un obbligo per qualunque centro che si dica civile?
Come si giudica un Comune che non ha ancora attivato la raccolta differenziata porta a porta, sempre nel medesimo centro storico?
Che cosa devo pensare della frana che si è staccata a pochi metri dalla nostra casa-torre, sembra per colpa della mancata manutenzione alla collina di tufo (o qualcosa del genere) sulla quale sorge il colle più alto della città?
In questo discorso il mio mal di vivere personale non c'entra. Però c'entra, come direbbe Nanni Moretti.
Perché se in questi anni avessi assistito a scelte illuminate, fatte per i cittadini (tutti: fermani di nascita e non) e non per favorire gli interessi di qualcuno; se avessi assistito non allo svuotamento, bensì alla rinascita del centro, alla faccia della tendenza nazionale, forse mi sarei convinta che comunque ho fatto bene a venire qua.
Mi resta sempre il dubbio che in una metropoli sarei stata ancora peggio, anche se nei grossi centri il senso di estraneità sarebbe passato inosservato, dal momento che tutti, più o meno, sono anonimi abitanti di non-luoghi.
Che dire? Ricorrendo a un'espressione che utilizzo spesso in modo ironico, ormai è andata.
E d'altra parte non mi sono del tutto arresa, visto che sto preparando una foto per una manifestazione collettiva di artisti (gli altri, non io), che esprime tutt'altro sentimento rispetto a quello che ho vergato qui.
Come me farebbe chiunque abbia ancora (molta) voglia di vivere. E di partecipare. A modo mio, naturalmente.
Vi saluto con un sogno: dopo anni passati in Germania o chissà dove in giro per il mondo, un giorno, d'inverno, i miei nipoti torneranno a Fermo e si ricorderanno di quando vi avevano venduto i loro giochi da bebè, felici dei guadagni realizzati e della festosa atmosfera che li circondava. E la riconosceranno perché, nonostante il freddo pungente che spesso alberga anche da queste parti, vi troveranno tanta gente di tutte le età, che passeggia circondata dal verde, costeggiando negozi di ogni genere, colorati ed eleganti.
E' un sogno di giovinezza, lo so, fuggevole come quella vera.
E tuttavia è l'unica visione sperabile, non tanto per me, ma per quelli che a Fermo verranno a vivere. Un giorno lontano.
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